Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7032 del 09/11/2012


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 7032 Anno 2013
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: PRESTIPINO ANTONIO

SENTENZA
sui ricorsi proposti da
Machì Giacomo, nato il 26/11/1980 a Palermo
Dimeo Antonio, nato il 5/2/1989 a Torino

avverso la sentenza resa in data 11/1/2012 dalla Corte di appello di
Genova.

Letti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Antonio Prestipino;
udite le conclusioni del pubblico ministero, in persona del sost. proc,
gen. dott. Elisabetta Cesqui, la quale ha chiesto il rigetto dei ricorsi, e
dell’avv. Enrico Bucci, difensore di Giacomo Machì, che ha chiesto
l’accoglimento del proprio ricorso;
rilevata la regolarità degli avvisi per l’odierna udienza pubblica;

Data Udienza: 09/11/2012

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Genova, con la sentenza indicata in epigrafe,
ha confermato la sentenza resa dal G.U.P. del Tribunale di Savona in
data 7 aprile 2011 integralmente nei confronti di ANTONIO DIMEO
(condannato alla pena ritenuta di giustizia per la rapina aggravata
commessa il 17 novembre 2009 all’interno dell’Agenzia CARISA di
Borghetto S. Spirito, che fruttò 1.560 euro), e limitatamente

confronti di GIACOMO MACHI’, cui riconosceva, diversamente dal primo
giudice, la continuazione tra il reato giudicando ed i reati giudicati con
quattro precedenti sentenze di condanna, rideterminando – ritenuto più
grave il reato giudicando – la pena complessiva in anni sette di
reclusione ed euro 3.000 di multa.
2. Avverso tale provvedimento, hanno proposto distinti ricorsi gli
imputati, con l’ausilio dei rispettivi difensori, deducendo i motivi di
seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione,
come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.:
MACHI’:
I – erronea applicazione degli artt. 62-bis ed 81, comma 2, c.p., con
mancanza e manifesta illogicità della motivazione (contestando il diniego
delle circostanze attenuanti generiche, tra l’altro fondato su
considerazioni che si porrebbero in contrasto con il riconoscimento della
continuazione esterna con i reati separatamente giudicati);
II – erronea applicazione degli artt. 63, comma 4, 81, comma 2, e
628 c.p., con mancanza e manifesta illogicità della motivazione
(contestando la scelta del reato più grave, operata con meccanico
riferimento alla pena più elevata, con evidente contraddizione in
relazione alla premessa necessità di considerare il reato più grave in
concreto: in realtà, tenuto conto dei principi in materia fissati dalla
giurisprudenza di legittimità – è citata in particolare Cass. n. 9261 del
2010 – il reato più grave sia in astratto che in concreto sarebbe
senz’altro la rapina commessa in Nizza Monferrato, la cui pena-base, più
mite di quella irrogata per il reato giudicando, avrebbe dovuto costituire
Il punto di partenza del successivo computo);

2

all’affermazione di responsabilità (in ordine al medesimo reato) nei

DIMEO:
I – nullità della sentenza per omessa traduzione dell’imputato,
all’epoca detenuto in carcere, all’udienza camerale dell’Il gennaio 2012,
in violazione degli artt. 599, comma 2, e 127, commi 4 e 5, c.p.p.,
nonostante l’espressa richiesta di presenziare personalmente;
II – violazione dell’art. 192 c.p.p. ed illogicità della motivazione
(lamentando che a fondamento dell’affermazione di responsabilità
possesso di un giubbotto di marca MONCLER, un tatuaggio a forma di
stella sulla mano destra e la presunta disponibilità dell’utenza cellulare
che era risultata impiegata in circostanze di tempo e di luogo
significative).
Hanno chiesto conclusivamente l’annullamento dell’impugnata
sentenza con ogni conseguenza di legge.
All’odierna udienza pubblica, le parti presenti hanno concluso come da
epigrafe, e questa Corte Suprema ha deciso come da dispositivo in atti,
pubblicato mediante lettura in udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso del DIMEO è in toto inammissibile, perché fond4’gu motivi
non consentiti in sede di legittimità, dedotti genericamente, o comunque
manifestamente infondati; quello del MACHI’ è in parte manifestamente
infondato, in parte infondato, e va, pertanto, rigettato.

I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGI-TTIMITA’.
1. Con riguardo ai limiti del sindacato di legittimità, delineati dall’art.

606, comma 1, lettera e), c.p.p., come vigente a seguito delle modifiche
introdotte dalla L. n. 46 del 2006, questa Corte Suprema ritiene che la
predetta novella non abbia comportato la possibilità, per il giudice della
legittimità, di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della
decisione finalizzata a sovrapporre una propria valutazione a quella già
effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità
limitarsi a verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di
merito si è avvalso per sottolineare il suo convincimento. La mancata
rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali può, soltanto

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fossero stati valorizzati indizi vaghi e non individualizzanti, come il

ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d.
travisamento della prova, purché siano indicate in maniera specifica ed
inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di
volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo
da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da
parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od

1.1. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, poi, deve

risultare di spessore tale da risultare percepibile ictu ocull, dovendo il
sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di
macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e
considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non
espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la
decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le
ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano
validità, e meritano di essere tuttora condivise, Cass. pen., Sez. un., n.
24 del 24 novembre 1999, Spina, rv. 214794; Sez. un., n. 12 del 31
maggio 2000 n. 12, Jakani, rv. 216260; Sez. un., n. 47289 del 24
settembre 2003, Petrella, rv. 226074).
A tal riguardo, devono tuttora escludersi la possibilità di <> (Cass. pen., sez.

VI, n. 14624 del 20 marzo 2006, Vecchio, rv. 233621; conforme, sez.
n. 18163 del 22 aprile 2008, Ferdico, rv. 239789), e la possibilità per il
giudice di legittimità di una rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi
parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass. pen., sez. VI, n.
27429 del 4 luglio 2006, Lobriglio, rv. 234559; sez. VI, n. 25255 del 14
febbraio 2012, Minervini, rv. 253099).
1.2. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell’art.

606, comma 1, lett. e), c.p.p. intenda far valere il vizio di
«travisamento della prova» (consistente nell’utilizzazione di_ _-IE..

4

un esame parcellizzato.

I. ,

^-

un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di una
prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato od
omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato
motivazionale sottoposto a critica) deve, inoltre, a pena di
Inammissibilità (Cass. pen., sez. I, n. 20344 del 18 maggio 2006, Salaj,
rv. 234115; sez. VI, n. 45036 del 2 dicembre 2010, Damiano, rv.
249035):

doglianza;
b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto
emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione
svolta nella sentenza impugnata;
c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato
probatorio invocato, nonché dell’effettiva esistenza dell’atto processuale
su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti
nel fascicolo del dibattimento;
d) indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e
compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della
motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno
dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.
1.3. Il giudice di legittimità ha, ai sensi del novellato art. 606 C.P.., il
compito di accertare (Cass. pen., sez. VI, n. 35964 del 28 settembre
2006, Foschini ed altro, rv. 234622; sez. III, n. 39729 del 18 giugno
2009, Belloccia ed altro, rv. 244623; sez. V, n. 39048 del 25 settembre
2007, Casavola ed altri, rv. 238215; sez. II, n. 18163 del 22 aprile
2008, Ferdico, rv. 239789):
(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra
individuati);
(b) la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve essere
tale da disarticolare l’intero ragionamento del giudicante o da
determinare almeno una complessiva incongruità della motivazione)•

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a) identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda la

Cc) l’esistenza di una radicale incompatibilità con l’iter motivazionale
seguito dal giudice di merito e non di un semplice contrasto (non
essendo il giudice di legittimità obbligato a prendere visione degli atti
processuali anche se specificamente indicati, ove non risulti detto
requisito);
(d) la sussistenza di una prova omessa o inventata, e del c.d.
<>
(Sez. un., n. 15 del 26 novembre 1997, dep. 3 febbraio 1998, P.M. in
proc. Varnelli, rv. 209485), ma si è già evidenziato che la fattispecie
concreta in esame è analogamente caratterizzata dalla definitività della
statuizione inerente al trattamento sanzionatorio non solo

dei reati

separatamente giudicati, ma anche di quello giudicando, per la ragione
processuale innanzi indicata.
In tal senso, sia pur se in parte sulla base di una motivazione non
condivisibile, si è conclusivamente determinata la Corte di appello, ed al
riguardo non residua spazio per ulteriori doglianze.
Il motivo va, pertanto, rigettato.

IL RICORSO DIMEO.
3. Il ricorso DIMEO è in toto inammissibile perché fonda su motivi non

consentiti in sede di legittimità, generici e comunque manifestamente
infondati.

3.1. Il primo motivo è inammissibile perché formulato genericamente,

e comunque manifestamente infondato.
La decisione citata dal ricorrente (Sez. un., n. 35399 del 24 giugno
2010, F., rv. 247835-7) afferma testualmente quanto segue:

«Per quanto concerne il termine entro il quale deve essere
manifestata al giudice la volontà di comparire all’udienza camerale

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più grave»): è pur vero, infatti, che la disposizione citata

d’appello e comunicato lo stato di impedimento, va poi considerato che
se, per le ragioni indicate, non esiste un termine rigido e prefissato, ciò
non esclude che la richiesta di presenziare debba pur sempre essere
fatta – a meno che l’imputato non ne sia impedito, ad esempio per
essere stato ristretto immediatamente a ridosso dell’udienza – in modo
tale che sia concretamente possibile disporne ed effettuarne la
traduzione per l’udienza. Va infatti tenuto presente che l’impedimento
giudizio camerale di appello. Nei giudizio ordinario deve sempre
essere assicurata, in mancanza di un inequivoco rifiuto, la presenza
dell’imputato e quindi, in virtù della norma generale fissata dall’art. 420
ter cod. proc. pen., qualora l’imputato non si presenti e in qualunque
modo risulti (o appaia probabile) che l’assenza è dovuta ad assoluta
impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro
legittimo impedimento, spetta al giudice disporre, anche d’ufficio, il
rinvio ad una nuova udienza, senza che sia necessaria una qualche
richiesta dell’imputato in tal senso. Pertanto, qualora l’imputato sia
detenuto o agli arresti domiciliari o comunque sottoposto a limitazione
della libertà personale che non gli consente la presenza in udienza,
poiché in tali casi è in re ipsa la presenza di un legittimo impedimento, il
giudice, in qualunque modo e in qualunque tempo venga a conoscenza
dello stato di restrizione della libertà, anche senza una richiesta
dell’imputato deve d’ufficio rinviare il processo ad una nuova udienza e
disporre la traduzione dell’imputato, a meno che, ovviamente, non vi sia
stato un rifiuto dell’imputato stesso di assistere all’udienza (art. 420
quinquies). Ciò perché, specialmente in un processo a carattere
accusatorio, la partecipazione dell’imputato al processo è condizione
indefettibile per il regolare esercizio della giurisdizione, afferendo al
fondamentale diritto di difesa, che può solo essere oggetto di una
rinuncia da parte del suo titolare attraverso una non equivoca
manifestazione di volontà abdicativa in tale senso. (…). 9. Diversi sono
invece i principi applicabili nei giudizio camerale di appello, per il

quale l’art. 599, comma 2, cod. proc. pen. dispone che il legittimo
impedimento dell’imputato comporta il rinvio dell’udienza soltanto

.4

allorché l’imputato abbia manifestato la volontà di comparire.

11

dell’imputato si atteggia in modo diverso nel giudizio ordinario e nel

Analogamente, anche l’art. 127 cod. proc. pen. (richiamato dall’art. 599)
dispone ai commi 3 e 4 che l’interessato detenuto deve essere sentito
sempre che ne faccia richiesta e che l’udienza è rinviata se sussiste un
legittimo impedimento dell’imputato che abbia chiesto di essere sentito
personalmente. Nel giudizio camerale di appello, dunque, non vige la
regola che l’imputato detenuto non ha alcun onere di comunicare al
giudice il suo stato di detenzione, il quale di per sé, comunque risulti (o
di disporre la traduzione, salvo esplicita rinunzia a comparire, bensì vige
proprio la regola opposta, ossia che l’imputato detenuto ha l’onere di
comunicare al giudice di appello la sua volontà di comparire. Nel giudizio
ordinario, va sempre assicurata la presenza dell’imputato, salvo che
questi inequivocamente vi rinunzi, mentre nel giudizio camerale di
appello la presenza dell’Imputato non è necessaria e va quindi assicurata
soltanto se questi manifesti la volontà di voler comparire, potendo
altrimenti presumersi la sua rinunzia ad essere presente (cfr. Corte EDU,
Grande Camera, 18.10.2006, Hermi c. Italia). Nel giudizio camerale,
pertanto, il legittimo impedimento, ivi compreso quello costituito dallo
stato di detenzione, è irrilevante e non produce effetti se l’imputato non
adempia l’onere legislativamente impostogli di comunicare al giudice il
suo impedimento e la sua volontà di essere presente. In questo giudizio
(…) in mancanza della comunicazione della volontà di comparire
dell’imputato legittimamente impedito, il giudice non è tenuto ne’ a
disporne la traduzione ne’ a rinviare l’udienza. Il codice di rito dunque,
in considerazione del particolare giudizio adottato, impone a carico
dell’imputato detenuto un vero e proprio onere di comunicare la sua
volontà di partecipare all’udienza camerale d’appello. Ciò però implica,
per far sorgere il diritto, la regolarità e la tempestività dell’adempimento
dell’onere, ossia che la comunicazione sia fatta con modalità tali da
permettere la traduzione dell’imputato per l’udienza. Ed invero tralasciando le ipotesi in cui non ricorre un inadempimento dell’onere
per impossibilità di rispettarlo – se si consentisse che l’imputato, pur
avendolo potuto fare in precedenza, possa validamente adempiere
l’onere e comunicare l’impedimento e la volontà di comparire anche
soltanto all’ultimo istante, quando ormai non vi sia più una corretta

12

appaia probabile), determina l’obbligo del giudice di rinviare l’udienza e

11

T

rr”

possibilità di effettuarne la traduzione per l’udienza, allora
l’adempimento dell’onere si potrebbe trasformare in realtà in un
malizioso o doloso mezzo per rinviare, senza necessità, l’udienza stessa
e prolungare indebitamente la durata del processo. Il che darebbe luogo
ad una interpretazione certamente non rispettosa del buon andamento
processuale e non conforme al principio costituzionale della ragionevole
durata del processo. Occorre dunque pervenire ad una interpretazione
essere presente e la necessità di rispettare le caratteristiche di snellezza
e celerità del rito prescelto dal medesimo imputato e di assicurare che la
durata del processo non sia irragionevolmente e senza necessità
prolungata per effetto di condotte dell’imputato maliziose o non
giustificate. E tale bilanciamento sembra possa essere raggiunto
ritenendo che la manifestazione di volontà dell’imputato detenuto non è
soggetta ad alcun limite temporale rigido e prefissato, ma debba
comunque essere considerata tardiva e non efficace quando sia stata
fatta in un momento tale che, nel singolo caso concreto, non vi sia più
possibilità di effettuare la traduzione per l’udienza. In tal caso, invero,
può ritenersi che l’onere di comunicare la volontà di comparire non sia
stato validamente adempiuto e che pertanto difetti il presupposto
necessario perché abbia rilievo l’impedimento dell’imputato e perché il
giudice abbia l’obbligo di assicurarne la presenza (ovvero può ritenersi secondo l’impostazione della citata sentenza Hermi c. Italia della Corte
EDU – che legittimamente il giudice può ravvisare nel comportamento
dell’imputato una rinuncia a comparire). Non potrebbe invece
riscontrarsi un inadempimento dell’onere (con le dette conseguenze)
allorché vi sia stata una oggetti-va impossibilità di effettuare prima la
comunicazione (come, ad esempio, quando la detenzione intervenga
nell’immediata prossimità dell’udienza). In questo caso, così come in
quello in cui la traduzione, pur oggettivamente possibile, non è avvenuta
per disguidi o ritardi dell’amministrazione, dovrà essere disposta la
traduzione per una successiva udienza. Poiché, però, si tratta pur
sempre del diritto fondamentale dell’imputato detenuto di essere
presente nell’udienza in cui si decide della sua responsabilità e del
trattamento sanzionatorio, il principio appena enunciato deve poi essere
…..

13

che soddisfi il bilanciamento tra il diritto fondamentale dell’imputato di

interpretato ed applicato in modo rigido, sia nel senso che la richiesta
potrà ritenersi tardiva soltanto allorché in concreto non vi sia possibilità
pratica di assicurare la presenza in udienza dell’appellante, sia nel senso
che il giudice, qualora ritenga intempestiva la richiesta, deve dar conto,
con adeguata e congrua motivazione, delle specifiche ragioni per le quali
in quel determinato caso non era possibile effettuare la traduzione
dell’imputato in udienza, prendendo in considerazione tutte le specifiche
della libertà personale, il luogo in cui l’imputato si trova ristretto, e così
via. È infatti evidente che diverso è il caso in cui l’imputato sia detenuto
in carcere in un’altra città da quello in cui sia agli arresti domiciliari nella
stessa città, sicché diversa deve essere la valutazione circa la eventuale
tardività della richiesta>>.
3.1.1. Alla luce dei premessi rilievi in diritto, va evidenziato che il

ricorrente oltre a non indicare il luogo di detenzione (peraltro desumibile
dalla sentenza di appello), non allega né documenta in ricorso a che ora
sarebbe stato ricevuto dall’Ufficio il fax contenente la richiesta di
traduzione (asseritamente inviato il 10 gennaio 2012, quindi a ridosso
dell’udienza fissata per il giorno successivo), non consentendo una utile
verifica sulla tempestività in concreto della richiesta, che allo stato – alla
luce degli elementi disponibili – deve palesemente ritenersi non
tempestiva, perché presentata il giorno precedente quello di udienza,
pervenuta all’Ufficio in orario non precisato, e riguardante la traduzione
a Genova di un detenuto ristretto non in sede, bensì in Torino.
3.2. Il secondo motivo è in toto inammissibile perché fonda su motivi

non consentiti in sede di legittimità, generici e comunque
manifestamente infondati.
Il ricorrente propone una lettura atomistica, frammentaria, dei
materiali valorizzati ai fini dell’affermazione di responsabilità.
Al contrario, la Corte di appello, con motivazione nel complesso
esauriente, logica, coerente, e come tale incensurabile in questa sede,
ha congruamente indicato (f. 3 s.) le ragioni poste a fondamento di
4
essa, valorizzando numerosi elementi indiziari, senz’altro assistiti come

14

circostanze del caso concreto, quali, ad esempio, il tipo di limitazione

necessario da connotazioni di apprezzabile gravità, oltre che precisi e
concordanti:
– il MACHI’ era certamente in loco il giorno dei fatti (cfr. rilievi
dattiloscopici sul biglietto n. 4040 emesso dal casello di entrata del
tratto autostradale da Borghetto S. Spirito a Torino Sud);
– DIMEO era certamente con lui (cfr. contatti reiterati tra i due a
partire dalle 6.48), ed entrambi erano in Carignan° tra le 11.40 e le

• DIMEO aveva tentato di occultare con una benda posta tra il pollice
e l’indice della mano destra (notata dalla p.o. sulla mano destra di uno
dei rapinatori), un caratteristico tatuaggio a forma di stella che lo poteva
rendere riconoscibile;
– uno dei rapinatori indossava non un qualsiasi giubbotto della
MONCLER, ma un giubbotto di quella marca identico ad un giubbotto che
egli indossava giorni addietro in occasione di un controllo, ritratto anche
in foto segnaletica scattata in quella occasione.

LE STATUIZIONI ACCESSORIE.
4. La declaratoria di inammissibilità totale del ricorso del DIMEO ed il
rigetto del ricorso del MACHI’ comportano, ai sensi dell’art. 616 c.p.p.,
la condanna del ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché
– apparendo evidente che il DIMEO ha proposto ricorso determinando la
causa di inammissibilità per colpa (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186)
e tenuto conto dell’entità di detta colpa – la condanna di quest’ultimo
anche al pagamento della somma di Euro mille~ in favore della
Cassa delle Ammende a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso di DIMEO ANTONIO e rigetta il ricorso
di MACHI’ GIACOMO. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
et_ v
processuali ed il DIMEO anche—We% somma di euro mille alla Cassa delle
ammende.
Così deciso il 9 novembre 2012
Il Componente estensore

Il Presidente

11.55;

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