Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7125 del 09/02/2016


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Penale Ord. Sez. 5 Num. 7125 Anno 2016
Presidente: LAPALORCIA GRAZIA
Relatore: PISTORELLI LUCA

ORDINANZA

sui ricorsi presentati da:
Marino Giuseppe, nato ad Angri, il 20/8/1972;
De Gregorio Marisa, nata ad Angri, il 15/1/1960;

avverso la sentenza del 30/6/2014 della Corte d’appello di Salerno;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Giovanni
Di Leo, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito per la parte civile l’avv. Francesco Attanasio, che ha concluso chiedendo
l’inammissibilità del ricorso.

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Data Udienza: 09/02/2016

RITENUTO IN FATTO
1.Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Salerno ha confermato la condanna,
pronunziata anche agli effetti civili ed a seguito di giudizio abbreviato, di Marino
Giuseppe e De Gregorio Marisa per i reati, come rispettivamente contestati, di violenza
privata, lesioni volontarie, ingiurie e occupazione abusiva di immobili commessi ai
danni di Iovino Ciro e Astarita Concetta al fine di costringerli a vendere l’appartamento
di loro proprietà sito nello stabile di comune residenza. Deve ancora essere precisato

esclusivamente la condanna della De Gregorio, atteso che il Marino era stato già
assolto in primo grado, e soltanto per le lesioni subite dallo Iovino, non avendo la
Astarita presentato querela.
2. Avverso la sentenza ricorrono entrambi gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori
con atti autonomi, ma sovrapponibili nel contenuto, con i quali vengono dedotti errata
applicazione della legge penale e vizi della motivazione. In tal senso i ricorrenti
lamentano innanzi tutto la natura meramente apparente dell’apparato giustificativo
della decisione impugnata, la quale si limiterebbe ad un generico rinvio per relationem
alla motivazione della sentenza di primo grado senza confutare specificamente le
censure proposte con i gravami di merito. Non di meno la Corte territoriale avrebbe
omesso di verificare l’attendibilità delle persone offese alla luce del contesto dei
rapporti deteriorati esistenti tra le due coppie, non tenendo conto delle ragioni di tale
deterioramento e della loro imputabilità ai comportamenti posti in essere proprio dalle
persone offese. Quanto poi all’imputazione di violenza privata, non sarebbe stato
dimostrato che effettivamente i coniugi Iovino vendettero l’appartamento agli imputati
e comunque la sentenza avrebbe ignorato come dagli atti emerga che nell’ambito
dell’iniziale cordialità dei rapporti intercorrenti tra i protagonisti della vicenda,
comunque lo Iovino aveva fatto una promessa in tal senso al Marino, talchè alcuna
campagna intimidatoria sarebbe stata necessaria per conseguire un risultato di fatto
già acquisito in maniera del tutto lecita. Con riguardo al delitto di cui all’art. 633 c.p.
erroneamente i giudici dell’appello avrebbero ritenuto integrata la fattispecie attraverso
l’abusiva temporanea occupazione del posto auto di pertinenza delle persone offese,
condotta invero non corrispondente a quella tipizzata dalla norma incriminatrice
menzionata, mentre alcuna indagine sarebbe stata svolta in merito all’effettiva
configurabilità dell’elemento soggettivo del reato. Manifestamente illogica sarebbe poi
la motivazione della sentenza nella parte in cui attribuisce acriticamente credito
assoluto alle dichiarazioni delle persone offese in merito alla dinamica che avrebbe
provocato le lesioni subite – nonostante la sua inverosimiglianza – esclusivamente sulla
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che, con riguardo al reato di cui all’art. 582 c.p., la conferma ha avuto ad oggetto

base del fatto che queste sarebbero state riscontrate dalle certificazioni mediche che le
attestano. Infine quanto alle contestate ingiurie i ricorrenti lamentano il mancato
riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 599 c.p. e comunque il mancato
assorbimento del reato in quello di violenza privata.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Preliminarmente è necessario rilevare che tra i reati contestati agli imputati per cui è

dall’art.1 d. Igs. 15 gennaio 2016 n. 7 (entrato in vigore lo scorso 6 febbraio essendo
stato pubblicato sulla Gazz. Uff. n. 17 del 22 gennaio 2016) con conseguente aboliti°
del reato di ingiuria come fatto tipico di rilevanza penale. Se dunque la sentenza
impugnata deve essere certamente annullata agli effetti penali in parte qua perché il
fatto non è più previsto come reato, si pone il problema delle statuizioni civili
pronunziate nei gradi di merito conseguentemente all’accertamento del fatto contestato
ed alla sua attribuibilità agli imputati.

2.

La questione dell’impatto sulle statuizioni civili dell’abrogazione della norma

incriminatrice è stata ripetutamente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità con
specifico riguardo all’ipotesi della revoca della sentenza di condanna divenuta
definitiva.
2.1 In proposito è consolidato l’insegnamento di questa Corte per cui la eventuale
revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis ai sensi dell’art. 2, comma
secondo, c.p. conseguente alla perdita del carattere di illecito penale del fatto, non
comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con la
conseguenza che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni
civili derivanti da reato, le quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei
confronti della parte danneggiata (Sez. 5, n. 4266/06 del 20 dicembre 2005, Colacito,
Rv. 233598; Sez. 5, n. 28701 del 24 maggio 2005, P.G. in proc. Romiti ed altri, Rv.
231866; Sez. 6, n. 2521 del 21 gennaio 1992, Dalla Bona, Rv. 190006).
2.2 A fondamento dell’illustrato principio (condiviso anche da Corte Cost. ord. n. 273
del 2002 sulla base dell’ulteriore argomentazione per cui la formula assolutoria
adottata a seguito della sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice “non è fra
quelle alle quali l’art. 652 c.p.p. attribuisce efficacia nel giudizio civile”) viene osservato
che l’abrogazione della norma penale in presenza di una condanna irrevocabile
comporta la revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecuzione, ma
limitatamente ai capi penali e non anche a quelli civili, la cui esecuzione ha comunque
luogo secondo le norme del codice di procedura civile: sicché se vi è stata costituzione
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intervenuta condanna vi è anche quello di cui all’art. 594 c.p., disposizione abrogata

di parte civile, con conseguente condanna al risarcimento dei danni a carico
dell’imputato o del responsabile civile, questa statuizione resta ferma. Infatti, se l’art. 2
c.p. disciplina espressamente la sola cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali
della condanna, ne deriva, attraverso un’argomentazione a contrario, che le
obbligazioni civili derivanti dal reato abrogato non cessano, in quanto per il diritto del
danneggiato al risarcimento dei danni trovano applicazione i principi generali sulla
successione delle leggi stabiliti dall’art. 11 preleggi, non quelli contenuti nel citato art. 2
c. p.

costituisce illecito civile nel momento in cui è stato commesso, su di esso non
influiscono le successive vicende riguardanti la punibilità del reato ovvero la rilevanza
penale di quel fatto e cioè una sorta di “indifferenza” dei capi civili della sentenza
rispetto alla sorte della regiudicanda penale (in questo senso Sez. 6, n. 31957 del 25
gennaio 2013, Cordaro e altri, Rv. 255598 con riguardo, però, alla questione della
conservazione delle statuizioni civili relative alla condanna per il reato di concussione a
seguito della riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 319-quater c.p. in conseguenza
dell’entrata in vigore della I. n. 190/2012 ed in un caso in cui la rilevata prescrizione del
reato di induzione indebita comunque non esentava la Corte dall’esaminare il ricorso in
relazione alle suddette statuizioni in forza del disposto dell’art. 578 c.p.p.).

3. I ricordati principi non sembrano poter valere anche nel caso in cui l’aboliti° criminis
sia intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, ostandovi
il combinato disposto di cui agli artt. 185 c.p. e 74 e 538 c.p.p.
3.1 Ed infatti, anche nel giudizio di impugnazione, venendo meno la possibilità di una
pronunzia definitiva di condanna agli effetti penali perché il fatto non è più previsto
dalla legge come reato, viene meno anche il primo presupposto dell’obbligazione
restitutoria o risarcitoria per cui è concesso l’esercizio nel processo penale dell’azione
civile, con la conseguenza che, nel giudizio di legittimità, dovrebbero essere revocate le
statuizioni civili adottate in quelli di merito.
3.2 Né tali conclusioni sembrerebbero messe in discussione dal fatto che, in caso di
estinzione del reato per amnistia o prescrizione (ipotesi in cui parimenti non si forma il
giudicato penale di responsabilità), al giudice dell’appello e a quello di legittimità sia
attribuito il potere di decidere l’impugnazione ai soli fini civili e che al primo sia
riconosciuto altresì quello di accogliere il gravame della parte civile avverso la sentenza
di proscioglimento pronunziata in primo grado condannando ai soli effetti civili
l’imputato per la prima volta nel giudizio d’appello. Infatti quelle che costituiscono delle
sostanziali deroghe alla regola generale evocata in precedenza trovano il loro titolo di
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2.3 Sulla scorta degli illustrati principi si è altresì affermato che, quando un fatto

legittimazione, come noto, nelle espresse previsioni di cui, rispettivamente, agli artt.
578 e 576 c.p.p. Il difetto di una analoga previsione anche per il caso dell’abrogatio
cum abolitio sembra dunque confermare a contrario la suddetta regola.

4. Quanto poi alla compatibilità con i principi della carta fondamentale (e segnatamente
quelli di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost.) delle rassegnate conclusioni va ricordato
innanzi tutto che la Corte Costituzionale ha ripetutamente sottolineato «come
l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in

nel processo civile […], e ciò in quanto tale azione assume carattere accessorio e
subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze
e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè
dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida
definizione dei processi» (sentenza n. 353 del 1994; in senso analogo, sentenze n. 217
del 2009 e n. 443 del 1990; ordinanze n. 424 del 1998 e n. 185 del 1994). Soluzione
legislativa, questa, nella quale non potrebbe scorgersi alcun profilo di irrazionalità,
stante la preminenza delle predette esigenze rispetto a quelle collegate alla risoluzione
delle liti civili (ordinanza n. 115 del 1992) e considerato che si discute di
«condizionamenti giustificati dal fatto che oggetto dell’azione penale è l’accertamento
della responsabilità dell’imputato» (sentenza n. 532 del 1995). Di conseguenza, una
volta che il danneggiato, «previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli
svantaggi insiti nella opzione concessagli», scelga di esercitare l’azione civile nel
processo penale, anziché nella sede propria, «non è dato sfuggire agli effetti che da
tale inserimento conseguono», nei termini dianzi evidenziati (sentenza n. 94 del 1996,
ordinanza n. 424 del 1998).
4.1 In secondo luogo è reiterato, nella giurisprudenza costituzionale, il rilievo per cui
«l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione dei
giudizi, penale e civile», essendo «prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di
speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse del
soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo» (sentenza
n. 168 del 2006; in senso analogo, sentenza n. 23 del 2015). In questa cornice,
l’eventuale impossibilità, per il danneggiato, di partecipare al processo penale non
incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di
agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento
del danno nella sede civile, di modo che ogni separazione dell’azione civile dall’ambito
del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del
diritto alla tutela giurisdizionale, giacché la configurazione di quest’ultima, in vista delle
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linea di principio differente rispetto a quella determinata dall’esercizio dell’azione civile

esigenze proprie del processo penale, è affidata al legislatore (sentenze n. 168 del
2006, n. 433 del 1997 e n. 192 del 1991; ordinanza n. 124 del 1999).
4.2 Sulla scorta di tali consolidate affermazioni di principio, il giudice delle leggi ha
avuto di recente modo di ribadire (Corte Cost. n. 12 del 2016) la legittimità della scelta
di non mantenere la competenza del giudice penale a pronunciare sulle pretese
civilistiche anche quando l’affermazione della responsabilità non abbia luogo, giacchè
tale esito è ben noto al danneggiato nel momento in cui sceglie se esercitare l’azione di

sistema processuale gli consente senza limitazioni di sorta e, in particolare, senza la
remora legata alla sospensione obbligatoria del processo civile in pendenza del
processo penale sul medesimo fatto, già stabilita dal codice di procedura penale
abrogato. Secondo la Corte, pertanto, «l’impossibilità di ottenere una decisione sulla
domanda risarcitorìa laddove il processo penale si concluda con una sentenza di
proscioglimento per qualunque causa (salvo che nei limitati casi previsti dall’art. 578
c.p.p.) costituisce, dunque, uno degli elementi dei quali il danneggiato deve tener conto
nel quadro della valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi delle due
alternative che gli sono offerte».

5. Se dunque appare proponibile anche nel caso di specie una soluzione per cui,
nonostante la condanna nei gradi di merito degli imputati, l’intervenuta abrogazione
dell’art. 594 c.p. ponga nel nulla anche le statuizioni civili – senza che pertanto al
giudice di legittimità sia consentito esaminare il ricorso ai limitati fini di una loro
eventuale conferma – non può esimersi dall’evidenziare come gli stessi contenuti del d.
Igs. n. 7/2016, così come quelli del “parallelo” d. Igs. n. 8/2016 (entrambi emanati in
attuazione della delega contenuta nell’art. 2 I. n. 67/2014), rivelino anche la possibilità
di altre ipotesi, profilandosi così la concreta possibilità di contrasti interpretativi in
grado di generare sperequazioni applicative.
5.1 Va innanzi tutto evidenziato come il citato d. Igs. n. 7/2016 non si sia limitato
all’abolizione di alcuni titoli di reato, ma – in esecuzione di quanto imposto dalla legge
delega – abbia contestualmente provveduto a creare l’inedita figura sanzionatoria delle
“sanzioni pecuniarie civili” cui ha contestualmente assoggettato una serie di fatti
specificamente tipizzati e che corrispondono a quelli già previsti dalle norme
incriminatrici abrogate. L’irrogazione delle suddette sanzioni consegue, ai sensi dell’art.
8 del decreto, all’accoglimento della domanda risarcitoria proposta da colui che è stato
danneggiato dalle condotte tipizzate dal precedente art. 4 e dunque è inevitabilmente
subordinata all’iniziativa di quest’ultima, ma, soprattutto, è evidente che il fatto illecito
punito con la sanzione è il medesimo che genera l’obbligazione risarcitoria (peraltro non
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danno nella sede sua propria, o inserirla nel processo penale; scelta che il vigente

più ai sensi dell’art. 2043 c.c. bensì delle speciali disposizioni di nuovo conio), salva la
precisazione – contenuta nell’art. 3 – che la reazione “punitiva” è ammessa
esclusivamente nell’ipotesi in cui l’autore abbia commesso le condotte tipizzate con
dolo. I proventi delle menzionate sanzioni non sono però destinate al danneggiato, ma
è invece previsto dall’art. 10 del decreto che vengano devoluto alla Cassa della
Ammende.
5.2 Dalla sommaria esposizione dei contenuti della novella emerge la problematica
classificazione della “nuova” figura sanzionatoria configurata, ma altresì della effettiva

configurazione di fattispecie sanzionatorie specificamente tipizzate ricalcando il
contenuto delle norme penali abrogate, l’autonomia delle sanzioni rispetto al
risarcimento del danno e la destinazione erariale dei loro proventi sono tutti elementi,
infatti, che apparentemente concorrono a definire un’ipotesi di depenalizzazione, non
diversamente da quanto previsto dal d. Igs. n. 8/2016, con il quale altre figure di reato
sono state contestualmente trasformate in illeciti amministrativi. In particolare proprio
la destinazione dei proventi delle sanzioni ne accentua il carattere esclusivamente
afflittivo e la venatura pubblicistica, risultando apparentemente irrilevante ai fini
qualificatori che la loro applicazione rimanga inscindibilmente connessa all’iniziativa del
danneggiato, atteso che anche le abrogate figure di reato erano comunque procedibili
esclusivamente a querela della persona offesa. Il fatto infine che le suddette sanzioni
siano state classificate dal legislatore come “civili” non sembra invece circostanza in
grado di assumere un significato decisivo ai fini qui di interesse. Infatti, come già
accennato, l’operazione legislativa ha carattere inedito e la questione non è tanto
quella di dell’esistenza di spazi sistematici in grado di legittimare l’etichetta normativa,
quanto piuttosto quella di stabilire se l’inedita figura sanzionatoria abbia o meno
carattere punitivo e abbia sostanzialmente sostituito la sanzione penale in relazione ai
fatti che in precedenza integravano un reato. Interrogativo cui sembra potersi dare, per
l’appunto, risposta affermativa alla luce degli indici normativi evidenziati in precedenza.
5.3 E’ a questo punto doveroso rilevare come entrambi i decreti contengano una
disciplina transitoria (rispettivamente contenuta nell’art. 12 del n. 7/2016 e nell’art. 8
del n. 8/2016).
5.3.1 Tratto comune è costituito dall’applicabilità tanto delle sanzioni amministrative
relative agli illeciti depenalizzati, quanto di quelle pecuniarie civili, anche ai fatti
commessi anteriormente all’entrata in vigore dei due decreti, salvo che in relazione ai
medesimi non sia già intervenuta una pronunzia definitiva all’esito del procedimento
penale, della quale in entrambi i testi normativi è prevista la revoca a cura del giudice

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natura di quello che la stessa rubrica legis qualifica come intervento abrogativo. La

dell’esecuzione attraverso la procedura semplificata di cui al quarto comma dell’art.
667 c.p.p.
5.3.2 L’art. 9 del d. Igs. n. 8/2016 contiene però ulteriori disposizioni transitorie al fine
di disciplinare, nell’ipotesi che la depenalizzazione sia sopravvenuta nel corso del
procedimento penale, la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente
per l’irrogazione delle sanzioni amministrative e la sorte delle statuizioni civili già
adottate. In tal senso il terzo comma dell’articolo citato prevede espressamente che
«se l’azione penale è stata esercitata, il giudice pronuncia, ai sensi dell’articolo 129 del

dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del comma 1.
Quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione, nel
dichiarare che il fatto non e’ previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione
ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi
civili».
5.3.3 Tale ultima disposizione non sembra trovare riscontro nei precedenti interventi di
depenalizzazione e, pervero, nemmeno era stata commissionata dalla legge delega
(ancorchè possa ritenersi eventualmente legittimata dal conferimento al legislatore
delegato da parte dell’art. 2 comma 4 I. n. 67/2014 del potere di introdurre norme di
coordinamento) ed all’evidenza riecheggia i contenuti dell’art. 578 c.p.p., che, come
noto, parimenti autorizza il giudice dell’impugnazione a decidere il gravame agli effetti
civili qualora il reato debba essere dichiarato estinto per amnistia o prescrizione. Con
riguardo ai reati depenalizzati, dunque, non vi è dubbio che il giudizio penale prosegua
per decidere sulla conferma delle statuizioni civili eventualmente adottate in primo
grado, con la conseguente applicazione dei principi elaborati per l’appunto in
riferimento alla fattispecie disciplinata dal citato art. 578 del codice di rito. Né può
dubitarsi della legittimità della norma, atteso che – come ricordato dalla già
menzionata sentenza n. 12/2016 della Corte Costituzionale – «il legislatore resta
certamente libero, nella sua discrezionalità, di introdurre, in vista di una più efficace
tutela della persona danneggiata dal reato e del conseguimento di maggiori risparmi
complessivi di risorse giudiziarie, una disciplina arnpliativa dei casi nei quali il giudice
penale si pronuncia sulle questioni civili, pur in assenza di una condanna
dell’imputato».
5.4 n legislatore delegato non ha riprodotto la disposizione di cui si tratta anche nel d.
Igs. n. 7/2016. Il significato di tale scelta può essere determinato alla luce del canone
interpretativo dell’ubi voluit dixit, ma è praticabile anche una soluzione diversa alla luce
di dati normativi nel loro complesso non del tutto lineari e coerenti.

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codice di procedura penale, sentenza inappellabile perchè il fatto non è previsto

5.4.1 Innanzi tutto, qualora dovesse convenirsi che anche il citato decreto configuri in
realtà un intervento di depenalizzazione, potrebbe apparire irragionevole la selettività
della scelta legislativa, a fronte di situazioni omologhe, tanto più nella misura in cui
sono i procedimenti ad oggetto i reati “abrogati” (tutti procedibili a querela di parte,
salvo quello previsto dall’art. 486 c.p.) quelli in cui è più elevata la probabilità che sia
stata esercitata l’azione civile.
5.4.2 Potrebbe allora ritenersi che la mancata riproduzione di una disposizione analoga
a quella contenuta nel terzo comma dell’art. 9 del d. Igs. n. 8 costituisca una lacuna

ultimo senso, infatti, vanno evidenziati alcuni indici normativi contenuti nell’art. 8 del
decreto che disciplina il procedimento applicativo delle sanzioni pecuniarie civili. In
particolare il primo comma dell’articolo citato prevede che le stesse vengano applicate
dal giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno, la cui
formulazione è sufficientemente ambigua per poter essere interpretata anche nel senso
per cui quest’ultimo, nel regime transitorio, sia quello penale davanti al quale la
suddetta azione è stata effettivamente esercitata (ed al quale dunque spetterebbe
anche l’applicazione delle suddette sanzioni, comunque dovuto, come illustrato, anche
per i fatti precedenti all’entrata in vigore della novella sui quali non si sia già formato il
giudicato penale).
5.4.3 Sotto altro profilo potrebbe invece ritenersi comunque applicabile, anche oltre il
limite dell’intervenuta definitività della sentenza di condanna, il principio di insensibilità
delle statuizioni civili alle vicende della regiudicanda penale qualora il fatto già
costituente reato continui ad integrare un illecito per cui è prevista l’irrogazione di una
sanzione punitiva, con conseguente applicazione analogica dell’art. 578 c.p.p. e della
disposizione di cui all’art. 9 del d. Igs. n. 8/2016 in quanto ritenuti espressione del
suddetto principio generale, prospettandosi in tal senso un limite al principio di
accessorietà dell’azione civile nel giudizio di impugnazione.

6. Stante la pregiudizialità della questione prospettata e ritenuto che la stessa possa
dare luogo a contrasti interpretativi, appare dunque opportuno rimettere i ricorsi alle
Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p. perché le stesse si esprimano sul seguente
quesito: «Se, a seguito dell’abrogazione dell’art. 594 c.p. ad opera dell’art. 1 d.lgs. 15
gennaio 2016 n. 7, debbano essere revocate le statuizioni civili eventualmente adottate
con la sentenza di condanna non definitiva per il reato di ingiuria pronunziata prima
dell’entrata in vigore del suddetto decreto».

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involontaria o che il legislatore abbia addirittura ritenuto superfluo provvedervi. In tale

P.Q.M.

Rimette i ricorsi alle Sezioni Unite.

Così deciso il 9/2/2016

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