Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6965 del 14/11/2012


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 6965 Anno 2013
Presidente: SIRENA PIETRO ANTONIO
Relatore: DOVERE SALVATORE

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) PROCOPIO DOMENICO PALMIRO, N. L’11/12/1953,
avverso la sentenza n. 915/2010 pronunciata dalla Corte di Appello di Reggio
Calabria del 26/4/2012;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Salvatore Dovere;
udite le conclusioni del P.G. Dott. Oscar Cedrangolo, che ha chiesto la
declaratoria di inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza;
RITENUTO IN FATTO
1. Procopio Domenico Palmiro, è stato giudicato dal Tribunale di Locri,
sezione distaccata di Siderno, colpevole di furto aggravato per essersi
impossessato dell’acqua passante nelle condutture dell’acquedotto comunale del
Comune di Monasterace. La Corte di Appello di Reggio Calabria ha confermato
l’indicata sentenza; in particolare, alla doglianza secondo la quale il giudice di
prime cure avrebbe errato nel non applicare la previsione dell’articolo 23 del
d.lgs. n. 152/1999, con conseguente configurazione di un illecito amministrativo
in luogo dell’illecito penale, la Corte d’appello ha replicato che il citato articolo 23
fa esplicito riferimento all’acqua pubblica, mentre tale non può essere
considerata l’acqua contenuta nelle condutture dell’acquedotto comunale
convogliate e raccolte in invasi e cisterne, che non rientra nella definizione
datane dall’articolo 1 d.p.r. 18 febbraio 1999, n. 238.

Data Udienza: 14/11/2012

3. Avverso tale decisione ricorre per cassazione personalmente il Procopio,
lamentando con un primo motivo vizio di motivazione giacché le risultanze
istruttorie sarebbero in netto contrasto con le argomentazioni utilizzate dal
giudice di seconde cure. Facendo riferimento ai contenuti delle testimonianze di
Gara Guarino e del militare Stornaiuolo, il ricorrente ravvisa incertezze in ordine
al fatto che il terreno approvvigionato dall’acqua sottratta fosse riferibile alla sua
persona.

152/1999. Tale norma sarebbe in concorso apparente con l’articolo 624 cod.
pen., concorso che andrebbe risolto con l’applicazione del solo art. 23 cit., con la
conseguenza che il fatto ascritto all’imputato integra illecito amministrativo e non
illecito penale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è infondato e pertanto non merita accoglimento.
4.1. Il primo motivo propone argomenti che si risolvono nella contestazione
delle valutazioni degli elementi di prova rese dai giudici del merito (trattasi, è
bene ricordarlo, di ‘doppia conforme’). Pertanto il ricorso si risolve in censure di
fatto integranti questioni insuscettibili di considerazione nel giudizio di
cassazione.
Compito di questa Corte non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del
Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a
dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della
motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dal non aver questa
tenuto presente fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione
Impugnata.
I giudici di merito hanno fatto riferimento al fatto che i testi avevano
dichiarato di aver conoscenza diretta del fatto che sul fondo sul quale era stata
compiuta la deviazione di acqua era usualmente visto il Procopio (sentenza di
primo grado) e che tale dato risultava corroborato dall’essere il terreno nella
proprietà della moglie dello stesso (sentenza di secondo grado). Le conclusioni
che da siffatti elementi hanno tratto i giudici di merito risultano congrue; e lo
stesso ricorrente, pur rappresentando l’illogicità della motivazione, ha in
definitiva prospettato un travisamento della prova, senza però conferire al
ricorso l’obbligatorio carattere di autosufficienza.
4.2. Il secondo motivo di ricorso attiene effettivamente ad un profilo
rilevante in sede di legittimità; ma muove da premesse non condivisibili.

Con un secondo motivo lamenta l’inosservanza dell’articolo 23 del d.lgs. n.

In merito ai rapporti intercorrenti tra la previsione dell’art. 624 e l’art. 17
r.d. 1755/1933, come sostituito dapprima dall’art. 23 d.lgs. n. 152/1999 e quindi
dall’art. 96, co. 4 d.lgs. n. 152/2006, si colgono pronunce di segno diverso.
La più recente giurisprudenza sembra attestata sulla tesi per la quale
l’impossessamento abusivo di acque pubbliche integra esclusivamente un illecito
amministrativo ed è attualmente punito solo con la sanzione amministrativa di
cui al predetto art. 23 e non anche a titolo di furto, ex art. 624 cod. pen., poichè,
attesa la specialità del citato art. 23 rispetto alla disposizione codicistica, prevale
la norma speciale su quella generale, ai sensi dell’art. 9 L. 689 del 1981 (Cass.

Sez. 5, Sentenza n. 25548 del 07/03/2007, Lanciani, Rv. 237702).
Va tuttavia rilevato che per l’art. 1 I. 5.1.1994, n. 36 (disposizioni in materia
di risorse idriche) “tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorchè non
estratte dal sottosuolo, sono pubbliche”. Inoltre, l’art. 1 del d.p.r. 18 febbraio
1999, n. 238 (Regolamento recante norme per l’attuazione di talune disposizioni
della legge 5 gennaio 1994, n. 36, in materia di risorse idriche), al comma 1
stabilisce che appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico tutte
le acque sotterranee e le acque superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne.
L’art. 17, co. 3 r.d. 1755/1933, dal canto suo, reca le sanzioni previste per il
caso di derivazione o di utilizzazione delle acque pubbliche non previamente
autorizzata. Tale disposizione ha conosciuto una prima modifica ad opera dell’art.
23 digs. n. 152/1999 ed una seconda ad opera dell’art. 96, co. 4 del d.lgs. n.
152/2006, il cui tratto essenziale – ai fini che qui occupano – è stato quello di
aggravare la sanzione amministrativa, introdotta dal citato articolo 23, prevista
per la violazione del divieto di “derivare o utilizzare acqua pubblica senza un
provvedimento autorizzativo o concessorio dell’autorità competente”.
Tanto premesso, è conforme al quadro normativo la sentenza qui impugnata
laddove esclude la ricorrenza dell’illecito amministrativo, perché non può definirsi
acqua pubblica, secondo l’accezione valevole ai fini dell’applicazione dell’art. 17
cit., l’acqua già convogliata nell’acquedotto comunale. Tale disposizione è
inserita in un provvedimento normativo volto a disciplinare l’utilizzo delle acque
pubbliche (la cui nozione si è sopra richiamata) mediante gli strumenti
dell’autorizzazione e della concessione. La scelta del recente legislatore è stata
quella di ricondurre al dominio del diritto amministrativo l’utilizzo e la derivazione
delle acque pubbliche prive di titolo abilitativo.
Ne deriva che un problema di concorso apparente di norme tra il menzionato
art. 17 e l’art. 624 cod. pen. può porsi solo nel caso in cui si tratti di acque
pubbliche.
Tali non sono le acque che sono state convogliate, proprio perché per essei
non può parlarsi di acque sotterranee o superficiali, sia pure in invaso o cisterna.

3

Ì

A ritenere diversamente si finirebbe per sovrapporre la nozione di acqua
pubblica valevole ai fini dell’art. 17 cit. con quella che trae causa dalla natura
pubblica dell’ente proprietario.
Il ricorso deve quindi essere rigettato.

5. Segue, a norma dell’articolo 616 cod. proc. pen., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 14/11/2012.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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