Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7086 del 16/10/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 7086 Anno 2016
Presidente: FUMO MAURIZIO
Relatore: SETTEMBRE ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GUTA IONUT N. IL 07/01/1985
avverso la sentenza n. 2242/2014 CORTE APPELLO di BOLOGNA,
del 31/10/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 16/10/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANTONIO SETTEMBRE
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 16/10/2015

- Udito il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione,
dr. Luigi Birritteri, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello Bologna, con la sentenza impugnata, ha confermato, in
punto di responsabilità e di pena, quella emessa dal Tribunale di Rimini, che

aggravato commesso in concorso con Pagano Renato e Haouri Jamel, salvo
escludere la circostanza aggravante di cui all’art. 625, n. 7 cod. pen.. I tre erano
accusati di aver sottratto dall’auto di Montebelli Fabio, parcheggiata sulla
pubblica via, il portafoglio custodito all’interno dell’autovettura, previa effrazione
del vetro anteriore destro.
Alla base della decisione vi sono le dichiarazioni dei carabinieri operanti, i quali in servizio di ordine pubblico – avevano notato un’auto con tre persona a bordo
procedere lentamente ed entrare in una via senza sfondo, dove si fermava. I tre
occupanti scendevano dall’auto e guardavano all’interno delle auto in sosta,
mentre Haouri verificava cosa facessero altri carabinieri che, chiamati sul posto
con un’auto di copertura, fingevano di dormire. Haouri tornava poi a parlare con
gli altri due, fermi in osservazione all’inizio della strada, per poi inoltrarsi nella
strada chiusa. Poco dopo i carabinieri sentivano un rumore di vetri in frantumi e
notavano i tre soggetti sopra menzionati correre verso la loro auto, con cui si
allontanarono. I tre furono però inseguiti dai carabinieri appostati nell’auto di
copertura e, raggiunti in località Misano Monte, furono trovati in possesso, nel
corso della perquisizione subito effettuata, di un dado metallico legato
all’estremità di un laccio, due torce, un cacciavite e un paio di occhiali Rayban.
Nel punto in cui si era fermato Haouri i carabinieri accertarono che era stato
infranto il vetro dell’auto di Montebelli ed erano state forzate le portiere.

2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell’interesse
del solo Guta Ionut, l’avv. Antonio Piccolo, sollevando censure in rito e in merito.
2.1. Col primo motivo contesta che gli elementi esposti in sentenza siano
sufficienti all’affermazione della responsabilità, in quanto i militari non ebbero
modo di notare chi ebbe ad infrangere il vetro dell’auto di Montebelli e non
rinvennero nella disponibilità degli imputati, durante la perquisizione, nessuno
degli oggetti sottratti al derubato. Evidenzia che vi è stata una differente
ricostruzione della vicenda da parte dei giudici di primo e secondo grado, in
quanto i primi hanno parlato di ladri fermati dai carabinieri mentre stavano
allontanandosi con l’autovettura ed i secondi di controllo eseguito dopo un
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aveva condannato – all’esito di giudizio abbreviato – Guta Ionut per furto

inseguimento (fatto che spiegherebbe – secondo i giudici d’appello – l’assenza di
refurtiva nella disponibilità degli imputati, i quali se ne sarebbero disfatti durante
la fuga).
2.2. Col altro motivo lamenta la violazione degli artt. 125, 177, 178 e 179 cod.
proc. pen., per la ragione che al processo di primo grado l’imputato fu assistito
dall’avv. Brugnano invece che da quello di fiducia da lui nominato (lo stesso
avvocato Piccolo, ricorrente in questa sede).
2.3. Col terzo motivo si duole della erronea qualificazione del reato, dovendo

loro azione fu sempre monitorata dai carabinieri operanti e non vi fu mai
“l’impossessamento” della refurtiva.
2.4. Col quarto ed ultimo motivo si duole della commisurazione della pena, della
mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen., nonché del
bilanciamento tra circostanze (lamenta che non siano state dichiarate prevalenti
le attenuanti).

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso non merita accoglimento.
1. Il motivo in rito, che va esaminato per primo, data la sua pregiudizialità, è
manifestamente infondato. Dall’esame degli atti – consentito a questa Corte,
essendo stato dedotto un error in procedendo – si evince che l’imputato Guta fu
arrestato il 16 giugno 2013 in flagranza di reato. Nella comunicazione della
notizia di reato, redatta nello stesso giorno dai carabinieri di Riccione, l’avv.
Piccolo figura come difensore di fiducia del Guta. Successivamente, però,
all’udienza di convalida dell’arresto del 17 giugno, Guta Ionut revocò il
precedente difensore e nominò nuovi difensori gli avvocati Uselli e Brugnano,
dai quali fu pure assistito nel successivo giudizio abbreviato (iniziato il 20/6/2013
e proseguito nelle udienze del 17/10/2013, del 20/10/2013 e del 23/10/2013).
Ne consegue che l’intero processo di primo grado si è svolto, contrariamente
all’assunto del ricorrente, alla presenza dei difensori legalmente nominati
(all’udienza del 17 giugno era presente l’avv. Brugnano anche in sostituzione
dell’avv. Uselli; all’udienza del 20 giugno gli avvocati Uselli e Brugnano furono
sostituiti, ex art. 102 cod. proc. pen., dal dr. Raffaele Palucci, come da nomina
depositata in atti; all’udienza del 23 ottobre il Guta, presente in aula, risulta
difesa dagli avvocati Brugnano e Uselli, non comparsi).
Per completezza va aggiunto che – a quanto emerge dagli atti – Guta fu
ammesso, in data 1/10/2013, al patrocinio a spese dello Stato e che nel
provvedimento di ammissione il Guta è indicato come domiciliato in Bologna
presso l’avv. Piccolo, ma nulla è detto in ordine alla nomina del difensore, né una

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ravvisarsi nella condotta degli imputati un mero tentativo di furto, posto che la

nomina dell’avv. Piccolo risulta depositata precedentemente, anche se l’avv.
Piccolo, con atto trasmesso via fax il 22/10/2013, indicava come proprio
sostituto processuale l’avv. Stefano Caroli e trasmetteva una memoria difensiva
a favore di Guta. Ma non sono certamente queste attività svolte a favore
dell’imputato – non è dato comprendere, né è stato spiegato, a quale titolo – che
rendevano l’avv. Piccolo difensore di Guta, in mancanza di nomina formale, di cui
nemmeno il ricorrente fa menzione.

infondato. La descrizione della condotta degli imputati, fatta in sentenza; il
rinvenimento, nella loro disponibilità, di un dado metallico legato ad un laccio,
che solitamente viene utilizzato dai ladri per infrangere i vetri delle autovetture,
nonché degli altri oggetti atti allo scasso (torce e cacciavite); la fuga subitanea,
dopo la rottura del vetro dell’auto presa di mira, seguita dall’inseguimento dei
carabinieri, sono tutte circostanze che dimostrano, in base a logica ed
esperienza, che i tre (tra cui Guta) posero in essere – con comunione di intenti [‘attività loro contestata. Per contro, nessun significato ha il fatto che i militari
non apprezzarono de visu chi ebbe ad infrangere il vetro ed ad impossessarsi del
portafoglio, posto che i movimenti circospetti dei tre, la loro attenzione alle auto
in sosta, la correlazione tra la loro presenza in loco e la rottura del vetro chiaramente percepita dai carabinieri – sono tutte circostanze che dimostrano,
da sole, chi fosse stato l’autore furto. Così come nessun rilievo ha il fatto che i
tre non vennero trovati in possesso della refurtiva, posto che – come
logicamente rilevato in sentenza – ebbero la possibilità di disfarsene durante la
fuga.
Sul punto, il ricorrente ha rimarcato – per quanto si è detto – un contrasto tra la
sentenza di primo grado e quella d’appello, giacché, a quanto si legge nella
esposizione in fatto del giudice d’appello, il Tribunale ha parlato di ladri subito
bloccati dai carabinieri, prima che avessero la possibilità di fuggire, mentre la
sentenza d’appello parla di un inseguimento fino alla località di Misano Monte. Si
rileva, al riguardo, che il ricorrente non deduce un travisamento della prova da
parte del giudice d’appello, ma solo un contrasto tra la ricostruzione fatta dai due
giudici. Questo fatto non inficia in alcun modo la sentenza impugnata (che, giova
rimarcare, è quella d’appello), giacché scopo del giudizio d’appello è proprio
quello di correggere eventuali errori, lacune o deficienze del giudizio di primo
grado, sicché una diversa ricostruzione della vicenda – basata, ovviamente, su
prove correttamente interpretate – non comporta alcun vizio della sentenza
d’appello, che va, anzi, apprezzata per la più precisa lettura ‘del risultato
probatorio. Fatto, questo, non contestato dal ricorrente, il quale, si ripete, si è
limitato a rilevare la diversa rappresentazione dell’esito finale della vicenda,
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2. Il primo motivo in merito – concernente la prova della responsabilità – e

senza dedurre il travisamento della prova da parte del giudice d’appello, sicché la
dedotta discordanza rimane priva rilievo nello scrutinio della motivazione.

3. Anche il motivo concernente la qualificazione del fatto è infondato. Ciò che
distingue il furto consumato a quello tentato è l’avvenuto o meno
impossessamento della res furtiva. Si ha impossessamento allorché l’agente
abbia instaurato una signoria autonoma sulla cosa, al di fuori della sfera di
vigilanza della persona offesa. Nella specie, la Corte d’appello ha evidenziato che

rimasero in possesso della refurtiva durante la fuga e che il portafoglio – con
quanto in esso contenuto – non fu rinvenuto dagli agenti. Corretta è pertanto la
conclusione che di furto consumato bisogna discutere, e non di furto tentato.

4. Con riguardo alla quantificazione della pena, trattasi di doglianza che, per un
verso, passa del tutto sotto silenzio la pur esistente motivazione offerta sul
punto dalla Corte territoriale (la quale ha rimarcato che a carico di Guta risultano
tre condanne riportate tra il 2011 e il 2013, tutte per furto, e che l’episodio per
cui è processo non è affatto di lieve entità, essendo stato posto in essere in ora
notturna, da tre persone, con effrazione attuata mediante mezzi appositamente
fabbricati. Inoltre, che il danno provocato alla persona offesa è di almeno 400
euro, dovendo tenersi conto dell’effrazione del vetro, del valore del portafoglio,
delle monete e delle carte in esso contenute ) e, per altro verso, non tiene conto
della pacifica giurisprudenza di questa Corte di legittimità sul punto. Invero, la
quantificazione della pena – anche per effetto del bilanciamento tra circostanze può essere sindacata avanti questi Giudici di legittimità soltanto allorquando sia
stata effettuata in limiti superiori a quelli edittali ovvero in maniera illogica; la
determinazione in concreto della pena, infatti, costituisce il risultato di una
valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui vari elementi offerti
dalla legge, sicché l’obbligo della motivazione da parte del Giudice
dell’impugnazione deve ritenersi compiutamente osservato, anche in relazione
alle obiezioni mosse con i motivi d’appello, quando egli, accertata l’irrogazione
della pena tra il minimo e il massimo edittale, affermi di ritenerla adeguata o non
eccessiva; ciò dimostra, infatti, che egli ha considerato sia pure intuitivamente e
globalmente, tutti gli aspetti indicati nell’articolo 133 cod.pen. ed anche quelli
specificamente segnalati con i motivi d’appello. Né, d’altra parte, il ricorrente
segnala decisivi elementi a suo favore, salvo intravedere una attenuante (quella
di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen.) motivatamente esclusa dai giudici di merito.

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l’azione dei correi non fu monitorata direttamente dagli operanti, che i ladri

5. SeguR a tanto che il ricorso, contenete motivi in parte infondati e in parte
inammissibili, va rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 16/10/2015

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