Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6932 del 20/11/2013


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 6932 Anno 2014
Presidente: D’ISA CLAUDIO
Relatore: MONTAGNI ANDREA

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
CRETEANU OTILIA MIMI N. IL 24/11/1967
avverso la sentenza n. 24363/2012 GIP TRIBUNALE di TORINO, del
12/12/2012
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANDREA MONTAGNI;

Data Udienza: 20/11/2013

Motivi della decisione
Creteanu Otilia Mimi ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza
del G.i.p. presso il Tribunale di Torino in data 12.12.2012, con la quale, ai sensi
dell’art. 444 cod. proc. pen., è stata applicata la pena concordata dalle parti, pari
ad anni quattro di reclusione ed C 14.000,00 di multa, in ordine al delitto di cui
all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990.

applicazione delle circostanze ed al mancato apprezzamento della ricorrenza dei
presupposti legittimanti l’adozione di sentenza liberatoria, ai sensi dell’art. 129 cod.
proc. pen.
Il ricorso è inammissibile.
Osserva in primo luogo il Collegio che l’orientamento espresso da questa
Suprema Corte, che è venuto consolidandosi, muovendo dalle indicazioni offerte
dalle Sezioni Unite sulla natura della sentenza resa ai sensi dell’art. 444 comma 2.,
cod. proc. pen., considera che la sentenza con cui si applica la pena su richiesta
dalle parti deve ritenersi emessa senza che sia proceduto a dibattimento. Ed invero,
le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno da tempo chiarito che, a parte il caso in
cui all’applicazione della pena si addivenga all’esito del dibattimento, previa
valutazione della mancanza di giustificazione del dissenso del pubblico ministero
alla richiesta tempestivamente presentata dall’imputato, la sentenza di
patteggiamento non può essere assimilata alla sentenza dibattimentale (Cass. Sez.
U, Sentenza n. 295 del 12.10.1993, dep. 17.01.1994, Rv. 195617).
Ciò posto, si osserva che con riferimento alla individuazione degli specifici
termini per l’impugnazione dei provvedimenti emessi in seguito a procedimento
camerale, sia che essi abbiano natura di sentenza o di ordinanza o decreto, il
prevalente orientamento espresso dalla Corte regolatrice è nel senso di ritenere che
deve, in ogni caso, trovare applicazione la previsione di cui all’art. 585, comma 1,
lett. a), cod. proc. pen., di talché il termine per impugnare risulta pari a quindici
giorni (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5496 del 3.02.2010, dep. 11.02.2010, Rv.
246125; Cass. Sez. 4, sentenza n. 6387 del 21.12.2011, dep. 16.02.2012, n.m.).
Orbene, le considerazioni sin qui svolte inducono a ritenere che il termine
per l’impugnazione delle sentenze rese ai sensi dell’art. 444, comma 2, cod. proc.
pen. – a parte il caso di sentenza emessa all’esito del dibattimento, qualora il
pubblico ministero non abbia aderito alla richiesta di applicazione della pena
formulata dalla parte, come sopra chiarito – sia unico e pari a giorni quindici, ai
sensi dell’art. 585, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., atteso che la sentenza di
patteggiamento non può essere altrimenti assimilata alla sentenza dibattimentale.
La considerazione assorbente del predetto rilievo, che muove dalla natura camerale

Con unico motivo la parte denuncia la carenza di motivazione, in ordine alla

del provvedimento, induce poi a ritenere che il termine per l’impugnazione non muti
anche nel caso in cui il giudice depositi la motivazione nel quindicennio giorno; e
che in tal caso il termine decorra dalla scadenza del termine stabilito dalla legge per
il deposito della sentenza e non dalla lettura del provvedimento.
Applicando le richiamate coordinate interpretative alla fattispecie di
giudizio, si osserva che il ricorso in esame risulta inammissibile per tardività.
L’imputata era presente all’udienza del 12.12.2012, la sentenza è stata resa in pari

giorni; pertanto, il termine per l’impugnazione, decorrente dal 27.12.2012, è
venuto a scadenza in data 11.01.2013. Il presente ricorso, che è stato depositato
in data 20.02.2013, risulta pertanto tardivamente proposto.
Tanto rilevato, per completezza argomentativa, si osserva che il ricorso
presenta ulteriori ragioni di inammissibilità.
Giova considerare che questa Suprema Corte ha ripetutamente affermato il
principio che l’obbligo della motivazione della sentenza non può non essere
conformato alla particolare natura giuridica della sentenza di patteggiamento: lo
sviluppo delle linee argomentative è necessariamente correlato all’esistenza
dell’atto negoziale con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti
dedotti nell’imputazione. Ciò implica che il giudizio negativo circa la ricorrenza di
una delle ipotesi di cui al richiamato art. 129 cod. proc. pen. deve essere
accompagnato da una specifica motivazione solo nel caso in cui dagli atti o dalle
deduzioni delle parti emergano concreti elementi circa la possibile applicazione di
cause di non punibilità, dovendo invece ritenersi sufficiente, in caso contrario, una
motivazione consistente nella enunciazione, anche implicita, che è stata compiuta
la verifica richiesta dalla legge e che non ricorrono le condizioni per la pronunzia di
proscioglimento ex art. 129 (Sez. U. 27 marzo 1992, Di Benedetto; Sez. U. 27
dicembre 1995, Serafino). Tale orientamento è stato concordemente accolto dalla
giurisprudenza successiva. Anche per ciò che riguarda gli altri tratti significativi
della decisione, che riguardano precipuamente la qualificazione giuridica del fatto,
la continuazione, l’esistenza e la comparazione delle circostanze, la congruità della
pena e la sua sospensione, la costante giurisprudenza di questa Corte, nel solco
delle enunciazioni delle Sezioni unite, ha affermato che la motivazione può ben
essere sintetica ed a struttura enunciativa, purché risulti che il giudice abbia
compiuto le pertinenti valutazioni. Né l’imputato può avere interesse a lamentare
una siffatta motivazione censurandola come insufficiente e sollecitandone una più
analitica, dal momento che la statuizione del giudice coincide esattamente con la
volontà pattizia del giudicabile.
D’altra parte, attesa la natura pattizia del rito, chi chiede la pena pattuita
rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa. Ne consegue, come questa

data ed il giudice ha depositato la motivazione nel rispetto del termine di quindici

Suprema Corte ha più volte avuto modo di affermare, che l’imputato non può
prospettare con il ricorso per cassazione censure che coinvolgono il patto dal
medesimo accettato. Non è consentito, dunque, all’imputato, dopo l’intervenuto e
ratificato accordo, proporre questioni in ordine alla mancata applicazione
dell’articolo 129 cod. proc. pen., senza precisare per quali specifiche ragioni detta
disposizione avrebbe dovuto essere applicata nel momento del giudizio. Occorre,
peraltro, rilevare che, nel caso di specie, il giudice ha indicato le ragioni poste a

condizioni per procedere ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., richiamando il
contenuto del verbale di arresto e di sequestro. Oltre a ciò, il giudicante ha rilevato
che le circostanze generiche potevano riconoscersi stante l’incensuratezza e la leale
condotta processuale.
Segue, a norma dell’articolo 616 cod. proc. pen., la condanna della
ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro
1.500,00 a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di € 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, in data 20 novembre 2013.

fondamento della propria determinazione, in ordine alla insussistenza delle

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