Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7128 del 22/12/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 7128 Anno 2016
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: FIDELBO GIORGIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Biffi Paolo Pietro Stefano, nato a Milano il 30/10/1963
avverso la sentenza del 10/04/2014 emessa dalla Corte d’appello di Milano;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Giorgio Fidelbo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Francesco Salzano, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la decisione indicata in epigrafe la Corte d’appello di Milano, in
riforma della sentenza emessa il 6 aprile 2011 dal G.u.p. del Tribunale di Lodi
con cui Paolo Pietro Stefano Biffi era stato condannato alla pena di dieci mesi
e giorni venti reclusione per il delitto di calunnia, ha dichiarato l’estinzione del

Data Udienza: 22/12/2015

reato per intervenuta prescrizione, confermando le statuizioni civili in favore
di Annamaria Naborri, costituita parte civile.

2. L’avvocato Giampiero Perilli, nell’interesse dell’imputato, ha presentato
ricorso per cassazione, limitatamente al capo della sentenza che ha statuito
sugli interessi civili.

comma 2 c.p.p. e conseguente vizio di motivazione: assume che la Corte
territoriale avrebbe dovuto ritenere l’avvenuta revoca della costituzione di
parte civile in mancanza del deposito delle conclusioni scritte, con la
conseguenza che la condanna al risarcimento del danno contenuta nella
sentenza di primo grado e confermata in appello deve essere annullata.
Con il secondo motivo denuncia l’erronea applicazione dell’art. 368 c.p. e
la manifesta illogicità della motivazione: in particolare, sostiene l’insussistenza
della calunnia sia dal punto di vista oggettivo, in quanto l’imputato avrebbe
denunciato un fatto realmente accaduto, che dal punto di vista soggettivo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Quanto al primo motivo, si rileva che dall’esame degli atti non risulta
il mancato deposito delle conclusioni scritte della parte civile: il processo
verbale dell’udienza del 6.4.2011, tenutasi davanti al G.u.p. del Tribunale di
Lodi, dà atto del deposito delle conclusioni scritte della parte civile,
unitamente alla nota spese, sicché il motivo dedotto appare del tutto
infondato, facendo fede l’attestazione del verbale.
In ogni caso, questo Collegio ritiene, aderendo ad un orientamento
consolidato, che l’inosservanza della norma di cui all’art. 523 comma 2 cod.
proc. pen. per omessa determinazione nelle conclusioni scritte delle parti civili
dell’ammontare dei danni dei quali si chiede il risarcimento non produca
alcuna nullità, né impedisca al giudice di pronunciare condanna generica al
risarcimento, in quanto l’esercizio dell’azione civile ha come unica condizione
essenziale la richiesta di risarcimento, la cui entità può essere precisata in
altra sede dalla stessa parte o rimessa alla prudente valutazione del giudice
(Sez., IV, 30 novembre 2004, n. 13195, Dorgnak; Sez. VI, 26 marzo 2003, n.

2

Con il primo motivo deduce l’inosservanza dell’art. 523 comma 2 e 82

18155, Paparella; Sez. V, 14 febbraio 2002, n. 20475, Avini; Sez. II, 20
marzo 1997, n. 3792, Carena ad altri). La cosiddetta “immanenza” della
costituzione di parte civile viene meno soltanto in presenza della revoca
espressa ovvero nei casi di revoca implicita previsti dal citato art. 82 comma 2
c.p.p., che però non possono essere estesi al di fuori dei casi espressamente
previsti dalla norma, che trova applicazione solo nel giudizio di primo grado

24360, Rago ed altri). Pertanto, la mancata presentazione delle conclusioni
scritte e della nota spese nel giudizio di appello non comporta la revoca
implicita della costituzione di parte civile qualora la domanda di rifusione delle
spese sia stata, ancorché genericamente e oralmente, proposta, in quanto
l’art. 153 disp. att. c.p.p. non prevede alcuna sanzione al riguardo (Sez. V, 27
ottobre 2006, n. 38942, Calonico ed altri).
1.2. L’altro motivo è manifestamente infondato, in quanto il ricorrente
propone una lettura alternativa dei risultati probatori acquisiti senza indicare
alcuna illogicità o contraddittorietà della motivazione contenuta nella sentenza
impugnata, che invece appare coerente nell’impianto argomentativo e corretta
nell’applicazione della norma incriminatrice. Infatti, l’accertamento in ordine
alla sussistenza della calunnia si basa sulle testimonianze di Cadoni e di Cesa
che hanno riferito che la Naborri aveva ammesso, parlando con l’imputato, di
avere inviato i documenti prima della firma del contratto, riconoscendo lo
sbaglio e, inoltre, impegnandosi a rimediare all’errore, atteggiamento questo
che dimostra la buona fede della donna. Invece, nella querela l’imputato
riferisce che la Naborri avrebbe indotto la Garatti, consulente del lavoro del
Biffi, ad avviare il procedimento della sua assunzione a tempo indeterminato
presso la sua società e sua insaputa; l’accusa di truffa si pone, quindi, in
insanabile contrasto con la consapevolezza dell’imputato della buona fede
della Naborri, come risulta dalle dichiarazioni testimoniali suindicate.
Le conclusioni cui pervengono le sentenze di merito non meritano
censure, neppure agli effetti delle statuizioni civili.

2. In conclusione, all’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore
della cassa delle ammende, che si ritiene equo determinare in euro 1.500,00.

9511
3

(Sez. VI, 23 maggio 2013, n. 25012, Leonzio; Sez. IV, 28 maggio 2008, n.

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della cassa
delle ammende.

Il Consiglie e stensore

Il Presidente

Così deciso il 22 dicembre 2015

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