Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7 del 16/11/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 7 Anno 2017
Presidente: FUMU GIACOMO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 16/11/2016

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di Di Marco Orazio, n. a Tusa (ME)
il 04/01/1949, rappresentato e assistito dall’avv. Pierluigi Fabbro, di
fiducia, avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste, prima
sezione penale, n. 430/2014, in data 01/04/2015;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
letti i motivi aggiunti presentati in data 02/11/2016;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria dell’Avvocato generale dott. Carmine Stabile che
ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 01/04/2015, la Corte d’appello di
Trieste, in parziale riforma della pronuncia di primo grado resa in data
15/10/2013 dal Tribunale di Gorizia che aveva affermato la penale
responsabilità di Orazio Di Marco per il reato di appropriazione

1

indebita di gioielli (ricevuti in visione in data 07/01/2011 dall’orefice
Galeone Novella con il patto di restituirli in breve, omettendo per
contro e nonostante ripetuti solleciti di restituirli all’avente diritto:
fatto commesso in luogo ignoto in epoca antecedente e prossima al
30/05/2011), riduceva la pena nella misura di anni uno, mesi uno,
giorni dieci di reclusione ed euro 1.000,00 di multa, con conferma nel
resto della sentenza di prime cure.

2. Avverso detta sentenza, nell’interesse di Orazio Di Marco,
viene proposto ricorso per cassazione per i seguenti motivi:
– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 646 e
124 cod. pen., in presenza di querela proposta in data 30/05/2011,
ben oltre i tre mesi da quando i diamanti furono consegnati, per
essere meramente esibiti e poi restituiti, ossia in data 07/01/2011
(primo motivo);
– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 99 cod.
pen., in presenza di un’applicazione della recidiva in termini di
automatismo (secondo motivo);
– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al mancato
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (terzo motivo).
In data 02/11/2016 il ricorrente ha depositato in cancelleria
motivi aggiunti a sostegno della denunciata violazione degli artt. 646
e 124 cod. pen. e dell’illogicità della motivazione sul punto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è manifestamente infondato e, come tale, risulta
inammissibile.
2.

Va preliminarmente evidenziato come, secondo la

giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., Sez. 6, n. 10951 del
15/03/2006, Casula, Rv. 233708), anche alla luce della nuova
formulazione dell’art. 606, comma primo lett. e) cod. proc. pen.,
dettata dalla L. 20 febbraio 2006 n. 46, il sindacato del giudice di
legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato
deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) “effettiva”,
ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante
ha posto a base della decisione adottata; b) non “manifestamente
illogica”, ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni

2

non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della
logica; c) non internamente “contraddittoria”, ovvero esente da
insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da
inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non
logicamente “incompatibile” con altri atti del processo, dotati di una
autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro
rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal

vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione
(nell’affermare tale principio, la Corte ha precisato che il ricorrente,
che intende dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può
limitarsi ad addurre l’esistenza di “atti del processo” non
esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non
correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare,
con l’atto processuale cui intende far riferimento, l’elemento fattuale
o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta
incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento
impugnato, dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati,
nonché dell’esistenza effettiva dell’atto processuale in questione,
indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o compromette in modo
decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione).
2.1. Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati
dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari
accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione
complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano
astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di
quella fatta propria dal giudicante.
Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di
elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di
quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra
loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di
superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il
convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in
termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori
razionali del provvedimento. E’, invece, necessario che gli atti del
processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio
della motivazione siano autonomamente dotati di una forza

(

giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da

esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in
grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e
determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o
da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la
motivazione. Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere
un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva,
non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle

deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”.
2.2. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una
valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla
reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della
“resistenza” logica del ragionamento del giudice.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di
controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi
di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di
nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti,
preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti
maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa.
Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo
giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione
assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la
motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le
parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre
uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e
spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell’art.
606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del
2006, art. 8, “mentre non è consentito dedurre il travisamento del
fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità si sovrapporre
la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta
nei precedenti gradi di merito, è invece, consentito dedurre il vizio di
travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di
merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non
esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello
reale, considerato che in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli
elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione,
ma di verificare se detti elementi sussistano” (Sez. 5, n. 39048 del

4

25/09/2007, Casavola e altri, Rv. 238215).
2.3. Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la
revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica
del provvedimento e non può quindi estendersi all’esame ed alla
valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla
competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema
Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una

Né, infine, la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome
dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel
provvedimento impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che
si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel
provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del
giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle
regole della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della
completezza espositiva (Sez. 6, n. 40609 del 01/10/2008, Ciavarella,
Rv. 241214).
Sulla base di questi principi va esaminato l’odierno ricorso.
3. Manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso.
Costituisce principio di diritto consolidato quello secondo il quale
è onere dell’imputato farsi carico di indicare al giudice elementi e
circostanze tendenti a dimostrare la tardività della querela (cfr., Sez.
5, n. 15853 del 21/02/2006, De Arcangelis ed altri, Rv. 234498);
parimenti, la tardività della medesima può essere rilevata in sede di
legittimità solo se risulta dalla sentenza impugnata, ovvero da atti da
cui sia desumibile immediatamente ed inequivocabilmente il vizio
denunciato, senza necessità di una specifica indagine fattuale che,
comportando l’accesso agli atti, non sarebbe consentita al giudice di
legittimità (cfr., Sez. 2, n. 32985 del 09/07/2013, Giangreco, Rv.
256845).
In sentenza, si riconosce come la persona offesa ebbe precisa
consapevolezza del definitivo inadempimento dell’imputato all’invito a
restituire i gioielli solo ai primi di maggio del 2011 (la querela venne
sporta il 31 maggio 2011) resosi irreperibile anche al telefono (da qui
– scrivono i giudici di secondo grado – la “decisione di inviare al Di
Marco, in data 5 maggio 2011, una lettera raccomandata di ultimativa
diffida, lettera alla quale l’imputato non aveva dato riscontro

diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa.

assumendo dunque un comportamento concludente, manifestazione,
a quel punto, inequivoca della volontà di considerare le cose come
proprie e di invertire il titolo del possesso … “).
Fermo quanto precede, osserva il Collegio come, da un lato,
nessun elemento di fatto contenuto in sentenza consenta di superare
ovvero di contraddire le argomentate conclusioni rese sul punto dalla

alcun elemento utile per smentire quegli assunti ovvero per far
dubitare sulla loro fondatezza.
4. Manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso.
Nessuna applicazione – per così dire – “automatica” è stata
fatta con riferimento alla recidiva che i giudici di merito, con
valutazione discrezionale del tutto esente da vizi logico-giuridici, non
ritengono di dover escludere in presenza, da un lato, di una
contestazione del tutto generica da parte dell’impugnante e,
dall’altro, per la sua oggettiva pregnanza, essendosi in presenza di
ben cinque condanne per reati determinati da motivi di lucro (oltre a
quelli di false informazioni al pubblico ministero e di minaccia) che,
per le valutate modalità della condotta, rendono evidente e concreto
il pericolo di reiterazione dell’illecito.
5. Manifestamente infondato è il terzo motivo di ricorso.
Anche in questo caso si è in presenza di motivazione del tutto
congrua e giustificata che valuta in negativo – come consentito l’assenza di elementi idonei per riconoscere il beneficio e che rende la
statuizione insindacabile in sede di legittimità (cfr., Sez. 6, n. 42688
del 24/09/2008, Caridi e altri, Rv. 242419).
Del tutto consolidato è l’insegnamento giurisprudenziale
secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il
diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in
considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle
parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento
a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o
superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del
18/01/2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del
16/06/2010, Giovane, Rv. 248244).
6. La valutazione di manifesta infondatezza dei motivi principali
si estende necessariamente ai motivi aggiunti.

)(

Corte territoriale e, dall’altro, come il ricorrente non abbia fornito

7. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod.
proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle
ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti
dal ricorso, si determina equitativamente in euro 1.500,00

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali nonché al versamento della
somma di euro 1.500,00 alla Cassa delle ammende.
Così deciso il 16/11/2016.

Il Consigliere estensore
Andrea Pellegrino

Il Presidente
GOComo Fumu
I L4

P.Q.M.

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