Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7162 del 21/12/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 7162 Anno 2016
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: MINCHELLA ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CAPIZZI SIMONE N. IL 26/08/1944
avverso l’ordinanza n. 53/2014 CORTE ASSISE APPELLO di
PALERMO, del 12/01/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANTONIO
MINCHELLA;
lette/sekitité le conclusioni del PG Dott.
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Data Udienza: 21/12/2015

RILEVATO IN FATTO

Il ricorrente è detenuto in espiazione della pena dell’ergastolo, a lui inflitta con sentenza in
data 18.07.2001 della Corte di Assise di Agrigento, confermata dalla Corte di Assise di
Appello di Palermo: egli aveva chiesto di essere giudicato con rito abbreviato nel giugnoluglio dell’anno 2000; successivamente, entrato in vigore il d.l. n° 341/2000 egli, ai sensi
dell’art. 8 del d.l. stesso, aveva rinunziato al rito abbreviato essendo venuta meno – ex

trenta di reclusione. Successivamente l’art. 7 menzionato veniva dichiarato incostituzionale
mentre irrilevante veniva ritenuta la questione di costituzionalità dell’art. 8 dello stesso
testo normativo.
In sede di incidente di esecuzione egli ha chiesto la conversione della pena a lui inflitta in
quella di anni trenta di reclusione: sosteneva di essere stato costretto ingiustamente a
rinunziare al rito abbreviato cui era stato ammesso e fondava la sua istanza sui principi
stabiliti dalla Corte EDU il 17.09.2009 nel caso “Scoppola contro Italia”, dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n° 210/2013 e dalle Sezioni Unite della Corte Suprema con
ordinanza in data 10.09.2012.
Con ordinanza in data 12.01.2015 la Corte di Appello di Palermo rigettava la suddetta
richiesta: si rilevava che anche la giurisprudenza della Suprema Corte, la quale ammetteva
che il condannato all’ergastolo potesse ottenere la riduzione pena ex art. 442
cod.proc.pen. in sede esecutiva, richiedeva tuttavia la condizione che il condannato fosse
stato ammesso al rito abbreviato e che il processo si fosse effettivamente svolto con quelle
forme, per cui i principi del “caso Scoppola” potevano applicarsi soltanto ai casi a quello
sovrapponibili poiché la retroattività della lex mitior non poteva ancorarsi soltanto al dato
delle diverse leggi succedutesi, ma presupponeva che tale dato si unisse alle modalità ed
all’accesso al rito abbreviato. Pertanto la condizione indefettibile era quella per cui il rito
abbreviato doveva essere stato chiesto ed ottenuto tra il 02.01.2000 ed il 24.11.2000 (e
cioè nella vigenza della legge n° 479/1999, art. 30 comma 1 lett. b) e la decisione doveva
essere stata pronunziata dopo il 24.11.2000. Ma si rilevava anche che il Capizzi aveva
rinunziato al giudizio abbreviato e che il processo in esito al quale aveva riportato la pena
dell’ergastolo si era svolto nelle forme del rito ordinario; si respingeva, pertanto, la
prospettazione di una sua costrizione a rinunziare al rito abbreviato e quindi di una
ingiusta privazione del diritto: egli aveva semplicemente effettuato una scelta, le
motivazioni della quale non potevano ora essere appurate; si era trattato di una scelta
libera, che altri imputati nella sua stessa situazione non avevano invece compiuto e detta
scelta aveva comportato la fruizione di tutte le garanzie del processo nel rito ordinario.
Parimenti la Corte di Appello considerava manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale avanzata dal Capizzi circa l’art. 8 del d.l. n° 341/2000, proprio
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art. 7 del medesimo d.l. – la possibilità di fruire della conversione dell’ergastolo in anni

perché non vi era alcuna sostanziale identità tra la fattispecie del condannato e quella del
“caso Scoppola”.
Avverso detta ordinanza proponeva ricorso per Cassazione il Capizzi a mezzo del suo
Difensore, deducendo, ex art. 606 comma 1 lett. b) ed e), cod.proc.pen. l’erronea
applicazione degli artt. 666 cod.proc.pen, 3, 25, 111 e 117 Cost. 6 e 7 CEDU nonché
mancanza od illogicità della motivazione. Si spiegava che il Capizzi, al momento dell’inizio
del processo, non poteva accedere al rito abbreviato, essendo i delitti a lui ascritti punibili

la quale reintroduceva la possibilità per il soggetto imputato di reati punibili con l’ergastolo
di accedere al rito abbreviato: chiesto il rito abbreviato, egli vi veniva ammesso nel luglio
2000; ma poco dopo entrava in vigore il d.l. n° 341/2000 che chiariva che il beneficio della
conversione dell’ergastolo con anni trenta di reclusione era riservata ai soli reati punibili
con l’ergastolo senza isolamento diurno, per i quali il beneficio era limitato all’applicazione
del solo ergastolo. Egli allora, poiché i reati a lui contestati prevedevano astrattamente la
pena dell’ergastolo con isolamento diurno, si avvaleva dell’art. 8 del d.l. n° 341/2000 e
recedeva dal rito abbreviato, preferendo essere giudicato con rito ordinario. Si
ripercorrevano le ragioni della sentenza CEDU in data 17.09.2009 (“caso Scoppola”), la
quale aveva puntualizzato che l’art. 442 cod.proc.pen. è norma di diritto penale
sostanziale e che il d.l. n° 341/2000 non poteva ritenersi come norma di interpretazione
autentica, tanto che le Sezioni Unite (sentenza in data 19.04.2012 n. 34472, Ercolano)
avevano sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del d.l. n°
341/2000 i quali avrebbero tradito il principio dell’affidamento riposto dal soggetto che
aveva scelto il rito abbreviato: la Corte Costituzionale con sentenza n° 210/2013 aveva,
infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato art. 7 nel quale ravvisava una
norma sostanzialmente innovativa che modificava

in malam partem

un contenuto

sa nzionatorio.
Dopo la premessa, il ricorso chiariva che la posizione del ricorrente non era sovrapponibile
a quella del “caso Scoppola”, ma che la rinunzia al rito abbreviato era stata dovuta ad una
norma che aveva vanificato la sua aspettativa e che era stata poi dichiarata
incostituzionale, collocandolo nell’alveo dei soggetti che avevano subito una lesione del
diritto di libertà; la rinunzia al rito alternativo era stata operata in base all’art. 8 del d.l. n°
341/200, il quale è strettamente connesso all’art. 7 che era il suo presupposto: la scelta
era stata quindi effettuata in virtù del principio di affidamento sorto nell’imputato circa la
correttezza dell’operato del Legislatore, altrimenti il ricorrente non avrebbe rinunziato alla
propria scelta (la quale, senza quella norma, non era revocabile). Si contestava che sul
punto la motivazione della Corte di Appello di Palermo non si fosse soffermata e si
insisteva sull’argomentazione secondo la quale la natura processuale dell’art. 8 era quella
di norma legata ad altra di natura sostanziale: senza detta norma egli avrebbe riportato
una pena di anni trenta di reclusione poiché aveva già scelto il rito abbreviato, per cui oggi
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con l’ergastolo; tuttavia nel corso del giudizio era entrata in vigore la legge n° 479/1999,

la questione non sarebbe quella di recuperare un beneficio cui si era rinunziato, ma quella
di riconoscere un diritto che era stato negato per un meccanismo legislativo poi dichiarato
incostituzionale; la lesione quindi si era prodotta a causa dell’affidamento riposto
incolpevolmente verso il Legislatore: la stessa scelta di revocare l’opzione per il rito
abbreviato dovrebbe considerarsi realmente consapevole e libera soltanto sul presupposto
della costituzionalità dell’art. 7, per cui ben poco rilievo avrebbe l’argomento secondo il
quale il Capizzi aveva fruito di ogni possibilità di difesa nel processo ordinario. Era stata

pronunzie recenti in tema di frangibilità del giudicato, il quale sarebbe oggi

ex post

intrinsecamente illegittimo nella parte relativa all’esecuzione della pena irrogata ed
illegittima. Si rileva che la Corte di Appello di Palermo nulla aveva detto in ordine al fatto
che le Sezioni Unite avevano sollevato questione di legittimità costituzionale anche con
riferimento all’art. 8 del d.l. n° 341/2000, circa il quale la Corte Costituzionale non si era
pronunziata soltanto per un difetto di forma nel sollevare la questione relativa. Si conclude
per l’annullamento del provvedimento impugnato o per la determinazione a sollevare una
questione di legittimità costituzionale.
Dette argomentazioni sono state poi riproposte dal ricorrente con una memoria aggiuntiva,
nella quale si prendeva atto della conclusione del P.G.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso deve essere rigettato.
Preliminarmente va detto che il Collegio non reputa fondata la questione di legittimità
costituzionale adombrata nel ricorso: la questione relativa alla costituzionalità dell’art. 8
del d.l. n° 341/2000 appare irrilevante atteso che detta norma è una disposizione
processuale con funzione endoprocessuale, per cui la sua dichiarazione di incostituzionalità
non sortirebbe alcun effetto su di un processo ormai concluso e che non può riaprirsi,
difettando un meccanismo normativo a tal uopo e non potendosi adire la revisione poiché
non vi è pronunzia CEDU che abbia affermato l’iniquità del processo de quo.
Il quadro normativo interno nel cui ambito si pone la questione sollevata dal ricorso è
caratterizzato da una successione di varie leggi.
La disposizione originaria dell’art. 442 cod.proc.pen., comma 2, prevedeva, nel caso di
giudizio abbreviato, la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di
reclusione. Questa norma è stata però dichiarata costituzionalmente illegittima per eccesso
di delega (Corte Cost., sentenza n. 176 del 1991) e, di conseguenza, tra il 1991 e il 1999,
l’accesso al rito abbreviato, sulla base degli artt. 438 e 442 c.p.p., all’epoca vigenti, è stato
precluso agli imputati dei delitti puniti con la pena dell’ergastolo.
La Legge n° 479 del 1999, art. 30, comma 1, lett. b), entrata in vigore il 02.01.2000, ha
modificato l’art. 442 cod.proc.pen., comma 2, reintroducendo la possibilità di procedere

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quindi operata la scelta di avanzare l’istanza in sede esecutiva sulla scorta di varie

con il giudizio abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo, e ha previsto la sostituzione di
questa pena con quella di trenta anni di reclusione. Il D.L. n° 341/2000, entrato in vigore
in data 24.11.2000, e convertito dalla Legge n° 4/2001, all’art. 7, ha modificato
nuovamente l’art. 442 cod.proc.pen., stabilendo, in via di interpretazione autentica della
precedente modifica, che <> (art. 7, comma 1), e
aggiungendo, alla fine dell’art. 442 cod.proc.pen., comma 2, la proposizione: «alla pena

sostituita quella dell’ergastolo» (art. 7, comma 2). In via transitoria, l’art. 8 del
medesimo decreto – legge ha consentito a chi avesse formulato una richiesta di giudizio
abbreviato nel vigore della Legge n° 479/1999, di revocarla entro trenta giorni dall’entrata
in vigore del decreto – legge con conseguente prosecuzione del processo con il rito
ordinario. In seguito a quest’ultima modifica normativa, il giudizio abbreviato, che si
conferma applicabile alla generalità dei delitti puniti con la pena dell’ergastolo, consente al
condannato di beneficiare della sostituzione della pena dell’ergastolo senza isolamento
diurno con quella di trenta anni di reclusione e della sostituzione della pena dell’ergastolo
con isolamento diurno con quella dell’ergastolo semplice.
Parallelamente il Legislatore, nell’anno 2000, dettava le regole sulla operatività nei
processi in corso delle nuove disposizioni in tema di rito abbreviato, stabilendo (cfr. il D.L.
7 aprile 2000, n. 82, art. 4 – ter, nel testo modificato dalla Legge di Conversione 5 giugno
2000, n. 144) che esse fossero applicabili ai processi in corso nei quali, ancorché fosse
scaduto il termine per la proposizione della richiesta, non fosse ancora iniziata l’istruzione
dibattimentale o, nei processi d’appello, non fosse ancora esaurita l’istruzione
dibattimentale disposta ai sensi dell’art. 603 cod.proc.pen. Tali previsioni ben si
armonizzavano con la funzione deflattiva che, anche in regime transitorio, continuava a
caratterizzare il giudizio abbreviato e giustificava la speciale diminuzione di pena in caso di
condanna.
Con sentenza n° 210/2013 la Corte Costituzionale, in parziale accoglimento dell’incidente
sollevato dalle Sezioni Unite di questa Corte con ordinanza n. 34472 del 19 aprile 2012, ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. 24.11.2000 n° 341, art. 7, comma 1,
convertito, con modificazioni, dalla Legge n° 4/2001, in base al rilievo che, costituendo
l’art. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, rispetto all’art. 117, primo comma,
Cost. una norma interposta, la sua violazione, riscontrata dalla Corte Europea dei diritti
dell’uomo con la sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009, Scoppola contro
Italia, comporta l’illegittimità costituzionale della suddetta norma. Al contempo la Consulta
ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale del D.L. 24 novembre
2000, n. 341, art. 7, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 19 gennaio 2001, n.
4, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dalle Sezioni Unite di questa Corte con
l’ordinanza in precedenza richiamata. Infine, ha dichiarato inammissibile, per difetto di
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dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è

rilevanza, la questione di legittimità costituzionale del D.L. 24 novembre 2000, n. 341, art.
8, convertito, con modificazioni, dalla L. 19 gennaio 2001, n. 4, sollevata, in riferimento
all’art. 3 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della
Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, sollevata dalle Sezioni Unite di
questa Corte con la medesima ordinanza sopra indicata.
Tanto premesso in ordine al contesto normativo in cui si colloca la questione, il Collegio

richiesta di ammissione al giudizio abbreviato dopo l’approvazione della L. 16 dicembre
1999, n. 479, (vigente dal 2 gennaio 2000), il cui art. 30, comma 1, lett. b), reintroduceva
l’ammissibilità del giudizio abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo, stabilendo
genericamente che, in caso di condanna, la pena perpetua doveva essere sostituita con
quella di trenta anni di reclusione.
Risulta, inoltre, che successivamente il ricorrente revocava la richiesta di giudizio
abbreviato, in precedenza formulata, avvalendosi del disposto di cui al D.L. n. 341 del
2000, art. 8.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non può riconoscersi natura sostanziale
alla disciplina applicata dal Giudice della cognizione che, preso atto dell’intervenuta revoca
della richiesta di giudizio abbreviato avanzata dall’imputato, ha disposto la prosecuzione
del processo nelle forme ordinarie. Il Legislatore, infatti, in presenza del mutato quadro
ordinamentale e delle profonde innovazioni che avevano contrassegnato l’intero scenario,
sul piano dei presupposti e delle cadenze, del rito alternativo, consentiva, in via transitoria
e in presenza di precisi presupposti tassativamente elencati (astratta punibilità dei reati
contestati all’imputato con la pena dell’ergastolo con isolamento diurno; precedente
formulazione della domanda in base alle modifiche introdotte all’art. 442 c.p.p., comma 2,
dalla L. n. 479 del 1999, art. 30 comma 1, lett. b, ovvero in base al D.L. 7 aprile 2000, n.
82, art. 4 – ter, nel testo modificato dalla Legge di Conversione 5 giugno 2000, n. 144;
rispetto del termine di trenta giorni decorrente dalla data di entrata in vigore del suddetto
decreto – legge) la revoca della domanda di giudizio abbreviato in precedenza presentata.
Tale scelta costituiva un ragionevole bilanciamento tra il mutato quadro normativo di
riferimento e le esigenze di deflazione insite – anche in regime transitorio – nel giudizio
abbreviato rispetto all’ordinario epilogo dibattimentale con conseguente speciale
diminuzione della pena in ipotesi di condanna.
Da tali considerazioni derivano due evidenti corollari. Per un verso, infatti, risolvendosi la
diminuente di pena in un trattamento premiale accessorio che scaturisce dalla scelta,
ormai unilaterale, di un rito che si configura a struttura probatoria eventuale e contratta, è
evidente che un siffatto trattamento sanzionatorio vive e trae la propria ragione d’essere
esclusivamente nell’alveo del rito cui accede, senza pertanto assumere – come pure il
ricorrente pretenderebbe – l’autonomia tipica di una disciplina di natura sostanziale. Sotto

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osserva che dal testo del provvedimento impugnato emerge che il ricorrente formulava

altro profilo, è del tutto evidente che il riconoscimento della diminuente del rito pur in
presenza dell’intervenuta revoca della domanda di accesso allo stesso in precedenza
avanzata, sarebbe del tutto eccentrica rispetto ad un ipotetico “recupero” di facoltà ormai
naturalmente precluse, attesa l’omessa rinuncia al diritto alla prova nel contraddittorio di
merito, essendo stato tale diritto per definizione già integralmente esercitato.
Paradossalmente, non accedendo a tale ipotesi ricostruttiva, si assisterebbe ad un
incoerente “privilegio”, giacché, senza alcuna giustificazione, si dovrebbe applicare una

alle “limitazioni” probatorie che da esso conseguono.
Non può neppure ritenersi che l’intervenuta revoca della richiesta di giudizio abbreviato sia
stata “viziata” dalla disciplina contenuta nel D.L. 24 novembre 2000, n. 341, art. 7,
convertito, con modificazioni, dalla L. 19 gennaio 2001, n. 4, atteso che l’imputato è stato
posto in grado di esercitare una libera e consapevole scelta tra le maggiori garanzie
derivanti dalla celebrazione del dibattimento e i benefici premiali scaturenti dalla scelta del
rito abbreviato.
Una conclusione del genere appare coerente con i principi elaborati dalla giurisprudenza di
questa Corte in tema di preclusione. Ancor prima di esplicarsi quale limite estremo segnato
dal giudicato, la preclusione assolve la funzione di scandire i singoli passaggi della
progressione del processo e di regolare i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri delle parti
e del Giudice, dai quali quello sviluppo dipende, con la conseguenza che la preclusione
rappresenta il presidio apprestato dall’ordinamento per assicurare la funzionalità del
processo in relazione alle sue peculiari conformazioni risultanti dalle scelte del Legislatore.
Il processo, infatti, quale sequenza ordinata di atti, modulata secondo un preciso ordine
cronologico di attività, di fasi e di gradi, è legalmente tipicizzato in conformità di
determinati criteri di congruenza logica e di economicità procedimentale in vista del
raggiungimento di un risultato finale, nel quale possa realizzarsi l’equilibrio tra le esigenze
di giustizia, di certezza e di economia. In quest’ottica è evidente che la preclusione
costituisce un istituto coessenziale alla stessa nozione di processo, non concepibile se non
come serie ordinata di atti normativamente coordinati tra loro, ciascuno dei quali all’interno dell’unitaria fattispecie complessa a formazione successiva – è condizionato da
quelli che lo hanno preceduto e condiziona, a sua volta, quelli successivi secondo precise
interrelazioni funzionali. L’istituto della preclusione, attinente all’ordine pubblico
processuale, è intrinsecamente qualificato dal fatto di manifestarsi in forme differenti,
accomunate dal risultato di costituire un impedimento all’esercizio di un potere del Giudice
o delle parti in dipendenza dell’inosservanza delle modalità prescritte dalla legge
processuale, o del precedente compimento di un atto incompatibile, ovvero del pregresso
esercizio dello stesso potere. Nel caso di specie, il ricorrente, revocando la domanda di
giudizio abbreviato in precedenza avanzata, ha compiuto un atto inconciliabile con la

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diminuente di pena, totalmente disancorata da qualsiasi riconducibilità al rito speciale ed

volontà di avvalersi del suddetto rito semplificato e delle conseguenze premiali da esso
derivanti e ha già “consumato” l’esercizio delle facoltà a lui assegnate.
Tali principi, come autorevolmente affermato dalla Corte Costituzionale (sentenze n. 236
del 2011 e n. 210 del 2013) non sono estranei alla Convenzione Europea dei diritti
dell’uomo, come si desume dalla sentenza “Scoppola”, che vi ha ravvisato un limite
all’espansione della legge penale più favorevole. È, quindi, da ritenere che, in linea di
principio, l’obbligo di adeguamento alla Convenzione, nel significato attribuitole dalla Corte

Scoppola”, connotato da significative diversità rispetto a quello oggetto del presente
scrutinio, nei quali (come quello in esame) per l’ordinamento interno si è formato il
giudicato, e che le deroghe a tale limite vanno ricavate, non dalla CEDU, che non le esige,
ma nell’ambito dell’ordinamento nazionale (Corte Cost. sent. n. 210 del 2013).
Sulla base delle considerazioni svolte, il Collegio ritiene che il ricorso debba essere
rigettato e che il ricorrente debba essere condannato al pagamento delle spese
processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2015.

di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della decisione nel “caso

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