Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 695 del 03/12/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 695 Anno 2014
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: LEO GUGLIELMO

SENTENZA

sul ricorso proposto dal difensore di fiducia nell’interesse di
Gullo Pasquale, nato il 05/01/1971
Torcasio Vincenzo, nato il 23/02/1980
Villella Antonio, nato il 01/01/1976

avverso la sentenza della Corte di appello di Salerno in data 15/01/2013

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta in pubblica udienza dal consigliere Guglielmo Leo;
udito il Procuratore generale, in persona del sostituto dott. Roberto Aniello, che
ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
udito il Difensore dei ricorrenti, avv. Maurizio Gambardella, che ha concluso per
l’accoglimento dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. È impugnata la sentenza della Corte d’appello di Salerno n. 102/13 del
15/01/2013, con la quale è stata rigettata la richiesta di revisione proposta dagli
odierni ricorrenti riguardo alla sentenza pronunciata dalla Corte di appello di
Catanzaro, in data 17/06/2009, irrevocabile dal successivo 10/03/2011.

Data Udienza: 03/12/2013

Con tale ultima sentenza, pronunciata in esito a giudizio abbreviato e in sede
di rinvio, Pasquale Gullo, Vincenzo Torcasio e Antonio Villella erano stati ritenuti
responsabili dei delitti di associazione finalizzata al narcotraffico e di detenzione
continuata di sostanze stupefacenti, fatti commessi in Lamezia Terme dal giugno
del 2000 al marzo del 2001 (artt. 74 e 73 del d.P.R. 09/10/2000, n. 309, con
l’aggravante, per il secondo reato, di cui all’art. 7 del decreto-legge n.
152/1991).
La revisione era stata sollecitata per l’asserito contrasto tra il relativo

Lamezia Terme l’8/07/2005, irrevocabile dal 25/11/2005, mediante la quale altri
presunti partecipi dell’associazione criminale richiamata erano stati assolti con
formula di insussistenza del fatto.
1.1. Il procedimento era stato unitariamente promosso riguardo a tutti gli
interessati, sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e degli
esiti di intercettazioni ambientali effettuate, in carcere, riguardo ai colloqui di
Pasquale Gullo (arrestato nella flagrante detenzione di un considerevole
quantitativo di cocaina) e di Saverio Torcasio.
Nel corso dell’udienza preliminare erano state formulate richieste di giudizio
abbreviato, che il giudice aveva accolto solo per i tre attuali ricorrenti, mentre,
per gli ulteriori imputati, era stato disposto il giudizio in forma ordinaria.
Il rito abbreviato si era concluso con sentenza di condanna degli interessati
anche in ordine al reato associativo loro ascritto (G.u.p. Catanzaro, 25/11/2003).
1.2. Gli ulteriori imputati, in apertura del dibattimento, avevano reiterato la
domanda di rito abbreviato, ottenendone l’accoglimento. All’esito del giudizio,
anche in esito ad una perizia fonica disposta dal Tribunale procedente, detti
imputati erano stati assolti dal reato associativo con formula di insussistenza del
fatto (sentenza 08/07/2005). In particolare, era stata disconosciuta la pienezza
della prova in ordine all’autonoma sussistenza di un gruppo criminale
organizzato, secondo vincoli giuridicamente rilevanti tra i soggetti imputati,
nell’ambito della più vasta consorteria maflosa del territorio, riferita alla famiglia
Torcasio. La sentenza poi, come accennato, era divenuta irrevocabile.
1.3. Nelle more, la Corte di appello di Catanzaro, con sentenza del
30/11/2004, in riforma della decisione assunta dal Giudice dell’udienza
preliminare, aveva assolto gli odierni ricorrenti dal reato associativo loro ascritto,
per ritenuta insussistenza del fatto. Alla base della decisione, anche il giudizio di
inutilizzabilità delle conversazioni intercettate cui sopra si è fatto riferimento. La
stessa decisione, tuttavia, era stata annullata da questa Corte suprema
(sentenza del 22/11/2006).

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u,

accertamento fattuale e quello sotteso alla sentenza pronunciata dal Tribunale di

Nel giudizio di rinvio, la Corte di appello di Catanzaro, ritenuta l’utilizzabilità
delle intercettazioni, aveva aderito alla ricostruzione dei fatti proposta dal primo
Giudice, pervenendo ad una affermazione di responsabilità degli odierni ricorrenti
(sentenza 17/06/2009).
Nell’ambito del giudizio di legittimità promosso contro la decisione, la difesa
degli imputati aveva posto la questione del giudicato di irrilevanza del preteso
fenomeno associativo, formatosi grazie alla sentenza del Tribunale di Lamezia
Terme riguardo agli ulteriori imputati. Ma la Corte di cassazione, con sentenza n.

quel contesto prospettati, cioè in termini di violazione dell’art. 238-bis cod. proc.
pen.
2. Proposta da Pasquale Gullo, Vincenzo Torcasio e Antonio Villella richiesta di
revisione, a norma dell’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., la Corte
territoriale, pur riconoscendo la pertinenza delle decisioni evocate ad un
medesimo reato associativo ed il contrasto tra l’enunciato di condanna ed il
giudizio di insussistenza del fatto, ha negato che sussistano i presupposti della
revisione.
Ricorda la Corte che il contrasto rilevante a tal fine non riguarda le valutazioni
del fatto considerato e le relative qualificazioni giuridiche, ma solo
l’affermazione, nelle decisioni poste a confronto, di fatti storici che siano tra loro
incompatibili. Nel caso di specie si riscontrerebbe proprio, e soltanto, una diversa
valutazione giuridica dei medesimi profili di fatto, concordemente identificati.
Non a caso – si osserva – anche la sentenza assolutoria in favore dei diversi
imputati aveva stimato che gli stessi commerciassero stupefacenti nell’orbita
della cosca Torcasio, tanto da riconoscere, riguardo al delitto continuato di
narcotraffico, la ricorrenza dell’aggravante di cui all’art. 7 del decreto-legge n.
152/1991.
Si aggiunge, da ultimo, che la lettura dei fatti sottesa alla sentenza oggetto
dell’odierna impugnazione sarebbe stata due volte avallata da questa Corte,
dapprima con sentenza di annullamento della sentenza d’appello assolutoria, e
poi con decisione di rigetto del ricorso contro la sentenza di condanna
pronunciata in sede di rinvio.
Ricorrerebbe dunque il caso tipicamente regolato dal comma 3 dell’art. 637
cod. proc. pen.: alla Corte d’appello sarebbe stata richiesta una inammissibile
rivalutazione delle prove assunte nel precedente giudizio.

3

24436 del 10/03/2011, aveva escluso la rilevanza del precedente nei termini in

3. Con unico motivo di impugnazione, la difesa dei ricorrenti deduce l’erronea
applicazione e la violazione degli artt. 110 cod. pen., nonché degli artt. 192 e
630 cod. proc. pen., e la carenza e manifesta illogicità della motivazione.
La Corte territoriale avrebbe liquidato come mere difformità di valutazione del
fatto due giudizi tra loro inconciliabili, posto che l’uno afferma l’insussistenza di
una determinata organizzazione criminale, con proscioglimento tra l’altro del
presunto suo capo, mentre l’altro afferma l’esistenza dell’associazione,
condannando, da soli, i presunti collaboratori del capo in questione. Ciò tra l’altro

cognitivo che si connetterebbe alle perizie foniche realizzate nel solo giudizio ad
esito assolutorio, in forza delle quali risulterebbe impossibile stabilire se, nel
corso delle conversazioni intercettate in carcere, fossero stati davvero compiuti
riferimenti testuali alla cocaina.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato, nei soli profili di seguito specificati.
Non vi è dubbio, in via preliminare, circa l’identità del fenomeno associativo
perseguito nei giudizi poi definiti con esiti opposti, in termini di insussistenza del
fatto per alcuni degli accusati, ed in termini di condanna per gli ulteriori accusati.
La sentenza impugnata si segnala per l’accurata ricostruzione delle rispettive
sequenze procedurali, ed è stata pur sinteticamente richiamata nel

Ritenuto in

fatto della presente decisione, cosicché pare sufficiente precisare solo alcuni e
pregnanti aspetti dei relativi provvedimenti.
L’imputazione associativa è stata elevata con un’unica richiesta di rinvio a
giudizio, formulata il 22/09/2003 dalla Direzione distrettuale antimafia della
Procura della Repubblica di Catanzaro. Al capo 1) di quella rubrica era
prospettato un fatto associativo rilevante ex art. 74 del d.P.R. 9/10/1990, n.
309, enucleato «nell’ambito dell’associazione mafiosa dei Torcasio, capeggiata da
Giovanni e Nino Torcasio, oggi defunti», e finalizzato a commettere delitti in
materia di stupefacenti, parte dei quali contestati nello stesso procedimento, e
parte perseguiti in procedimenti diversi.
A Deborah Visciglia, moglie di Antonio Gullo (arrestato in flagranza per il
possesso di una certa quantità di stupefacente), si contestavano funzioni di
collegamento tra l’associato che procurava la droga (Pasquale Torcasio) e gli
acquirenti. Giuseppe Gullo era considerato collaboratore del citato fratello
Antonio nell’organizzazione del gruppo. Teresa Estino ed il pure citato Pasquale
Torcasio avrebbero provveduto al recupero dei crediti, anche per conto di
Antonio Gullo, la cui famiglia avrebbe assistito economicamente. Lo stesso
4

trascurando – secondo la difesa dei ricorrenti – la riduzione del compendio

avrebbe fatto Vincenzo Torcasio, provvedendo anche a custodire sostanze
stupefacenti. Senza specificazione di ruolo, erano imputati anche Antonio Villella,
Pasquale Gullo, Saverio Torcasio, Giovanni Pizzata e Domenico Torcasio.
L’associazione sarebbe stata costituita e gestita al fine di favorire l’attività della
cosca mafiosa dei Torcasio in Lamezia Terme, a far tempo dal giugno del 2000.
1.1. Su tale imputazione si è pronunciato anzitutto il Tribunale di Lamezia
Terme, con la nota sentenza dell’8/07/2005 (depositata il 30/09/2005),
prosciogliendo per insussistenza del fatto Deborah Visciglia, Pasquale Torcasio e

irrevocabile.
Alla base della decisione, come ampiamente riferito alle pagg. 7-9 della
sentenza posta ad oggetto dell’odierno ricorso, una disamina critica delle prove
(consistenti nella registrazione di conversazioni intercettate, di scarsa
intelligibilità, e nelle dichiarazioni di alcuni collaboratori), in esito alla quale si
concludeva che non vi fosse compiuta dimostrazione di un autonomo vincolo
associativo tra gli imputati, dei quali pure erano noti i contatti reciproci e quelli
con l’ambiente mafioso circostante, e comunque dell’esistenza di una
organizzazione criminale distinguibile ed autonoma dalla cosca locale. Va notato
– in disparte qualsiasi considerazione circa l’esattezza del decisum e del principio
di diritto allo stesso sotteso – che un problema di “continenza” dell’associazione
contestata in un ambito associativo più vasto era posto già dal tenore
dell’imputazione. E che la

ratio decidendi dell’assoluzione non si fondava

sull’inesistenza dei contestati traffici e dei rapporti di parte almeno degli imputati
con persone appartenenti all’organizzazione mafiosa capeggiata dai Torcasio,
tanto che non era stata esclusa, per i singoli episodi di narcotraffico, l’aggravante
della finalità di agevolazione dell’organizzazione citata (art. 7 del dl.
13/05/1991, n. 152). Si trattava piuttosto, come già detto, della identificazione o
non dello specifico ente associativo raffigurato nell’imputazione.
1.2. L’imputazione descritta nel paragrafo che precede ha segnato la

regiudicanda, senza alcuna modificazione, lungo l’intero corso del giudizio
concernente gli attuali ricorrenti. Senza menzionare i passaggi analiticamente
ricostruiti nella sentenza impugnata, e sopra citati (§ 1.1. e 1.3. del Ritenuto),
basta qui richiamare l’ultima sentenza di merito, deliberata dalla Corte di appello
di Catanzaro il 17/06/2009 e depositata 1’11/09/2009, divenuta irrevocabile
allorquando, con sentenza n. 24436 del 10/03/2011, questa Corte ha respinto i
ricorsi degli interessati.
La riforma del precedente deliberato assolutorio in ordine al reato associativo
si era fondata essenzialmente sulla rivalutazione della utilizzabilità e del
significato probatorio delle conversazioni intercettate, secondo le indicazioni della
5

Antonio Gullo. Non essendo stato impugnato, il provvedimento è divenuto

decisione di annullamento con rinvio della relativa sentenza. In ogni caso,
l’essenza del fatto associativo era stata ritenuta nella fisionomia scolpita
dall’imputazione, ed in tal senso erano state lette e valutate le fonti di prova.
Una conferma si trae dall’ampia ricostruzione adesiva che si legge nella già citata
sentenza di questa Corte n. 24436/2011.
1.3. È allora possibile trarre una prima e fondamentale conclusione dal breve
excursus che precede. Non è dubbio che le due decisioni irrevocabili cui si
riferisce l’istanza di revisione abbiano avuto ad oggetto uno stesso reato

neppure che l’integrazione o non del reato sia stata valutata in relazione ai
medesimi avvenimenti della vita (relazioni interpersonali, detenzioni e cessioni di
droga, ecc.), e ad un medesimo contesto umano e materiale, sulla base di fonti
probatorie sostanzialmente coincidenti.
Il provvedimento impugnato muove proprio dalle premesse indicate, operando
una identificazione tra gli elementi di fatto raffigurati dal compendio probatorio
ed il reato associativo: com’è bene illustrato nella relativa motivazione, la
richiesta di revisione è stata respinta sul presupposto della identità dei fatti, e
della mera divergenza tra le relative qualificazioni giuridiche.

2. Così circoscritta la regiudicanda, va osservato come la Corte territoriale abbia
evocato corretti principi giuridici in materia di revisione, facendone tuttavia una
applicazione non pertinente.
È certamente vero, in particolare, che il contrasto cui allude la lettera

a) del

comma 1 dell’art. 630 cod. proc. pen. non può riguardare la qualificazione
giuridica di fatti che restano sovrapponibili nelle decisioni tra loro divergenti. La
revisione non è il mezzo per estendere gli effetti di deliberazioni più favorevoli o
per uniformare le scelte di interpretazione della legge. La revisione mira
piuttosto a garantire coerenza nell’ambito dell’ordinamento, evitando che siano
contemporaneamente esecutive decisioni che affermano

fatti

tra loro

inconciliabili, e quindi sostanzialmente diversi (anche se la divergenza non deve
opporre per intero le fattispecie concrete, bastando che una sentenza affermi un
fatto logicamente e storicamente inconciliabile con la ricostruzione della
regiudicanda operata nell’altra). Per questo è corrente, in giurisprudenza,
l’affermazione ripresa nella sentenza impugnata, e cioè che «il contrasto di
giudicati rilevante ai fini della revocabilità di un provvedimento definitivo non
ricorre nell’ipotesi in cui lo stesso verta sulla valutazione giuridica attribuita agli
stessi fatti dai due diversi giudici» (così Sez. 5, n. 3914/2012 del 17/11/2011,
Serafini, Rv. 251718; di recente, tra le altre, Sez. 2, n. 12809 del 11/03/2011,
Vitale, Rv. 250061).
6

(9–

associativo, in un caso escludendolo e nell’altro affermandolo. Non è dubbio

2.1. Va tuttavia rilevato, a questo punto, che non può concordarsi con
l’assunto presupposto al ragionamento della Corte territoriale, e cioè che il
Tribunale di Lamezia Terme (assoluzione) e la Corte d’appello di Catanzaro
(condanna) abbiano valutato fatti completamente sovrapponibili, e dunque, tra
loro, perfettamente compatibili.
L’assunto è vero, come anticipato nel paragrafo che precede, nella misura
necessaria e sufficiente a stabilire che non sono state giudicate due associazioni
diverse:

eventualità che escluderebbe, per definizione, un problema di

essere condiviso nella misura in cui pretende che la valutazione in fatto sottesa
alle decisioni abbia avuto l’identico oggetto. Quando il Tribunale di Lamezia ha
enunciato una formula assolutoria di insussistenza, ha negato (la prova de)
l’integrazione del fatto associativo, quella stessa integrazione che invece è stata
affermata dalla Corte di Catanzaro.
Il fatto associativo penalmente rilevante non è una qualificazione applicata a
determinate relazioni umane, ma un fenomeno materiale, con proprie
caratteristiche strutturali, cui accedono condotte connotate dal dolo punibile (si
discute se specifico, ma avente certamente ad oggetto lo specifico fenomeno
considerato). Ciò che molto spesso viene in effetti trascurato, tanto che la
decisione impugnata si inserisce in una solida tradizione di approccio agli
elementi sintomatici del fatto associativo, più che ai fattori realmente costitutivi
della fattispecie punibile.
Con la necessaria sintesi va ricordato che l’associazione per delinquere
(variamente qualificata dalla natura dei delitti-fine programmati) è costituita per
effetto di uno stabile patto di delinquenza fra tre o più persone, al fine di
commettere un numero non previamente limitato di reati. La «stabilità» e la
«indeterminatezza» del patto sociale sono requisiti storicamente individuati dalla
giurisprudenza, nella tradizionale assenza di elementi descrittivi nelle fattispecie
(con la sola parziale eccezione dell’art. 416-bis cod. pen.), al fine sostanziale di
assicurare congruenza tra le previsioni incriminatrici ed i principi fondamentali
della tassatività e della offensività. L’associazione si riconosce e si distingue da
altri fenomeni (primo fra tutti il reato continuato pluripersonale) perché si fonda
su un avvenimento storico, obiettivamente valutabile, che può essere provato in
via diretta o logica, e cioè, appunto, la conclusione di un patto strutturato e
selettivo. Ciò non vuol dire, com’è ovvio, che il patto debba essere stipulato
formalmente e contestualmente. Esso può maturare progressivamente, anche da
mere abitudini criminose, ed anche

per facta condudentia,

ma resta

imprescindibile la prova, a fini di condanna, che le persone coinvolte hanno ad
un certo punto creato una stabile organizzazione, che le comprende ed esclude
7

compatibilità, perfino a livello di qualificazione giuridica. Ma l’assunto non può

altri, strutturata nella misura necessaria e sufficiente a rendere possibile, in
concreto e con valutazione ex ante, la realizzazione del programma sociale.
L’elemento strutturale è questione controversa (o, per meglio dire,
variamente apprezzata) nel dibattito sui reati associativi, ma non pare dubbio al
Collegio che sia ormai affermata la necessità di un sostrato organizzativo, per
quanto minimo, al fine di garantire, in particolare, l’offensività della condotta
punibile.
Deve trovare legittimazione, anche sul piano costituzionale, l’esistenza di

oltretutto sono segnate da pene di livello elevatissimo. D’altra parte
l’ordinamento non assegna un disvalore aggiuntivo, tipico ed autonomo, alla
reiterazione di reati da parte delle medesime persone (ed anzi, attraverso il
meccanismo della continuazione, tende a mitigare il rigore del cumulo di pene).
L’associazione è dunque un fattore che introduce nel corpo sociale un
differente vulnus, che trascende il complesso delle lesioni programmate e (solo
eventualmente) attuate mediante l’azione associativa. Tale

vulnus è

comunemente individuato nel turbamento dell’ordine pubblico, cioè nell’allarme
che si determina, presso la collettività, per l’esistenza di gruppi appositamente
costituiti al fine di commettere reati, e dunque per la maggiore probabilità che
quei reati vengano commessi. Il «valore aggiuntivo» di una associazione,
rispetto al mero accordo per commettere illeciti (notoriamente privo di diretta
rilevanza penale: art. 115 cod. pen.), sta proprio nella possibilità che le condotte
antigiuridiche si riproducano serialmente, senza necessità di singoli impulsi e
nuovi accordi, quale mero e fisiologico portato dell’esistenza di un gruppo
associato ed organizzato.
Ciò non vuol dire, ancora una volta, che esistano modelli strutturali tipici, la
cui riproduzione condizioni l’integrazione delle varie fattispecie. Poiché la
necessità della struttura è desunta dai principi di tipicità e offensività, sarà
necessaria ma anche sufficiente una combinazione tra risorse umane e materiali
idonea a rendere concretamente realizzabile il programma criminoso che
caratterizza la singola associazione considerata, e che sia «propria» di tale
associazione.
Si riferisce agli elementi in questione, più o meno stabilmente acquisiti dalla
giurisprudenza (ma qui non rilevano ulteriori precisazioni), il

fatto materiale

dell’associazione per delinquere: patto, organizzazione e supporto strutturale
dedicato. Il carattere non sempre nitido della relativa focalizzazione si deve
all’attenzione dominante per elementi che sono sintomatici del fatto associativo,
ma non ne sono parte necessaria, e ben possono cumularsi o difettare nei singoli
casi di specie: l’effettiva commissione di reati, la continuità dei moduli operativi,
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previsioni punitive che prescindono dalla commissione effettiva di reati, e

la ripartizione di ruoli, la divisione degli utili, la disponibilità di risorse materiali
dedicate, ecc.
2.2. Il giudice è comunemente chiamato ad inferire l’esistenza di una
associazione criminale in base ad elementi di prova logica, cioè sulla base del
valore sintomatico di determinati avvenimenti (o conversazioni, o dichiarazioni)
in ordine all’esistenza del patto associativo e del suo portato organizzativo e
strutturale. Non è per altro inconcepibile una fonte di prova diretta, ad esempio
la rappresentazione di un collaboratore di giustizia che abbia ad oggetto la

l’identificazione di una associazione penalmente rilevante spetta al giudice, in
base ai criteri legali, e non è condizionata dalla cultura interna ai gruppi
criminali. Comunque sia, l’oggetto del procedimento probatorio è rappresentato
dagli elementi costitutivi della fattispecie associativa, così come descritti.
Da ciò consegue che, quando si discute delle implicazioni logiche di un
determinato scambio economico, o di una certa consuetudine tra alcune persone,
non si sta discutendo della relativa qualificazione giuridica, ma della loro capacità
di provare altro, cioè la sussistenza del fatto associativo, cioè l’esistenza del
negozio e dell’organizzazione. L’indebita sovrapposizione tra i due piani del
discorso è frutto, ed al medesimo tempo è causa, di una dematerializzazione del
reato associativo, che contrasta con lo stesso «volto costituzionale» dell’illecito
penale.
Per venire al caso di specie. I Giudici di Lamezia Terme e quelli di Catanzaro
non hanno semplicemente provveduto alla diversa qualificazione giuridica dello
stesso fatto. I primi, in sostanza, hanno negato la (completezza della prova
riguardo alla) esistenza di un accordo associativo che legasse in modo specifico
gli imputati affidati al loro giudizio, in modo specifico e con l’esclusione di altri,
con un programma «proprio» del gruppo ed una struttura allo stesso pertinente,
capace in particolare di operare stabilmente ed a prescindere dagli interessi e
dall’orbita di una diversa e più ampia organizzazione criminale. I Giudici di
Catanzaro, al contrario, hanno affermato l’esistenza di quell’accordo e di quella
struttura organizzata.
Si tratta di fatti, all’evidenza tra loro incompatibili, perché sono esistiti o non
sono esistiti. E resta irrilevante la soluzione del quesito, il che tra l’altro priva di
pertinenza quella parte del ricorso che tende a confutare il ragionamento
probatorio espresso dal Giudice della condanna.
2.3. Non giova al fondamento della decisione impugnata la pretesa che una
avallo più o meno diretto sarebbe per essa riscontrabile nelle pronunce già rese
da questa Corte lungo il corso della tormentata vicenda in esame.

9

9,-

stipulazione dell’accordo e la fisionomia dell’organizzazione, fermo restando che

A proposito della riconosciuta integrazione dell’art. 7 del decreto-legge n.
152/1991 per gli episodi di narcotraffico riferibili agli imputati può dirsi, per un
verso, che la circostanza conferma l’identità degli avvenimenti giudicati nei due
contesti processuali, ma non l’identità del

fatto associativo valutato nelle

sentenze in conflitto. Anzi, per altro verso, trova conferma quella
indeterminatezza del «ritaglio» compiuto dalla imputazione, su uno sfondo ben
più vasto e significativo, che costituisce una porzione rilevante della

ratio

decidendi della sentenza assolutoria, a partire ovviamente da un giudizio di

È vero poi che, nella sentenza n. 24436/2011 (quella che ha implicato
l’irrevocabilità della decisione di condanna), questa Corte ha già valutato
l’intervenuta formazione di un giudicato assolutorio riferibile al fatto in
contestazione. Detta valutazione però, al contrario di quando sembra ritenere la
Corte bolognese, non ha affatto pre-giudicato la questione posta ad oggetto del
giudizio di revisione.
La seconda Sezione penale, infatti, si era occupata della sentenza irrevocabile
del Tribunale di Lamezia Terme riguardo alle implicazioni che ne avevano tratto i
Difensori degli imputati nel giudizio di merito e, comunque, in quello di
legittimità. Si era preteso, in particolare, che la citata sentenza potesse
introdursi nel giudizio in corso ai sensi e per gli effetti dell’art. 238-bis cod. proc.
pen., cioè come prova del fatto in essa accertato: come prova, presumibilmente,
della insussistenza del contestato fenomeno associativo. La Corte aveva
disatteso le censure degli allora ricorrenti circa il rilievo (non) conferito al
provvedimento dai Giudici di merito, anzitutto notando come mancasse la prova
della effettiva acquisizione della sentenza agli atti del procedimento. Sul merito
della censura, comunque, la stessa Corte era rimasta nella prospettiva ritagliata
dai ricorrenti, che non era quella (del resto in allora non proponibile) del
contrasto tra giudicati, ma quella d’una fonte probatoria favorevole agli imputati.
E, in tale prospettiva, era stato ricordato che il carattere di irrevocabilità delle
decisioni acquisite a norma dell’art. 238-bis cod. proc. pen. non preclude
l’autonoma valutazione delle risultanze da parte del giudice

ad quem, né

l’eventuale sviluppo del contraddittorio sui fatti pure accertati dal giudice a quo
nel diverso giudizio: principi normalmente enunciati al fine di garantire il diritto
di difesa a fronte di fonti probatorie di portata accusatoria, evidentemente
ritenuti pertinenti anche all’opposto caso delle fonti a significato liberatorio.
Comunque sia, la questione dei limiti di sovrapponibilità del fatto accertato
nell’una e nell’altra sede processuale non era stata minimamente trattata. Ed è
questo, come si è visto, l’essenziale oggetto dell’odierno giudizio.

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inattendibilità della «selezione» compiuta dal Pubblico ministero.

3. Non ricorre insomma, nel caso in esame, la norma invocata dalla Corte
territoriale (il divieto di proscioglimento, nella sede della revisione, per una
nuova e diversa valutazione delle prove raccolte nel giudizio con esito di
condanna: comma 3 dell’art. 637 cod. proc. pen.). Ricorre, piuttosto, la
fattispecie delineata dal combinato disposto dell’art. 630, comma 1, lettera a) e
dell’art. 637, comma 2, cod. proc. pen. Poiché sussiste effettiva incompatibilità
tra i fatti stabiliti nelle sentenze di condanna e di assoluzione ormai più volte
citate, la decisione di condanna deve essere revocata, con conseguente

In tal senso avrebbe dovuto provvedere la Corte territoriale, ed in tal senso
può provvedere direttamente questa Corte, previa annullamento senza rinvio
della decisione impugnata, nella sola parte relativa, com’è ovvio, al delitto di
associazione finalizzata al narcotraffico (capo 1 della rubrica).
Poiché il ricorrente Gullo risulta detenuto in esecuzione della sentenza
revocata, ed era stato condannato per il solo delitto associativo, deve esserne
ordinata la immediata liberazione, limitatamente al titolo in questione.
3.1. Gli atti devono essere inviati alla Corte d’appello di Catanzaro, giudice
della sentenza parzialmente revocata, per una nuova determinazione del
trattamento sanzionatorio nei confronti di Antonio Villella e Vincenzo Torcasio.
La pena per costoro, infatti, era stata determinata riconoscendo il vincolo
della continuazione tra i reati contestati, ed identificando il reato più grave, cui
riferire la pena base ai fini del cumulo giuridico, proprio nel delitto associativo
per il quale interviene l’odierno proscioglimento. La pena andrà quindi fissata con
riguardo ai soli fatti di cui al residuo capo 2) della rubrica.
È appena il caso di ricordare, in proposito, che lo «scioglimento» del reato
continuato per effetto dell’annullamento della sentenza di condanna, quando
viene meno il reato che aveva costituito la base per il computo ex art. 81 cpv.,
implica che il giudice del rinvio non sia vincolato per i reati satellite alla quantità
di pena irrogata in precedenza, e sconta il solo limite della sanzione fissata,
come pena base, nella fase antecedente del giudizio (Sez. 6, n. 4162/2013 del
07/11/2012, Ancona, Rv. 254263).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e per l’effetto revoca la sentenza
di condanna della Corte d’appello di Catanzaro del 17 giugno 2009 nei confronti
dei ricorrenti, limitatamente al reato associativo di cui al capo 1) della rubrica,
perché il fatto non sussiste.

11

proscioglimento degli interessati.

Rinvia per la rideterminazione della pena in relazione al residuo reato di
spaccio per stupefacenti di cui al capo 2) nei confronti di Torcasio Francesco e di
Villella Antonio ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro.
Ordina l’immediata liberazione di Gullo Pasquale se non detenuto per altra
causa.
Manda alla Corte d’appello per gli adempimenti di cui all’art. 639 cod. proc.
peri.

Così deciso il 03/12/2013.

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