Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6882 del 06/11/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 6882 Anno 2016
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: SETTEMBRE ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CACCAMO DOMENICO DANIELE N. IL 06/05/1987
MORABITO GIOVANNI N. IL 09/05/1972
PITASI SEBASTIANO N. IL 21/06/1967
RUSSO DOMENICO N. IL 26/10/1967
RUSSO FRANCESCO N. IL 12/09/1963
RUSSO FRANCESCO N. IL 24/08/1973
SGRO’ FRANCESCO N. IL 17/10/1966
BARBARO ANTONINO N. IL 26/12/1986
NAVA IVAN VALENTINO N. IL 11/07/1985
PITASI NICOLA N. IL 28/02/1979
PIRRELLO ANTONINO N. IL 16/07/1977
avverso la sentenza n. 435/2013 CORTE APPELLO di REGGIO
CALABRIA, del 29/05/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 06/11/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANTONIO SETTEMBRE
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Data Udienza: 06/11/2015

1) Udito il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione,
dr. Enrico Delehaye, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
2) Uditi, per gli imputati:
– l’avv. Calabrese Francesco per Russo Francesco classe ’73 e Sgrò Francesco;
– l’avv. Umberto Abate per Russo Francesco classe ’63;
– l’avv. Giacomo Tana per Pitasi Nicola;
– l’avv. Lorenzo Gatto per Barbaro Antonino;
– l’avv. Marino M. Punturieri per Russo Francesco classe ’73;

Domenico;
– l’avv. Monica Schipani in sost. dell’avv. Giovanna Araniti per Morabito Giovanni;
– l’avv. Giovanni Aricò per Nava Ivan Valentino;
– l’avv. Santo Tana per Pirrello Antonino;
– l’avv. Emanuele Maria Genovese per Russo Francesco classe ’63 e Caccamo
Domenico Daniele
I quali hanno chiesto, tutti, l’accoglimento dei ricorsi.
3) udito l’avv. Giovanni Sisto Vecchio per la parte civile, che ha chiesto il rigetto
dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. I Giudici di Reggio Calabria hanno, all’esito di diversi procedimenti (alcuni
definiti con sentenza irrevocabile ed altri in corso di svolgimento), ritenuto
esistente ed operante, nella città di Reggio Calabria e dintorni, un’associazione
mafiosa facente capo a Serraino Alessandro e Serraino Demetrio ed inserita nella
più vasta organizzazione mafiosa calabrese, comunemente nota come
‘ndrangheta. La maggior parte dei soggetti ritenuti capi ed organizzatori
dell’associazione (Serraino Alessandro e Demetrio, Giardiniere Fabio, Cortese
Maurizio) sono stati, insieme ad altri, giudicati separatamente; nel presente
procedimento è stata invece esaminata la posizione di Barbaro Antonino,
Caccamo Domenico Daniele, Lavena Felice, Morabito Giovanni, Nava Ivan
Valentino, Pirrello Antonino, Pitasi Nicola, Pitasi Sebastiano, Russo Domenico,
Russo Francesco classe 1963, Russo Francesco classe 1973 e Sgrò Francesco.
Tutti, a parte Lavena, sono stati ritenuti responsabili, e condannati, sia dal
Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Reggio Calabria, in sede di
giudizio abbreviato, che dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, per il reato di
cui all’art. 416/bis cod. pen. aggravato dal possesso di armi (quarto comma
dell’art. 416/bis), nonché: Pitasi Nicola per estorsione, aggravata ai sensi
dell’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni in legge 12
luglio 1991, n. 203 (capo B); Nava Ivan Valentino, Barbaro Antonino, Pitasi
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– l’avv. Giueppe Nardo per Nava Ivan Valentino, Pitasi Sebastiano e Russo

Nicola e Lavena Felice per danneggiamento aggravato e violenza privata in
danno di Monteleone Antonino Salvatore, a cui avevano bruciato l’autovettura di
proprietà (capo C); Nava Ivan Valentino, Barbaro Antonino e Lavena Felice per
danneggiamento aggravato in danno di Romeo Emilio Antonio, a cui avevano
bruciato l’autovettura (capo D); Barbaro Antonino per avere, in concorso . Con
Siclari Giovanni, nei cui confronti si è proceduto separatamente, danneggiato
l’autovettura di Bonvicino Giovanni, bruciandola (capo E); Nava Ivan Valentino,
Barbaro Antonino e Pirrello Antonino per danneggiamento aggravato in danno di
Corsaro Giuseppina, a cui avevano bruciato l’autovettura (capo F); Barbaro
,
Antonino, Russo Francesco classe ’73, Caccamo Domenico Daniele e Sgro
Francesco per detenzione e porto di armi comuni da sparo (capi G-M-N).
A tutti, a parte Lavena, è stata applicata la misura di sicurezza della libertà
vigilata e a carico di Russo Francesco classe ’73 è stata altresì disposta, ex art.
12-sexies decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni in
legge 7 agosto 1992, n. 356, la confisca di beni in precedenza sequestrati.

2. Come premesso, i giudici hanno ritenuto gli imputati (a parte Lavena)
partecipi di una ‘ndrina di ‘ndrangheta operante nel quartiere Modena-San
Sperato di Reggio Calabria con estensione della sua influenza nel vicino comune
di Cardeto, al cui vertice vi sarebbero Serraino Alessandro e Serraino Demetrio,
rispettivamente figlio e fratello di Serraino Domenico, capo storico della cosca,
deceduto – nel corso delle indagini – in data 11 marzo 2010, dopo lunga
detenzione. Astro nascente della cosca sarebbe pure Giardiniere Fabio, cognato
di Serraino Alessandro, mentre Cortese Maurizo sarebbe un organizzatore
dell’articolazione territoriale. Tra gli imputati del presente procedimento la
qualifica di “organizzatore” è stata riconosciuta pure a Russo Francesco classe
’73, mentre gli altri imputati (compreso Russo Francesco classe’ 63, che era
stato condannato in primo grado come organizzatore) sono stati ritenuti semplici
partecipi.
Il compendio probatorio, su cui si fonda la decisione, è costituito: ‘a) da
sentenze, passate in giudicato, emesse in altri procedimenti (“Santa Barbara”,
“De Stefano+35”, “Omicidio Ligato”, “Maremonti”), che certificano l’esistenza
della cosca già negli anni ’70-’80, allorché a guidarla vi era Serraino Francesco,
ucciso, unitamente al figlio Alessandro, il 23/4/1986 in un agguato perpetrato
all’interno degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria; dopodiché nella posizione di
comando erano subentrati i figli Paolo (attualmente detenuto) e Domenico
(deceduto, come si è detto, a marzo del 2010); b) dagli esiti del procedimento
“Crimine”, instaurato a carico di Serraino Alessandro ed altri, che ne hanno
messo in evidenza il ruolo egemone nell’ambito della famiglia, rafforzatosi dopb
la morte del padre. Già in seno a detto procedimento sono stati acquisiti, in

A

particolar modo tramite servizi di intercettazione di conversazioni telefoniche ed
ambientali, importanti elementi utili a tratteggiare i nuovi assetti della l cosca, che
sono stati riversati – tramite il meccanismo delle produzioni nelrattuale
procedimento; c) dalle dichiarazioni del collaboratore Fregona Vittorio Giuseppe
(a cui carico si è proceduto separatamente per numerosi delitti di
danneggiamento e rapina, aggravati dal metodo mafioso, in materia di armi e
stupefacenti), che aveva preso a collaborare il 10/8/2009 ed aveva tratteggiato i
nuovi ruoli di comando all’interno della cosca, evidenziando, in particolare,’ quello

cognato Pirrello Antonino); d) dalle dichiarazioni di Moio Roberto, affiliato alla
cosca Tegano; di Villani Consolato, affiliato alla cosca Lo Giudice, e di Mesiano
Carlo, i quali, pur operando in altri schieramenti, erano tuttavia informati delle
dinamiche criminali reggine ed erano informati sul mondo criminale che è
oggetto di questo giudizio; e) dalle intercettazioni, telefoniche ed ambientali,
raccolte in questo procedimento. Questo complesso di elementi è univocamente
dimostrativo, secondo i giudici, sia della persistenza e attuale operatività della
cosca facente capo a Serraino, sia della partecipazione ad essa, in qualità di
associati, di tutti gli imputati di questo procedimento, giacché da essi
(soprattutto dagli esiti delle intercettazioni) si trae la prova dello stabile vincolo
tra i partecipanti, della consapevolezza e della volontà di costoro di far parte di
un organismo proiettato al controllo e allo sfruttamento del territorio con
metodologia tipicamente mafiosa, in un contesto organizzativo fortemente
strutturato e gerarchizzato, nonché la prova della commissione, da parte di
coloro cui sono imputati, dei reati connessi di estorsione, danneggiamento,
violenza privata, detenzione e porto di arma da fuoco. Gli attuali imputati
sarebbero, secondo i giudici, le nuove leve dell’organizzazione, catalizzate
intorno alla figura di Cortese Maurizio, che farebbe da tramite col sOvraordinato
Giardiniere Fabio e, attraverso quest’ultimo, con i vertici del sodalizio.

3. Contro la sentenza suddetta hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo
dei rispettivi difensori, tutti gli imputati, con esclusione di Lavena Felice.
3.1. Barbaro Antonio ricorre a mezzo dell’avv. Lorenzo Gatto, che si avvale di
quattro motivi.
3.1.1. Col primo censura la sentenza per violazione di legge e vizio’, di
motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità per il reato associativo.
Anch’egli, come gli altri, deduce l’inadeguatezza del compendio probatorio
relativo al ruolo di Barbaro nell’associazione, che i giudici non hanno, nemmeno
precisato, limitandosi a parlare genericamente di “disponibilità” e a riportare gli
episodi criminosi contestati, da cui hanno presunto di ricavare la prova, della
partecipazione al sodalizio, attraverso un procedimento definito pèr facta
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di Giardiniere (il tutto per averlo appreso direttamente o perché informato ‘dai

concludentia, che omette di considerare la natura autonoma del reato associatiVo
e il fatto che, per aversi societas sceleris, accorrono l’affectio societatis,
l’organizzazione e il contributo cosciente e volontario alla vita dell’associazione.
D’altra parte, aggiunge, nemmeno gli altri elementi valorizzati dal giudicante H a
frequentazione con Fabio Giardiniere, l’utilizzo di un gergo ‘ndranghentistico e il
fatto di “agire come un’associazione” – sono probanti nella direzione ritenuta in
sentenza, giacché le frequentazioni possono – secondo la giurisprudenza essere, al più, valorizzate come riscontri ex art. 192 cod. proc. pen., mentre là

agli scopi associativi.
3.1.2. Col secondo motivo si duole dell’erronea applicazione dell’aggravante di
cui all’art. 7 L. 203/91 – ritenuta sussistente in relazione ai reati di
danneggiamento a lui contestati ai capi C)-D)-E)-F) – e della motivazione con cui
è gli stata addebitata, poiché lo stesso giudice ha dato atto che le suddette azioni
delittuose scaturirono dal risentimento di Nava o di Siclari nei confronti delle
vittime e non già dall’intendimento di favorire l’associazione di appartenenza;
inoltre, non vi è traccia, nella specie, di “metodo mafioso”.
3.1.3. Col terzo motivo lamenta la violazione dei principi sul concorso nel reato,
della normativa in materia di armi e dell’art. 7 L. 203/91 per la ragione che
Barbaro è stato ritenuto corresponsabile di detenzione e porto di arma da fuoco
senza che la pistola di cui si parla nelle intercettazioni sia mai stata trovata,
nonostante Barbaro fosse, come i coimputati, costantemente controllato dalla
Polizia; inoltre, perché è stata ravvisata, anche in questo caso, la finalità
agevolatrice dell’associazione senza la prova che l’arma sia mai stata impiegata
“per fatti inerenti la cosca”.
3.1.4. Col quarto ed ultimo motivo lamenta la violazione degli artt.,133 e 62/bis
cod. pen. per la ragione che a Barbaro sono state immotivatamente negate le
attenuanti generiche.
3.2. Caccamo Domenico Daniele ricorre a mezzo dell’avv. Emanuele Genovese
criticando, innanzitutto, la ricostruzione del fenomeno delinquenziale calabrese
operato dai giudicanti, secondo cui vi sarebbe una sovrastruttura denominata
‘ndrangheta, divisa in sottoarticolazioni. Si tratta, aggiunge, di una
rappresentazione corretta per la criminalità organizzata siciliana; ma non per
quella calabrese, caratterizzata dalla coesistenza di più gruppi in competizione
tra loro, fortemente ancorati al territorio e alla famiglia. Da qui – :conclude – la
difficoltà di “configurare un fenomeno associativo in grado di còndividere un
medesimo disegno criminoso”, o quantomeno un medesimo, programma
associativo.
Nello specifico di questo processo, deduce l’inesistenza dell’affectio sOcietatis tra
i presunti sodali, posto che già in imputazione si parla di due “sottogrup ‘ (uno
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semplice qualità di “associato” è irrilevante senza la prova di un apporto tangibile

operante a San Sperato, sotto la guida di Serraino Alessandro, figlio di
Domenico; l’altro operante a Cardeto, sotto la guida di Serraino Demetrio,
fratello di Domenico) che operano in modo indipendente e perseguono finalità
proprie. Per quanto attiene, poi, specificamente alla posizione di CaóCarno,
lamenta che i giudici abbiano omesso di indicare gli elenienti probanti
dell’adesione dell’assistito alla ritenuta associazione, nonché gli eleménti da cui
desumere che questa avesse – attraverso l’opera di Caccamo – ‘proiezione
esterna”, intesa come capacità di intimidazione nell’ambiente circostante. Dalle

riferibili all’imputato che siano funzionali agli interessi e ‘agli scopi
dell’associazione, né condotte – specificamente qualificabili come mafióse – che si
caratterizzino per la loro incidenza nel contesto sociale di riferimentó. Anche in
questo caso il ricorrente passa in rassegna le intercettazioni che lo riguardano
per negare loro capacità indiziante (la cautela usata dal Caccamo nel far visita , a
Serraino Domeniico è facilmente spiegabile col fatto che quest’ultimo era in
detenzione domiciliare; Caccamo è estraneo alla vicenda del cd. “banco nuovo”;
Caccamo è dato erroneamente presente in alcuni incontri di carattere conviviale
tra i presunti sodali; le informazioni richieste a Russo sulla cd. “copiata” sono il
segno della estraneità dell’imputato alle abitudini e alle logiche mafiose; i
contatti di Caccamo con Gattuso Nicola erano stati sporadici e non qualificanti) e
sottolinea che anche Fregona non parla di lui come di soggetto affiliato,
indicandolo genericamente come soggetto vicino a Fabio Giardiniere: fatto a cui
manca ogni riscontro.
Circa il carattere armato dell’associazione, contesta poi la ricostruzione operata
dai giudici di merito, che hanno attribuito carattere dirimente ad una
conversazione – in cui si parla di pistola – senza tener conto del carattere
scherzoso della stessa e della possibilità che i conversanti si riferissero ‘ad
un’arma giocattolo; inoltre, senza considerare che l’arma – vera o falsa che fosse
– era detenuta da Russo e non da Caccamo, “il quale a tutto concedere poteva
essere solo consapevole della presenza della stessa”, e senza considerare che la
Corte di cassazione ha escluso “la rilevanza della predetta aggravante ad effetto
speciale nei casi in cui vi era la disponibilità di un’unica arma”, specie allorché
non vi sia la prova che quell’arma fosse detenuta per il conseguimento degli
scopi dell’associazione.
Con altro motivo si duole dell’applicazione dell’aggravante dell’art. 7 L. 203/91 al
possesso e al porto di arma comune da sparo (capo M), poiché non vi è prova
che l’arma fosse detenuta per avvantaggiare l’associazione, invece che il singolo
detentore.
Con ultimo motivo si duole della negazione delle attenuanti generiche, fatta
senza tener conto della giovane età dell’imputato e della sua incensuratczza

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intercettazioni e dalle testimonianze acquisite non emergono, infatti, condotte

3.3. Morabito Giovanni ricorre a mezzo dell’avv. Giovanna Araniti dolendosi del
fatto che non siano state tenute in nessun conto, dal giudice d’appello, le
osservazioni dell’appellante e gli elementi favorevoli all’imputato emersi
dall’istruttoria, né la documentazione prodotta nel corso dell’udienza preliminare.
Osservazioni attinenti al ruolo dell’imputato nell’associazione, al contributo da lui
dato alla vita e all’operatività dell’associazione, presupposti, più che dimostrati,
dai giudici di merito, i quali non hanno chiarito in alcuna maniera quali siano’ gli
elementi in base a cui ritenere Morabito partecipe – nel senso richiesto: dalla

giudici non hanno considerato che le poche intercettazioni riguardanti ‘Morabito si
prestano “a non univoche interpretazioni”, specie in considerazione del fatto che
quest’ultimo era dipendente della ditta di costruzioni “Alessandro Serraino”,
cosicché le conversazioni attengono spesso – circostanza, ribadisce, trascurata
dai giudicanti – a problematiche lavorative e non lasciano trasparire alcun ruolo
di Morabito nell’associazione. Prova ne sia che la sentenza non ha evidenziato né
contatti di quest’ultimo con i presunti sodali, né un suo coinvolgimento nelle
attività della presunta cosca, né rapporti assidui con lo stesso Serraino. Non ha
nemmeno tenuto conto del fatto che Morabito ha negato di aver partecipato ad
alcune conversazioni, in cui è dato presente dagli operanti e, conseguentemente,
dai giudici, né del fatto che ha negato di aver pronunciato le frasi che gli sono
attribuite (menziona, a tal riguardo, la conversazione del 16/4/2008, progr.
2696, malamente interpretata dai giudici, nonché quella, immediatamente
successiva, del progr. 2697, in cui Morabito è dato erroneamente presente.
Peraltro, aggiunge, i giudici non hanno considerato che, nelle conversazioni
suddette, la terza persona – fosse o meno Morabito – tenne un contegno
meramente passivo, che non è significativo di intraneità, anche perché i
conversanti utilizzarono un linguaggio criptico. Cita ancora la conversazione
dell’8/4/2008, progr. 134, erroneamente interpretata come relativa a dinaM .iche
associative e come prova della intraneità di Morabito, il quale, comunque, alla
stessa non partecipò. Infine, cita la conversazione del 15/4/2008, da, cui si
evince – sostiene – che Gattuso Francesco, considerato un personaggio di primo
piano dell’associazione, non conosceva Morabito). Così come non hanno tenuto
conto del fatto che nessuno dei collaboratori esaminati ha sostenuto di conoscere
Morabito e del fatto che questi non risponde di alcun reato-fine.
Anche l’esistenza di un’associazione partecipata da Morabito è, del restò,
indimostrata, dacché i giudici non hanno sciolto il dilemma se la compagine
associativa sia una prosecuzione di quella antecedente, ovvero una struttura
associativa del tutto nuova, nella quale apparirebbero soggetti legati alla
precedente da rapporti di parentela o di affinità; inoltre, perché all’interno della
nuova struttura vengono delineati due gruppi (quello di San Sperato e 11.1e,llo di
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giurisprudenza più recente – del ritenuto sodalizio criminale. Infatti, aggiunge, i

Cardeto) che – incredibilmente – non hanno contatti tra loro. Infine, perché non
è stata dimostrata né una messa in comune delle risorse, né una suddivisione di
utili.
Da ultimo, il ricorrente censura la sentenza per aver omesso di motivare ,in
ordine alla richiesta, avanzata in appello, di riqualificare il reato come concorso
esterno nel reato associativo; in ordine alla richiesta di concessiorie idelle
attenuanti generiche in regime di prevalenza o di equivalenza; in ordine ‘alla
esclusione delle aggravanti.

motivi di ricorso.
3.4.1. Col primo censura la sentenza per erronea applicazione dell’art. 416/bis
cod. pen. e violazione delle regole di valutazione probatoria, oltre che Per
illogicità della motivazione. Lamenta che la condanna per il reato associativo sia
stata pronunciata sulla base di una piattaforma probatoria assolutamente
inadeguata, che è dimostrativa di una vicinanza e frequentazione con taluni
sodali e di appartenenza ad una subcultura tipica delle aree di pérmeazione
mafiosa, ma giammai di una compenetrazione col tessuto organizzativo del
sodalizio, tale da implicare un ruolo all’interno dello stesso. Passando poi
all’esame delle specifiche emergenze che lo riguardano, lamenta che la prova
dichiarativa evocata in sentenza si esaurisca nel richiamo delle propalazioni di
Villani, Fregona e Mesiano, senza che si sia proceduto – da parte di entrambi i
giudici di merito – alla verifica della loro attendibilità sotto i diversi profili richiesti
dalla giurisprudenza e senza alcun apprezzamento delle censure difensive, che
avevano messo in rilievo la genericità delle dichiarazioni e l’impossibilità di
ricondurle ad unità nel nucleo centrale – posto che i collaboratori lo davano vicino
a gruppi contrapposti (quello di De Stefano e quello di Serraino) – nonché la
mancata indicazione, nel racconto dei collaboratori, di atti o comportamenti a lui
riferibili che fossero indicativi non già di un consapevole apporto al
perseguimento degli interessi della consorteria, ma nemmeno di generic.à
“appartenenza”.
Quanto alla prova intercettativa, preso atto che il giudice d’appello ha operato
una notevole sfrondatura – per manifesta irrilevanza – del materiale utilizzabile
come prova a suo carico, deduce che anche la lettura delle due intercettazioni
“superstiti” (a parte quelle valorizzate come prova dell’esistenza
dell’associazione) consente di rilevare l’inosservanza, da parte del giudice
d’appello, delle regole che presiedono all’apprezzamento probatorio – sotto il
profilo della gravità, precisione e concordanza degli indizi – e la manifesta
illogicità della motivazione, giacché da esse emerge solamente la sua:conoscenza
con molti asseriti membri del clan, la conoscenza delle dinamiche del ,mondo
criminale e

l’appartenenza ad una subcultura d’ambiente, nonché la sua
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3.4. Nava Ivan ricorre a mezzo dell’avv. Giovanni Aricò, che ha articolatò tre

ignoranza circa la regolazione dei rapporti economici di Giardiniere, con i suoi
pretesi sottoposti. E anche l’affermazione più compromettente a lui attribÙita
(“siamo mercenari”) non è conducente rispetto all’oggetto specifico della prova,
che è data dal suo inserimento nell’associazione di Serraino e non da una
generica appartenenza al mondo criminale.
3.4.2. Col secondo motivo deduce mancanza di motivazione in ordine
all’aggravante dell’art. 7 L. 203/91 – contestata in relazione ai reati di
danneggiamento di cui ai capi C)-D)-E) – per l’assenza di elementi di sicura

coefficiente psicologico necessario a dimostrare che costui avesse agito col:Vine
di agevolare la consorteria mafiosa, o comunque nel suo interesse, dal momento
che anche i giudici riconoscono l’esistenza di una causale aggiuntiva, propria del
Nava, derivante da questioni, rancori e dissidi con le vittime. Né rileva che i capi
della presunta associazione potessero aver gradito l’iniziativa dell’imputato, né
che quest’ultimo fosse consapevole delle ricadute positive per l’associazione delle
azioni da lui poste in essere, posto che rilevanti, nella specie, sono i fini
perseguiti dall’agente e non i riflessi delle sue azioni delittuose. Sotto altro
profilo, aggiunge, carente è pure la dimostrazione dell’utilizzo – nella specie – del
“metodo mafioso”, che deve essere ricercato nell’attualità dell’episodio delittuoso
(posto in essere avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo)
e non desunto dal contesto ambientale in cui si svolge la condotta antigiuridica
(è indispensabile, cioè, “accertare e portare in luce i concreti tratti esteriori del
comportamento criminoso che ne connotano l’iscrizione alla metodologia
mafiosa”, ossia quei tratti, nell’estrinsecazione della condotta, tali da esercitare
sulla vittima un surplus di coartazione psicologica e vis intimidatoria derivante
dall’iscrizione alla metodologia mafiosa).
3.4.3. Col terzo ed ultimo motivo si duole del trattamento sanzionatorio,
caratterizzato dalla illegittima e immotivata denegazione delle attenuanti
generiche; tanto, in base alla sola gravità astratta del reato e senza tener conto
delle circostanze concrete in cui si è sviluppata la condotta dell’imputato.
3.5. Pirrello Antonino ricorre a mezzo dell’avv. Santo Tana denunciando plurime
violazioni di legge e difetto di motivazione su punti essenziali. Lamenta;
innanzitutto, che la Corte d’appello non abbia reso adeguata motivazione in
ordine alla stessa sussistenza di una compagine criminale di natura mafiosa,
radicata sul territorio e avente le caratteristiche di cui all’art. 416/bis cod. pen.;
non avendo nemmeno sciolto il dubbio se quella ritenuta sussistente fosse una

propaggine della storica cosca Serraino, di cui avrebbe mutuato i mètodi, ovvero
una nuova entità associativa, esplicante una propria capacità di intimidazione.
Tanto perché gli elementi indiziari e probatori valorizzati dai giudici di merito
sarebbero quanto mai labili e generici, in quanto il contributo dichiarativo del

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affidabilità dimostrativa in ordine alla sussistenza – in capo ‘a Nava – del

collaboratore Fregona si appalesa di equivoca capacità dimostrativa in rione
della sua conoscenza indiretta dei fatti (non era nemmeno inserito nella cosca di
“nuova generazione”), della obbiettiva genericità delle sue dichiarazioni e della
loro contraddittorietà in relazione ad aspetti essenziali del fatto da provare,
nonché dell’assenza di riscontri (nemmeno le armi sono state trovate nei luoghi
da lui indicati). Evidenzia che Fregona ha parlato essenzialmente della “storica”
cosca Serraino, rivelandosi ben poco informato su quella oggetto di giudizlo’,

e

che si è contraddetto, laddove ha dichiarato di aver appreso le notizie

lui di ‘ndrangheta.
Quanto alle intercettazioni, deduce che, seppur apparentemente relative a
condotte malavitose e metodi violenti, non offrono spunti per qualificare come
mafioso il gruppo delle nuove leve, non essendo rivelatrici di una capacità di
sopraffazione nel contesto sociale di riferimento. Lamenta che, sebbene,
quest’aspetto sia stato specificamente dedotto nei motivi d’appello, il giudice di
secondo grado – salvo evidenziare i rapporti della nuova compagine con la
storica cosca Serraino, anche dal punto di vista personale – si sia limitato a fare
rimando alla motivazione del primo giudice, privando così il Pirrello di un secondo
grado di giudizio.
Per quanto attiene specificamente alla posizione di Pirrello Antonino, lamenta che
i giudici abbiano sottovalutato gli elementi di valutazione offerti dall’indagine
privata (le dichiarazioni di Vazzana Natale e Vazzana Patrizia, che avevano
disvelato i sentimenti di astio e livore di Fregona nei confronti di Pirrello) per la
semplice ragione che erano parenti dell’imputato e che le loro dichiarazioni erano
“prive di riscontri”, capovolgendo, in tal modo, i termini del ragionaméntó
valutativo, che esige i riscontri – in primis – per le dichiarazioni del collaboratore;
dichiarazioni che sono rimaste, invece, isolate nel panorama probatorio
valorizzato dal giudicante. Le intercettazioni, infatti, non offrono nessuna prova
della duratura messa a disposizione del ricorrente per l’attività del sodalizio,
rivelando, al massimo, una conoscenza – da parte di Pirrello – delle dinamiche
interne dell’associazione, senza che ciò si traduca in prova di organica adesione
(il ricorrente menziona le intercettazioni che lo riguardano, evidenziando che
concernono le sorti di una proprietà – una sala giochi – condivisa con Giardiniere
Fabio, nonché la sua partecipazione al matrimonio di Nava e al funerale di
Domenico Sérraino: conversazioni – aggiunge – irrilevanti sotto il ‘profilo che
interessa).
Con ultimo motivo si duole del riconoscimento, in relazione al reato associativo,
dell’aggravante dei cui al quarto comma dell’art. 416/bis cod. pen., nonché in
relazione al di danneggiamento contestatogli al capo F), dell’aggravante di ;cui
all’art. 7 della legge 203/91. Deduce, sotto il primo profilo, che nessuna

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sull’associazione dal cognato Pirrello e, contestualmente, di non aver parlato co,n

dimostrazione è stata data della consapevolezza, da parte di Pirrello,, del
possesso di armi dai parte di presunti sodali; sotto il secondo, che non sia stato
spiegato perché il danneggiamento dell’auto di Corsaro Giuseppina fosse diretto
a favorire l’attività dell’associazione e non fosse dovuto, invece, „al dissidio
esistente tra Corsaro e il solo Nava Ivan, né è stato spiegato perché’ quel
danneggiamento sia espressione di metodo mafioso.
In data 7 ottobre 2015 il difensore di Pirrello ha fatto pervenire a questa Corte
dichiarazioni di Fregona Fabio Salvatore – acquisite in sede di indagini difensive

parlato nel ricorso a questa Corte.
3.6. Pitasi Nicola ricorre a mezzo dell’avv. Giacomo lana, il quale, oltre a
sollevare le medesime censure in ordine alla sussistenza dell’associazione, alla
genericità del contributo dichiarativo di Fregona e alla non conducenza – sul
punto – degli esiti intercettativi, deduce, quanto alla specifica posizione
dell’assistito, l’assenza di prova circa l’effettivo contributo da questi fornito alla
vita e all’operatività del supposto sodalizio, in quanto la sentenza impugnata si è
limitata a evidenziare una mera vicinanza di Pitasi ad ambienti malavitosi e una
sorta di “disponibilità” del medesimo, apoditticamente desunta dal dato penalmente neutro – del legame di parentela sussistente tra lo stesso e Cortese
Maurizio. Il ricorrente critica, quindi, il ragionamento e le conclusioni dei giudici
di merito in ordine alle tre conversazioni cui risulta interessato il Pitasi, rilevando
che, in un caso, Pitasi viene ammonito da Cortese per il fatto di intrattenere
frequentazioni con persone non gradite al “gruppo” (conversazione – aggiunge che, pur interpretata nel senso proposto dalla Corte di merito, non è
dimostrativa della mafiosità del “gruppo”); in altro caso Pitasi concorre, con
Siclari Giovanni, nel pestaggio di un soggetto inviso a quest’ultimo
(conversazione – spiega – che non è sintomatica della messa a disposizione di
Pitasi per ogni attività del gruppo); in altri casi si parla del matrimonio di Nava o
del funerale di Serraino (conversazioni – conclude – che non sono conducenti
rispetto alla conclusione dei giudicanti).
Con altro motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla
prova del reato di cui al capo B) (estorsione in danno di Restuccia), per essere
stata omessa ogni valutazione circa l’idoneità della minaccia a coartare – in
concreto – la volontà della vittima, tenuto conto del fatto che non sono
utilizzabili le dichiarazioni rese dall’imputato ai carabinieri nell’immediatezza dl
fatto.
Con un terzo motivo si duole della motivazione con cui è stata ritenuta la
partecipazione di Pitasi al danneggiamento dell’auto di Monteleone Antoninó
(capo C), nulla emergendo – dalla conversazione intercettata – in términi lcii
adesione di Pitasi al proposito criminoso dei coimputati.

11

– relative al fratello Fregona Vittorio Giuseppe; dichiarazioni di cui, sostiene, ha

Con ultimo motivo si duole del riconoscimento, in relazione al reato associativo,
dell’aggravante di cui al quarto comma dell’art. 416/bis cod. pen., nonché, in
relazione agli altri reati a lui contestati, dell’aggravante di cui all’art. 7 della
legge 203/91. Deduce, sotto il primo profilo, che nessuna dimostrazione è stata
data della consapevolezza, in Pitasi, del possesso di armi dai parte di presunti
sodali; sotto il secondo profilo, che manca del tutto la prova che l’azione fosse
diretta a favorire l’attività criminosa dell’associazione, invece che sé stesso (la
stessa Corte d’appello non ha escluso – aggiunge – che Pitasi abbia agito al solo

Monteleone, la Corte d’appello non ha, invece, tenuto cónto del dissidio esistente
tra il giornalista e Nava).
3.7. Pitasi Sebastiano ricorre a mezzo dell’avv. Giuseppe Nardo con tre motivi.
3.7.1. Col primo deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo
alla ritenuta sussistenza dell’associazione. Lamenta che

i giudici di merito

abbiano ritenuto esaustivo – per la configurabilità del sodalizio criminale – il
“mero associarsi” per scopi criminali e che abbiano attribuito un mero valore
sintomatico (quindi, probatorio) alle condotte concretamente poste in essere in
esecuzione del pactum sceleris, trascurando l’insegnamento giurisprudenziale
secondo cui la condotta di partecipazione è riferibile a colui che esplichi un ruolo
dinamico e funzionale all’interno dell’organismo, rimanendo a disposizione per i
comuni fini criminosi. Peraltro, la Corte di merito si sarebbe poi contraddetta
quando è scesa sul piano concreto della prova, poiché si è limitata ad elencare
gli elementi che, a suo giudizio, proverebbero l’esistenza e l’operatività della
cosca senza spiegare perché si tratti di elementi aventi effettiva valenza
dimostrativa. Infatti, spiega, non ha tenuto conto che il processo “crimine” – i cui
esiti sono stati valorizzati dai giudici di merito per dimostrare l’attuale
persistenza dell’associazione facente capo ai Serraino – non è ancora stato
definito con sentenza passata in giudicato e che si tratta di procedimento
costellato di numerose assoluzioni e valutazioni di merito che hanno ampiamente
smentito la ricostruzione accusatoria; non ha spiegato perché i danneggiamenti
contestati al coimputato Nava Ivan, perché la lite intercorsa tra alcuni giovani
accoliti e Buonvicino e perché i contenuti della conversazione intercorsa tra
Giardiniere e Cuzzola sarebbero dimostrativi dell’impiego del metodo mafioso,”
invece che espressione della tendenza bullistica di pochi giovani di quartiere,
stante la platealità con cui si è manifestata. Peraltro, aggiunge, era stata data la
prova – quanto ai danneggiamenti imputati a Nava – di una ricostruzione
alternativa degli stessi sul piano psicologico e della eventuale causalé, Senza
ricevere risposta dalla Corte di merito. Anche la mera presenza, non
accompagnata da alcunché in termini associativi, all’internO del presénte
procedimento, di alcuni componenti della storica cosca Serraino, è di cèrtp ancor

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fine di procurarsi un lavoro. Per quanto riguarda il danneggiamento dell’auto ‘di

meno della mera “appartenenza” dei medesimi alla consorteria di cui si diSCute’e
la cui esistenza dovrebbero concorrere a dimostrare. Né la Corte Oppello . ha
dimostrato perché la partecipazione di alcuni soggetti al matrimonio di Navà e al
funerale di Domanico Serraino sarebbero dimostrativi di una “partecipazióne
associativa”, specie in considerazione del fatto che una reale ,partecipazioné,è
mancata e il matrimonio di Nava rischiò addirittura una defezione , tótale, evitata
solo grazie alle insistenze dello sposo presso gli amici.
Lamenta che la Corte di merito non abbia addotto argomenti idonei a, superare i

intercettate – definite “mero scambio di chiacchiere tra soggetti ubriachi” – che
sarebbero al più espressione di una sub-cultura vagamente imitativa di quella
“ndranghentistica”, nonché in ordine alla dedotta inattendibilità dei collaboratori,
dalle cui dichiarazioni non si traggono che asserti di vaga conoscenza e di
appartenenza degli imputati a una cosca di “ndrangheta”.
Infine, si duole, nell’abito del primo motivo di ricorso, che non siano state spese
parole sul dolo associativo, che pure dovrebbe sussistere per la configurabilità
del sodalizio.
3.7.2. Col secondo lamenta l’insufficienza degli elementi di prova

esposti in

sentenza – per l’affermazione della responsabilità di Pitasi in ordine al reato
associativo. Rileva, innanzitutto, che la stessa Corte di merito ha attribuito
scarsa rilevanza – ritenendoli, al più, segno di mera “appartenenza” – ad alcuni
episodi che hanno riguardato Pitasi Sebastiano (rappresentati dalla
conversazione del 20/1/2009, da cui risulterebbe che Pitasi ebbe a sottrarre ad
uno dei sodali ubriachi un’arma prima che la discussione in corso degenerasse;
dalla partecipazione di Pitasi ad alcune “mangiate” di gruppo, posto che in esse
non furono trattate questioni associative; dalla presenza di Pitasi, in alcune
occasioni, nell’ufficio retrostante l’autorimessa di Russo Francesco classe ’73) e
che abbia, irragionevolmente, attribuito valore decisivo al alcune emergenze
processuali prive di significativa valenza, rappresentate: a) dal dialogo intercorso
il 9/5/2008 tra Russo Francesco classe ’73, Russo Francesco classe ’63 e Gattuso
Nicola, da cui sarebbe emersa la consapevolezza dei conversanti che anché Pitasi
Sebastiano era pedinato dalla Forze dell’Ordine; b) dal dialogo del 7/4/2008, in
cui i conversanti parlano della necessità di tenersi alla larga da un Certo
ristorante, perché frequentato da membri di Forze dell’Ordine; c) dal dialogo del
10/12/2008, in cui si sarebbe parlato del necessario riassetto organizzativo delié
cariche della cosca, da discutere a casa di Domenico Serraino. Senonché,
prosegue il ricorrente, trattasi di elementi privi della carica dimostrativa loro
attribuita, giacché: a) nella conversazione del 9/5/2008 il Pitasi – ass,ent
nell’occasione – viene semplicemente menzionato come soggetto pedin’ató dalle
FF.00, insieme ad altri dimoranti in Cardeto, senza che dalla conv rs’azione
1

3

rilievi difensivi in ordine alla vaghezza dei contenuti delle conversazioni

traspaia la preoccupazione dei presenti per l’attività intercettativa posta in essere
nei confronti dell’odierno imputato; b) dalla conversazione del 7/4/2008 si evince
solamente che il gruppo era intenzionato a recarsi al ristorante “solo per
mangiare”, senza che l’asserita devozione dimostrata da alcuno dei Conversanti
per i fratelli Serraino sia significativa di sottoposizione gerarchica di tipo mafiosò
e senza che il riferito ritrovamento di una microspia sia indicativo di alcunché;Hc)
la conversazione del 10/12/2008 è stata malamente interpretata dai giudici,
giacché non si parla, in essa, di visita a Serraino Domenico per discutere ‘di

Fortugno Sebastiano, di una bancarella per la vendita di prodotti tipici , in
occasione della transumanza invernale. Tale lettura alternativa – conclude – era
stata espressamente sottoposta all’attenzione della Corte di merito, con
l’esplicitazione del percorso logico seguito per arrivarci, senza che, tuttavia, gli
argomenti della parte siano stati presi in considerazione, anche solo per
confutarli. Ne consegue che l’analisi “logica” e globale degli stessi elementi presi
in considerazione dalla Corte di merito per affermare l’intraneità di Pitasi al
sodalizio si appalesano di assoluta insufficienza e inconsistenza rispetto al
raggiungimento della prova, perché mancanti di gravità, precisione
concordanza.
3.7.3. Col terzo motivo si duole – sotto il profilo della violazione di legge e del
vizio di motivazione – della mancata concessione delle attenuanti generiche

e

dell’applicazione della pena nel minimo edittale, richiesti in considerazione’dellé
condizioni familiari e personali del Pitasi e del buon comportamento processuale,
nemmeno valutati dalla Corte.
3.8. Russo Domenico ricorre anch’egli a mezzo dell’avv. Giuseppe Nardo, che si
avvale, anche in questo caso, di tre motivi.
3.81. Col primo solleva – in ordine alla ritenuta sussistenza della cosca Serraino
– le medesime censure mosse da Pitasi Sebastiano alla sentenza impugnata.
3.8.2. Col secondo censura la motivazione con cui è stata ravvisata I
partecipazione di Russo Domenico alla cosca suddetta. Premesso che la stessa
Corte d’appello ha svalutato il significato probatorio di alcuni elementi invece
valorizzati – a carico dell’imputato – dal Giudice dell’udienza preliminare (la
stretta frequentazione con altri presunti sodali; la partecipazione alle cd.
r
“mangiate”), passa in rassegna le intercettazioni ritenute dai giudidanti più
significative di intraneità al sodalizio per ribadire – come aveva g fatto in
appello – che: a) dalla conversazione del 7/4/2008 si evince solamente che
Russo Domenico si recò – in compagnia di altri – in un certo ristorante “solo per
mangiare” e che rimase estraneo ai discorsi intervenuti nell’occasione ; b) la
stessa Corte d’appello ha attribuito scarsa rilevanza all’ulteriore intercettazione
del 7/4/2008, in cui si parla della visita da fare a Serraino Domenico, salvo ,poi
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organizzazione del sodalizio, ma dell’allestimento, da parte dell’allevatore

contraddirsi nella valutazione dell’elemento; c) il dialogo del 12/1/2008 – in cui
Caccamo Daniele e Russo Francesco classe ’73 parlano di Russo Domenico come
di soggetto in grado di sostenere la scalata, nella gerarchia mafiosa, di altro
soggetto non meglio identificato – è scarsamente intellegibile e da essa
traspaiono soltanto i pensieri e i sentimenti di due asseriti accoliti, che ‘non
qualificano in alcuna maniera la posizione dell’imputato; d) ugualmente
i
censurabile è il rilievo dato dalla Corte d’appello alla conversazione’ del
20/6/2008 – nella quale la Corte ritiene si sia parlato di “formule dì rdrangheta”

dimostrativi e per la lettura – univocamente orientata – di essa’ fatta dalla Corte
di merito; e) le dichiarazioni dei collaboratori Villani e Fregona non possono
essere poste – per la loro genericità e indeterminatezza – a base di un giudizio di
colpevolezza; f) è illogico porre a base di una pronuncia di condanna gli stessi
elementi giudicati insufficienti dal giudice della cautela.
3.8.3. Col terzo motivo si duole – sotto il profilo della violazione di legge e del
vizio di motivazione – della mancata concessione delle attenuanti generiche e
dell’applicazione della pena nel minimo edittale, richiesti in considerazione delle
condizioni familiari e personali dell’imputato e del buon comportamento
processuale, nemmeno valutati dalla Corte.
3.9. Russo Francesco classe’ 73 ricorre a mezzo degli avvocati Maurizio
Punturieri e Francesco Calabrese, che si avvalgono di quattro motivi.
3.8.1. Col primo lamentano che la Corte – in violazione dell’art.192 cod. proc.
pen. e con motivazione illogica – abbia ritenuto la sussistenza dell’associazione e
la partecipazione di Russo ad essa in virtù di elementi probatori scarni,
insufficienti e malamente valutati, o perché riferiti ad un periodo storico diverso
rispetto a quello oggetto di contestazione (le sentenze e le risultanze dei
procedimenti “Olimpia 1”, “Olimpia 2”, “Olimpia 3”, “MareMonti” e “Crimine”), o
perché provenienti da collaboratori di giustizia incapaci – per la loro posizione è
per l’epoca della militanza – di specificare il ruolo degli imputati (non solo di
Russo Francesco) nel contesto associativo e il dettaglio delle attività criminali, o
perché costituite da conversazioni vaghe – oltretutto male interpretate catturate mediante intercettazione. E’ sulla base di tali inaffidabili elementi aggiungono – che i giudici di merito hanno ravvisato una continuità tra la storica
cosca Serraino e l’attività degli odierni imputati, nonostante l’assoluzione
intervenuta nel giudizio celebrato – a suo tempo – a loro carico (il riferimento è
al cd. Proc. “MareMonti”) e nonostante la inidoneità delle sentenze, ancorché
irrevocabili, a fornire da sole – nel diverso procedimento – la prova dei fatti in
esse accertati. Quanto, in particolare, alle intercettazioni, lamentano che i giudici
si siano limitati a riportare, in maniera “asettica”, il contenuto délle conversazioni
senza sottoporle ad accurato vaglio critico e senza tener conto delle deduzioni
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e di una “disposizione della Provincia” – per la pochezza dei contenùtì

difensive, con le quali era stata messa in evidenza la totale genericità e la dubbia
decifrabilità dei dialoghi. Contestano che il compendio intercettativo valorizzato a
carico di Russo sia prova del ruolo apicale a lui attribuito, non essendo stato
provato che “si fosse attivato al fine di veicolare direttive all’interno del
sodalizio”, ovvero che avesse influito sul conferimento di cariche nella “società
maggiore”, né che avesse ricevuto alcuna “dote” col beneplacito dei capi.
Peraltro, i giudici hanno trascurato altri dati rilevanti emersi dalle intercettazioni,
quali la inconsapevolezza – nei soggetti intercettati all’interno ,della sua rivendita

superficialità con cui facevano riferimento a “rituali” ‘ndranghentistici, [‘ignoranza
circa il luogo di detenzione domiciliare – fissato dopo la scarcerazione – di
Serraino Domenico: tutti elementi dimostrativi di estraneità attuale alla supposta
societas sceleris.
3.8.2. Col secondo motivo contestano, più specificamente, la congruità della
motivazione con cui è stato attribuito a Russo un ruolo apicale all’interno
dell’organizzazione. Fanno rilevare che stessi elementi posti a carico
dell’imputato sono stati ritenuti, per l’omonimo Russo Francesco classe ’63,
segno di semplice intraneità al sodalizio e che si tratta, comunque, di elementi
inidonei a sorreggere la conclusione cui sono pervenuti i giudicanti, giacché
dimostrano che Russo mancava di “carisma criminale” (per essergli stata negata
la promozione cui – secondo i giudici – aspirava) e perché dimostrano che era
all’oscuro delle dinamiche criminali della zona di riferimento, posto che non
sapeva chi avesse collocato una bottiglia incendiaria nell’escavatore di tale
“Mimmo”, imprenditore del posto, e perché questi dovette rivolgersi
direttamente a “Lisciandro” (Serraino Alessandro) per essere rassicurato.
Peraltro, concludono, nemmeno i collaboratori esaminati hanno parlato di un
ruolo apicale di Russo all’interno del sodalizio.
3.8.3. Col terzo motivo contestano che gli elementi valorizzati dai giudicanti
siano dimostrativi della detenzione e del porto di una pistola vera (reati
contestatigli ai capi M ed N) e del fatto che servisse alle finalità dell’assoCiazione;
non essendovi prova della autenticità della pistola che appare nelle videoriporese
né del fatto che fosse a disposizione dei membri della cosca.
3.8.4. Col quarto ed ultimo motivo lamentano la “laconicità” della motivazione
con cui sono state negate le attenuanti generiche e la fissazione della’ pena ‘sotto
il minimo edittale, senza “porre in alcun rilievo di sorta il dato tangibile dei rilievi
difensivi”.
3.10. Russo Francesco classe ’63 ricorre a mezzo degli avvocati Umberto’Abate
ed Emanuele Genovese, che si avvalgono di due motivi.
3.9.1. Col primo censurano la sentenza per violazione dell’art. 416/bis cod. peri.
e violazione delle regole di valutazione probatoria. I ricorrenti , riticano;

16

– circa la corretta “declinazione” delle “cariche” associative, l’ilarità e la

innanzitutto, come ha già fatto Caccamo, la ricostruzione – operata dai giudicanti
– del fenomeno delinquenziale calabrese, che è caratterizzato dalla coesistenza di
più gruppi in competizione tra loro, fortemente ancorati al territorio e alla
famiglia. Da qui – pertanto – la difficoltà di “configurare un fenomeno associa0vo
in grado di condividere un medesimo disegno criminoso”, o quantomeno un
medesimo programma associativo. Anch’essi deducono, nello specifico di questo
processo, l’inesistenza dell’affectio societatis tra i presunti sodali, posto che già
in imputazione si parla di due “sottogruppi” (uno operante a San Sperato, sc:IttO

sotto la guida di Serraino Demetrio, fratello di Domenico) che operano in mcklo
indipendente e perseguono finalità proprie.
Per quanto attiene, poi, specificamente alla posizione di ‘Russo Francesco,
contestano che sia stata data la prova di un contributo concreto e consapevoie
dell’imputato alla vita e all’operatività dell’associazione, oltre che causalmente
orientato alla realizzazione di un comune programma criminoso. Tanto perché
nulla emerge dagli atti circa una ” proiezione esterna” delle condotte di Russo e
dei sodali idonee ad incidere sulla sfera di soggetti estranei, costretti a subire
l’invadenza e la sopraffazione del gruppo di associati (i ricorrenti si rifanno alla
giurisprudenza di questa Corte, che vuole, per la configurabilità dell’associazione
mafiosa, non il solo uso della violenza o della minaccia, previsto come elemento
costitutivo dei delitti programmati, ma anche che la forza di intimidazione sia
espressione dello stesso vincolo associativo e sia diretta a creare sul territorio
condizioni di assoggettamento tale da rendere difficile l’interevento preventivo e
repressivo dello Stato e da creare una diffusa omertà). E non emerge un ruolo di
Russo nell’associazione, posto che quello attribuitogli dai giudicanti (mantenere i
contatti tra il vertice e la base dell’associazione) è assolutamente generico ‘é
incontrollabile e non è, di per sé, indice di partecipazione. Peraltro – aggiungono
– sono inconferenti e irrilevanti i dati desumibili dalle intercettazioni che
riguardano Russo, in quanto: a) le cautele da lui palesate nel mentre si
accingeva a far visita a Domenico Serraino si spiegano con la condizione di
quest’ultimo, che era in regime di detenzione domiciliare; b) il riferimento al ed
“Banco nuovo” – valorizzato dalla Corte – “non trova conferma nel dialogo
riguardante il prevenuto”; c) i giudicanti hanno ritenuto, per errore, che Russo
avesse partecipato ad alcuni incontri conviviali tra sodali; d) la partecipazione
dell’imputato al matrimonio della figlia di Pelle Giuseppe – nel’ corso del quale’ vi
sarebbe stata una vera e propria riunione di mafia – non è provata. Comunque,
non è provata la partecipazione di Russo alla riunione suddetta, pcisto che il
convegno ebbe luogo in due sale diverse e l’auto di Russo fu Segnalata hei presSi
della sala che non vide l’affluenza di personaggi compromettenti; e) il
monitoraggio dell’autovettura di Russo nei pressi del santuario della Madonna di
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la guida di Serraino Alessandro, figlio di Domenico; l’altro operante a Cardeto,

Polsi nella mattinata dell’1/9/2009 – data in cui, secondo i giudici, si svolse una
riunione di ‘ndrangheta – non è significativo, posto che la presenza in loco
dell’imputato non emerge dalle videoriprese effettuate dalla polizia.
3.9.2. Col secondo motivo deducono violazione di legge:e Vizio di motivazione in
ordine alla confisca – disposta ex art. 12-sexies L. 356/92 -:dei beni indicai in
parte narrativa (un terreno agricolo, un ciclomotore, i beni aziendali della ditta
“Russo Margherita”), ritenuti frutto di attività illecita Sulla base di un
automatismo probatorio che non sembra lasciare spazio “ad una valutazione

applicato dai giudicanti per accertare la spesa annua di una famiglia, è

da

considerarsi totalmente inaffidabile e che irragionevolmente l’acquisto dei beni
aziendali è stato disancorato dal rilascio di titoli cambiari, posto che l’accesso al
credito mal si conciliava con la disponibilità di risorse economiche di natura
illecita.
3.11. Sgrò Francesco ricorre a mezzo degli avvocati Giovanni de Stefano e
Francesco Calabrese con tre motivi.
Il ricorrente muove alla sentenza impugnata – con un primo motivo – le stesse
censure di Russo Francesco classe ’73 alla ritenuta sussistenza e operatività del
sodalizio. Per quanto lo riguarda più specificamente, lamenta che sia stato
ritagliato, per lui, un ruolo all’interno del sodalizio sulla base di dati neutri o privi
di significativa valenza, rappresentati dai colloqui intercettati, espressione
certamente di sub-cultura deviante (per le millanterie in essi contenute e per il
gergo utilizzato, che richiama storia, riti, termini – come “copiata”, “provincia”
“banco nuovo”, “trequartino” – tipici della cultura mafiosa), ma inidonei a
costituire prova dei fatti contestati. Da essi traspare, infatti, un mero
interessamento per le cariche conferite ad adepti o la semplice richiesta di
partecipare ad una visuta a Domenico Serraino, ovvero il ruolo di “manutentore”
di un’arma mai rinvenuta e di cui non è stata accertata l’autenticità, ma nulla che
riconduca ad un ruolo operativo e dinamico all’interno della presunta
associazione. D’altra parte, aggiunge, totalmente trascurata dai giudici di merito

è stata la considerazione contenuta nel gravame, secondo cui un intraneó
all’associazione non avrebbe avuto bisogno di informarsi circa le “cariche”
associative, che sono invariabilmente patrimonio ,conoscitivo degli associati, e
avrebbe appreso direttamente dai capi la distribuzione delle nuove cariche.
Con altro motivo contesta – come ha già fatto Russo Francesco classe ’73- che
gli elementi valorizzati dai giudicanti siano dimostrativi della detenzione
porto di una pistola vera (reati contestatigli ai capi M ed N’) e del fatto che l’arma
servisse alle finalità dell’associazione, non essendovi prova della autenticità della
pistola che appare nelle videoriporese né del fatto che fosse a’diSposiZione dei

membri della cosca.
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autonoma e disancorata da formule di stile”. Deducono che il metodo ISTAT,

Con ultimo motivo lamenta – anch’egli – la “laconicità” della motivazione con cui
sono state negate le attenuanti generiche e la fissazione della pena nel minimo
edittale, senza alcuna attenzione ai rilievi difensivi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Nessuno dei ricorsi merita accoglimento. L’esame ordinato dei motivi di
ricorso esige che vengano affrontate, in maniera Unitaria ., le problematiche

sul territorio e al “ruolo” nella stessa dei singoli associati, nonché, la
problematica – affrontata da tutti i ricorrenti – delle condizioni necessarie al
riconoscimento delle attenuanti generiche e quella relativa alla commisurazione
della pena. Successivamente verranno esaminate le posizioni ‘dei singoli
imputati.

A) Motivi comuni ai ricorrenti.
1. Vari ricorrenti hanno, con motivi spesso sovrapponibili, contestato la prova
dell’esistenza della cosca mafiosa a cui sono stati ritenuti associati.
Il motivo è manifestamente infondato. La sentenza impugnata, sulla scorta di
sentenze passate in giudicato ed altre non definitive, ma soprattutto sulla base
del compendio probatorio acquisito nel corso del presente procedimento (in esso
compreso le intercettazioni provenienti da altri procedimenti e transitati in
questo col meccanismo delle produzioni), ha dato compiutamente conto
dell’esistenza e dell’operatività dell’associazione contestata, già operante in
passato nel territorio di Reggio Calabria e provincia e confermata nella sua
perdurante attività dagli esiti dell’istruttoria. I giudici hanno dato il giusto rilievo
all’accertamento, divenuto definitivo, della “storicità” (quantomeno fino all’anno
2001) della cd. cosca Serraino, dal nome dei suoi epigoni; hanno passato in
rassegna una mole, notevole, di intercettazioni comprovanti l’interazione della
cosca Serraino con le altre realtà mafiose del territorio calabrese; hanno
esaminato altre intercettazioni comprovanti la strutturazione e l’organizzazione
gerarchica della cosca in questione, la stretta cooperazione (anche per ragioni
criminali) tra i soggetti ritenuta ad essa partecipi, la presa sul territorio
esercitata con metodi spesso violenti, il possesso di armi. Corretta è, pertanto, la
conclusione cui sono pervenuti, accompagnata dall’osservazione che le
intercettazioni hanno offerto uno spaccato di vita criminale quasi mai emerso nel corso dei processi – con tanta evidenza.
L’esame di tali risultanze è contenuto nelle pagg. da 4 a 60 della sentenza
d’appello, a cui si rimanda, oltre ad essere ripreso nell’esame della posizione dei
singoli imputati, ed è stato condotto con metodo analitico, aderente al contenuto
J!
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relative all’esistenza dell’associazione mafiosa contestata, alla sua ‘proiezione”

della prova, in modo logico e coerente. Tanto è testimoniato dal tenore delle
censure mosse dai ricorrenti, i quali non hanno quasi mai contestato
specificamente la lettura delle intercettazioni fatta dai giudici di merito, salvo
,
negare loro la valenza ad esse attribuita, ma a torto, giacché effettivamente: la
realtà emersa dalle intercettazioni – appena sinteticamente esposta – è probante
sia del pactum sceleris che dell’affectio societatis. Non hanno ,fondamento le
deduzioni difensive – secondo cui dalle intercettazioni emerge solo una
subcultura tipica delle aree di permeazione mafiosa e la presunzione degli

fumi dell’alcol e si diletta di un linguaggio vagamente ‘ndranghentistico – giacché
ciò è che stato messo in evidenza rivela, invece, proprio la stretta e stabile
relazione tra i soggetti di questo procedimento, rivolta alla realizzazione di un
indeterminato programma criminoso, con i metodi e le finalità di una tipica
associazione mafiosa (quest’ultimo aspetto verrà meglio affrontato al punto
successivo).
Senza pregio sono, poi, le ulteriori deduzioni difensive in ordine alla “anomalia”
di un’associazione mafiosa, o genericamente criminale, composta di “frange”
distribuite in diversi “locali” di ‘ndrangheta (quello di Cardeto e quello di ModenaSan Sperato). Ciò che rileva, infatti, dal punto di vista del diritto, è il comune
sentimento di appartenenza ad un medesimo organismo, strutturato e còn
proprie gerarchie, dedito al perseguimento di scopi condivisi. L’esistenza di
un’associazione mafiosa – rapportabile alla fattispecie delineata dall’art. 416/bis
cod. pen. – va accertata, invero, secondo criteri “legali” e non secondo
l’articolazione che assume il fenomeno mafioso nelle regioni interessate
L’articolazione interna delle “mafie”può costituire, e spesso costituisce, Lin
formidabile strumento di identificazione di un determinato gruppo malavitoso;
costituente “associazione mafiosa” ai sensi dell’art. 416/bis cod. pen., ma non
vincola gli operatori del diritto, giacché i criteri legali ‘di accertamento della
societas sceleris (pactum e affectio) trascendono l’organizzazione interna del
crimine e la stessa strutturazione del fenomeno per derivare direttamente dalla
legge. Pertanto, una volta verificata, e accertata, la coesione interna di un
gruppo criminale, unificato intorno a figure dirigenziali riconosciute, deve
senz’altro ritenersi integrata la fattispecie legale dell’associazione,
indipendentemente dagli ambiti territoriali di influenza e indipendentemente dalle
relazioni che possano avere i suoi componenti con altre realtà della steSsa
natura.

2. Altra doglianza comune a quasi tutti i ricorrenti riguarda la prova della
“esternalizzazione” della forza criminale. I difensori contestano, infatti, che Sia
stata fornita la prova di una “proiezione esterna” delle condotte rife ibili al

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intercettati di appartenere ad una combriccola di buontemponi, che sparla tra i

singolo imputato, idonea a incidere nell’ambiente circostante. Ciò sul rilievo che
un’associazione in tanto possa dirsi mafiosa – e in tanto possa predicarsi
l’appartenenza del soggetto all’associazione – in quanto vengano individuati fatti
concreti e specifici, potenzialmente idonei ad incidere all’esterno sulla sfera dei
soggetti estranei, che hanno subito la forza di intimidazione del vincolo
associativo e che sono rimasti in una condizione di sottomissione e di Sudditanza,
nonché di incapacità a far valere le loro ragioni.
Tali doglianze sottendono un equivoco e trascurano la pur corretta risposta

cod. pen., l’associazione è mafiosa quando i suoi membri si avvalgono “della
forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva”, ma ciò non significa che la forza
criminale debba essere espressa dal singolo associato – o da tutti gli associati e che intanto possa parlarsi di adesione ad un’associazione mafiosa in quanto
ognuno si riveli all’esterno nella maniera sopra descritta, giacché ciò varrebbe a
significare che “associato” è solo colui che commette i reati-fine e solo colui che
si rende “riconoscibile” (con le azioni) nella realtà sociale in cui vive. Quanto sia
estranea – una simile interpretazione – alla realtà del diritto obbiettivo (e alla
realtà tout-court) è dimostrato dalla stessa lettera e dalla ratio della norma in
questione, che prevede un reato “associativo” e punisce la proiezione esterna
dell’associazione e non del singolo (anche se l’associazione opera,
necessariamente, attraverso coloro che ne fanno parte). E’ una interpretazione
che trascura, peraltro, “l’in sé” del fenomeno associativo, non solo mafioso,
costituito dalla collaborazione tra gli associati in funzione della realizzazione del
programma comune; collaborazione che ha luogo primariamente all’interno della
cosca e si proietta all’esterno solo in momenti particolari, allorché lo richiede’ il
finalismo associativo. Ma nessuno può dubitare che anche la collaborazione
“interna” costituisca una modalità di partecipazione, che rimanda al reato
associativo. La condotta di partecipazione consiste infatti, come ,è stato già
affermato e come va ribadito, nel contributo, apprezzabile e concreto sul piano
causale, all’esistenza e al rafforzamento dell’associazione e, quindi, alla
realizzazione dell’offesa degli interessi tutelati dalla norma incriminatrice,
qualunque sia il ruolo o il compito che il partecipe svolga

nell’ambito

dell’associazione (Cass., n. 1472 del 2/11/1998; Cass., n. 7627 del 31/1/1996;
Cass., n. 5386 del 15/4/1994). Pertanto, non solo l’elemento che
strutturalmente caratterizza l’associazione mafiosa (la “forza di intimidazione del
vincolo associativo”) non deve necessariamente promanare dai singoli associati,
ma non è nemmeno necessario che l’azione collaborativa del singolo – quale
essa sia – si riveli all’esterno, ben potendo svolgersi – in silenzio e all’oscuro
nell’ambito delle relazioni interpersonali e nell’apprestamento delle condi ioni
21

fornita dai giudici di merito. E’ vero che, secondo la definizione dell’art. 416/bis

necessarie all’operatività del sodalizio. Essenziale, infatti, è che la forza
intimidatrice promani dall’associazione in quanto tale, come sua intrinseca
capacità di sopraffazione, per cui, come non rileva che solo taluno degli associati
proietti, per l’efferatezza dei suoi delitti, particolare soggezione all’esterno (C.,
Sez. I, 18.6.1990), così non rileva che taluno dei suoi membri esaùi4sca la súa
condotta partecipativa all’interno del sodalizio.
Quanto, poi, alla “proiezione esterna” (del sodalizio, per qOanto si è
detto) nel caso specifico, la sentenza impugnata ne ha dato ampia ed esauriente

modo brutale, punendo e coartando la volontà di coloro che avevano dato
fastidio ai suoi membri (è il caso dei danneggiamenti contestati ai capi C-D-E-F,
su cui in seguito si tornerà), ponendo in essere azioni estorsive nei confronti di
Restuccia Vincenzo (è il caso dell’estorsione di cui al capo B), compiendo una
spedizione punitiva nei confronti di un commerciante non identificato (fatto
narrato da Fregona: pag. 7 della sentenza impugnata), pestando un soggetto
sgradito (fatto diverso da quelli contestati, posto in essere da Barbaro e Cortese:
pag. 12), ma anche fermando i lavori di chi non si era mostrato
accondiscendente verso le pretese del sodalizio (intercettazione captata sull’auto
di Tomasello e Siclari: pag. 10), controllando che non avvenissero litigi nel
parcheggio della discoteca Top Club di Mosorrofa, per ragioni evidentemente di
interesse del sodalizio (pag. 11), risolvendo “questioni” nel territorio di
riferimento (conversazione tra Barbaro e Tomasello, richiamata a pag. 11),
minacciando il proprietario del locale che sollecitava il pagamento, da parte
dell’affittuario Giardiniere, delle mensilità arretrate (pag. 24) ovvero il
carabiniere che s’era permesso di elevare una contravvenzione a carico del
medesimo Giardiniere (pag. 32), permettendo ai Longo di Polistena di assumere
appalti ed eseguire lavori nel territorio di propria competenza (pag. 51-52),
costringendo un imprenditore non identificato a prestazioni di lavoro in favore
della cosca (pag. 52), ecc. ecc..
Non occorre aggiungere altro per concludere cha la questione sollevata dai
difensori ha avuto, in sentenza, pertinente ed esaustiva risposta.

3. Tutti i difensori – come è stato evidenziato nell’illustrare i motivi di ricorso hanno lamentato una insufficienza argomentativa in ordine al ,”ruolo”
dell’assistito nell’associazione e, comunque, l’erronea applicazione dell’art.
416/bis cod. pen.. Tutti, infatti, hanno lamentato che sia stato trascurato
l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui la condotta di partecipazione
riferibile a colui che esplichi un “ruolo dinamico e funzionale” all’interno
dell’organismo, rimanendo a disposizione per i comuni fini criminosi. Là
sentenza, invece, si sarebbe accontentata di dimostrare la semplice
22

dimostrazione, richiamando i casi in cui l’attività dell’organismo si è espressa in

frequentazione tra i vari soggetti di questo procedimento, la loro interazione,
magari anche per fini criminosi, ma nessuno sforzo avrebbe fatto per qualificare
– attraverso l’attribuzione di un ruolo – la partecipazione al sodalizio.
Anche tale motivo è infondato. Va premesso che – come correttamente esposto
in sentenza – anche l’associazione mafiosa, come l’associazione semplice
delineata nell’art. 416 cod. pen., integra, dal punto vista strutturale,, un reato di
pericolo, giacché la sola sua esistenza compromette il bene giuridico tutelato
dalla norma (l’ordine e la sicurezza pubblica, nonché la libertà individuale).

già in relazione al delitto di associazione per delinquere comune e corne a
fortiori deve valere in relazione all’associazione mafiosa (la quale è intrisa di
illiceità penale fin nel metodo operativo utilizzato), la costituzione di un ente
siffatto sviluppa – già per il solo fatto di esistere – una carica di
pericolosità espressiva di un danno attuale ed effettivo rispetto a beni
fondamentali. Così come va ricordato che le associazioni mafiose, soprattutto nei
luoghi di storico radicamento, non hanno bisogno di esercitare con continuità la
forza intimidatrice di cui sono portatrici, giacché la fama criminale di cui si sono
circondate – grazie al patrimonio criminale pregresso – consente lorò di
beneficiare, senza esibizioni muscolari, della sottomissione “spontanea” del corpo
sociale in cui allignano. Inoltre, va tenuto conto del fatto che lo scopo delle
associazioni mafiose – a differenza di quanto si riscontra nelle associazioni
“semplici” – non è dato solo dalla commissione di reati-fine, ma, molto più
genericamente, dalla acquisizione di posizioni di vantaggio in ogni campo
dell’attività economica e della vita sociale. Per tale motivo l’associazione mafiosa
esercita, sul corpo sociale, un’attrattiva enormemente maggiore delle
associazioni classiche, convogliando verso di essa una pluralità di soggetti, dal
più diverso profilo, disposti ad avvalersi della forza di intimidazione che da essa
promana. Di conseguenza, le forme della partecipazione possono essere le più
diverse, possono essere non appariscenti e possono assumere connotati
coincidenti – all’apparenza – con le normali esplicazioni della vita quotidiana e
lavorativa (come avviene, per esempio, con l’imprenditore colluso). Infine, va
tento conto del fatto che l’associazione mafiosa è una realtà “dinamica”, in
continuo movimento, che si adegua continuamente alle modificazioni del corpo
sociale e all’evoluzione dei rapporti di forza tra gli aderenti.

Per tutti queti

motivi andare alla ricerca di un “ruolo” stabile e predefinito (come hanno preteSd
di fare i ricorrenti) dell’associato all’interno del sodalizio, quasi si trattasse ‘di
definirne il profilo criminale (killer, cassiere, autista, mazziere, ecc), comporta
uno sforzo (spesso) vano e comunque non necessario per qualificareE la posiziòne
del singolo, giacché ciò che rileva, per potersi parlare di “partecipazione”

‘ad

un

organismo mafioso, è, come ripetutamente affermato in giurisprudenZa, la

23

Invero, come è stato messo in evidenza – sia in dottrina che in giurisprudenza –

”compenetrazione col il tessuto organizzativo del sodalizio”; vale a dire, la messa
a disposizione – in via tendenzialmente durevole e continua – delle Proprie
energie per il conseguimento dei fini criminosi comuni, nella consapevolezza del
contributo fornito dagli altri associati e della metodológia soPraffattoria propria
del sodalizio (SU, n. 33748 del 12/7/2005). Definizione che cornprende,
all’evidenza, sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della partecipazione,
poiché esprime la necessità che essa sia sorretta da affectio societatis e dalla
interazione – causalmente orientata al conseguimento degli scopi sociali con gli

Si tratta, è bene precisarlo, proprio della conclusione a cui è pervenuta la più
recente giurisprudenza (n. 33748/2005 e tutte quelle che l’hanno seguita) spesso richiamata dai ricorrenti senza però farne puntuale ‘applicazione – la
quale, dopo aver sottolineato come la locuzione “prender parte” debba intendersi
non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso
dinamico e funzionalistico, ha chiarito, allorché si è spostata sul piano della
dimensione probatoria, che rilevano, “tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla
base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della
criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale
della condotta partecipativa”; ed è stata ancora più chiara allorché,
esemplificando, ha ricondotto tra gli indici della condotta partecipativa «i
comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”,
l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la
commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi
“facta concludentia”»; vale a dire, condotte che non identificano alcun “ruolo”
specifico del partecipe, ma sono comunque indice di intraneità e di condivisione
degli scopi associativi.
Quanto appena detto sul significato del termine “partecipare” impone di ritenere
infondate le censure di tutti i ricorrenti che si sono appellati – per sostenere la
violazione dell’art. 416/bis cod. pen. – alla mancata specificazione, da parte della
Corte d’appello, del “ruolo” (come sopra inteso) ricoperto nell’arco , temporale
della contestazione, poiché quello che si dirà in ordine alla posizione dei singoli
imputati – allorché verranno esaminate le specifiche posizioni – dimostra che
tutti erano ben addentro alle dinamiche associative e che tutti posero in essere
condotte che costituiscono indice – per dimensione qualitativa o per reiterazione
quantitativa – del volontario perseguimento degli scopi dell’associazione, nella
consapevolezza di innestare sinergicamente la propria condotta Su quella ,deg,li
i
altri associati.

4. Posto che, per quanto si è anticipato, i ricorsi sono infondati in punto di
contestazione della responsabilità, va qui aggiunto, per coerenza argomentativa
24

altri associati.

e semplificazione espositiva, che sono infondati anche in ordine alla
determinazione della pena. Tutti, infatti, hanno lamentato un eccesso di severità
sanzionatoria, derivante dall’applicazione di una pena superiore al mit -litri°
edittale e dalla negazione delle attenuanti generiche. E’ il caso all’ora di ricordare
che la concreta modulazione della pena appartiene al novero dei poteri
discrezionali del giudice di merito, il cui esercizio si sottrae al Sindacato in sede di
legittimità ove sorretto da idonea motivazione; nel caso specifico, la motivazione
addotta per tutti, fondata sulla gravità del reato contestato (partecipazione ‘ad

sull’assenza – per tutti – di ogni segno di resipiscenza e sulla impossibilità di
rinvenire nella condotta, anche processuale, degli imputati un qualche elemento
atipico da elevare a presupposto di fatto delle attenuanti generiche vale a
giustificare la modulazione del trattamento sanzionatorio, determinato peraltro
per tutti in maniera moderatamente superiore al minimo edittale. Né i ricorrenti
(tutti i ricorrenti) sono stati in grado di segnalare elementi positivi a loro favore,
trascurati dal giudicante, salvo appellarsi, taluni di loro, allo stato di
incensuratezza che, per costante giurisprudenza di questa Corte, non assume
alcuna decisiva valenza ai fini che qui interessano (ex multis, Cass., n. 44071 del
25/9/2014); e salvo valorizzare – a proprio favore – la scelta del rito
(abbreviato), che è già premiato con significativi sconti di pena e non
sottintende “meriti” ulteriori di cui il giudicante della tener conto. Anche questo
motivo va, pertanto, disatteso.

B) Ricorsi dei singoli imputati.
1. Destituito di ogni fondamento è il ricorso di Barbaro Antonino.
1.1. Alle pagg. 129-154 della sentenza impugnata sono menzionate, e in taluni
,
casi riportate, le conversazioni – captate, in alcuni casi, proprio sullc(sua Fiat 600
– intercorse tra l’imputato e altri sodali (Siclari Giovanni, Tomasello Francesco,
Pitasi Nicola, Nava Ivan) da cui emerge, lampante, la sua frequentazione, per
motivi illeciti, con altri membri della cosca; la sua subordinazione a Giardiniere,
che “tiene molto a lui”; la sua disponibilità per ogni azione illecita del grupi3b
malavitoso di appartenenza (pestaggi e danneggiamenti); la sua perfetta
conoscenza delle dinamiche associative, della stratificazione gerarchica del
sodalizio (conversazione del 31/1/2010, riportata alle pagg. 134-135) e delle
regole da rispettare (tra cui, quella fondamentale, di avvisare i capi priMa di ogni
azione che possa impegnare il sodalizio, o avere, comunque, ripercussioni sulla
sua immagine o la sua esistenza); l’affectio che lo lega agli altri membri del
gruppo (significative, in tal senso, la conversazione riportata alle pagg- 130-131,
in cui Siclari viene rimproverato perché, con le sue azioni, espone troppo il
gruppo, col rischio di mettersi nei guai e costringere i sodali a prendere le sue

25

una delle associazioni criminali più pericolose nel panorama regionale),

difese; la conversazione del 12/2/2010, riportata a pag. 135 e seg., in
Barbaro, parlando con Siclari, dice di aver detto a “Turi” di presentarsi subito
come appartenete alla “locale” di san Sperato, perché così “finisce il bordello”.
Nella stessa conversazione Barbaro chiarisce, ad abundantiam, che , “tutti noi”
sono tenuti a rendere conto ai capi di quello che succede; la conversaziOne del
22 maggio 2010, riportata alle pagg. 220 e segg., contenente – come
correttamente sottolineato dai giudici – una vera e propria confessione
stragiudiziale di colpevolezza); la pressione esercitata dal gruppo cui appartiéne

consapevolezza che anche altri le detengono. Nessuna caduta di logicità, di
congruenza o di consequenzialità vi è nel discorso della Corte d’appello, che ha
tenuto conto di fatti certi, nemmeno contestati dalla parte, e autonomamente
probanti della partecipazione di Barbaro all’associazione guidata da Giardiniere e
Serraino, giacché ne rivelano effettivamente la piena consapevolezza di operare
in un contesto associativo, in funzione degli scopi dell’associazione e in sinergia
con altri membri, mossi dalla stessa consapevolezza e dagli stessi scopi.
1.2. Anche le doglianze concernenti la ritenuta aggravante dell’art. 7 L. 203/91,
contestata in relazione ai danneggiamenti a lui imputati, sono manifestamente
infondate. La Corte d’appello, con motivazione ampia e logica, basata sulla
disamina delle ragioni che portarono gli imputati a commettere le azioni
delittuose loro addebitate, nonché sulle modalità della commissione, ha spiegato
che l’incendio dell’auto di Monteleone (capo C) fu originata non solo dal
risentimento di Nava per l’epiteto che gli era stato affibbiato (“topo
d’appartamento”), ma anche dall’intento di dare una lezione al giornalista,
affinché si guardasse, per l’avvenire, dallo scrivere contro i mafiosi e le mogli dei
mafiosi e la smettesse di “fare il Saviano” (pag. 144); che il danneggiamento
dell’auto di Romeo (capo D), quello in danno di Corsaro (capo E) e quello in
danno di Bonvicino (capo F), seppur sorretti da una causale privata (il
risentimento di Nava, quanto ai primi tre delitti), si iscrivevano, comunque, in
una strategia volta ad affermare la potenza del gruppo sul territorio, perché
dimostravano che ogni affronto ai suoi membri ‘determinava la reazione offensiva
del clan, con conseguente, inevitabile propagazione della sua fama sinistra. E
tanto è stato ritenuto, in particolar modo, per l’incendio dell’auto di Buonviciho
(ma non solo per questo caso), giacché l’origine del danneggiamento risiedeva
proprio in un diverbio avuto con “Turi” (vicino ai danneggiatori); la qualcosa
rendeva evidente, nell’ambiente reggino, che gli “affari”, privati erano
immediatamente “affari” degli “amici”, la cui reazione bisognava attendersi. Così
come hanno considerato che Barbaro non aveva nulla di personale contro
Monteleone, Romeo, Corsaro, ecc, per cui la sua pronta adesione aj propoSiii

26

sugli imprenditori della zona (pag. 132); il possesso di armi da parte sua e la

vendicativi del sodale non poteva che essere espressione di solidarietà
‘ndranghentica; quindi, espressione al massimo grado di affectio sociétatis.
1.3. Parimenti infondate, in maniera manifesta, sono le doglianze relative alla
condanna per detenzione e porto di arma da fuoco (capo G). Alle pagg. 152-153
è riportata l’intercettazione che è alla base della pronuncia, interpretata dalla
Corte d’appello in base a canoni di logici e di comune esperienza, essendo stato
evidenziato che i due conversanti (Barbaro e Tomasello) parlano di
inceppamento dell’arma, di incameramento e di “botti” (proiettili) e del fatto‘che

contrasta, all’evidenza, con l’assunto difensivo, secondo cui si sarebbe trattato di
arma giocattolo. E senza considerare che, come rilevato – anche in questo caso
– dalla Corte di merito, Barbaro era quotidianamente al servizio della cosca e
pronto ad eseguire gli ordini di Giardiniere, per la qualcosa l’arma serviva
egregiamente allo scopo (col che riceve concreta dimostrazione l’assunto
accusatorio, secondo cui il possesso della pistola era funzionale agli scopi
associativi).
1.4. Inammissibili, infine, sono le doglianze in merito al trattamento
sanzionatorio, caratterizzato dalle negazione delle attenuanti generiche. Sul
punto, la Corte d’Appello non ha mancato di motivare la propria decisione sul
punto, con l’evidenziare la particolare pericolosità della condotta tenuta
dall’imputato, l’adesione ad un progetto criminale di cui conosce l’imponenza’
(avendo avuto il padre assassinato in un agguato di mafia) e l’assenza di segni di
ravvedimento, essendosi limitato a riconoscere l’evidenza e a negare, altrettanto
chiaramente, altre evidenze, pure consegnate al processo dalla disarmante
chiarezza delle intercettazioni. Né, d’altra parte, il ricorrente segnala elementi
favorevoli trascurati dal giudicante, salvo appellarsi, in maniera generica e non
qualificata, all’ambiente familiare e sociale del giudicando e a perorare la
riduzione della pena sotto il minimo edittale in base alla considerazione tutta
soggettiva – che il minimo sia “sproporzionato” rispetto alla condotta che si
tratta di sanzionare.

2. Parimenti infondato è il ricorso di Caccamo Domenico Daniele. ‘I’ re
intercettazioni che lo riguardano, riportate alle pagg. 156-179 della sentenza
impugnata, dimostrano – come correttamente ritenuto dai giudici di primo e
secondo grado – la piena compenetrazione di Caccamo nel sodalizio, in qualità di
membro della “locale” di Cardeto.
2.1. Immune da censure, innanzitutto, è la parte della sentenza che esclude
incompatibilità tra la distribuzione dei mafiosi in diverse “locali” é la Idi’o
appartenenza ad un’unica “ndrina”, giacché – Come è già stato argomentato al
punto Al – ciò che rileva, dal punto di vista del diritto, è il comune sentirne

27

Barbaro porta sempre con sé l’oggetto della discussione: circostanza che

appartenenza ad un medesimo organismo e non l’articolazione territoriale dello
stesso.
2.2. La partecipazione di Caccamo al sodalizio è stata desunta da una serie di
conversazioni intercettate nella rivendita di un sodale (Russo Francesco clase
’73) o nella Mercedes di Gattuso Nicola (personaggio di assoluto rilievo
‘ndranghentistico) da cui traspare l’interesse di Caccamo per,una visita da fare a
Serrraino Domenico, il suo interesse per la “copiata” data a San Sperato, la suà
partecipazione (passiva) ad un discorso di Gattuso Nicola sulla “santa” data a

nuovo” e la sua partecipazione a “mangiate” di gruppo. Non è bossibile
intravedere incongruenze o cadute di logicità – apoditticamente affermate dal
ricorrente – nella motivazione della Corte d’appello, la quale ha dato rilevanza a
circostanze di indiscutibile valore inferenziale, rappresentate: a) dalla diretta
partecipazione di Caccamo a discussioni in cui si discute dei nuovi assetti
organizzativi della cosca (il “banco nuovo”, da trattare addirittura con Serraino
Domenico, capo indiscusso dell’associazione, sebbene il parlare con lui
comportasse dei rischi per tutti) e dei cerimoniali di affiliazione (la “copiata”); b)
dalla partecipazione a “mangiate” in cui verranno trattati affari della cosca; c) dal
suo presenziare a discorsi che hanno ad oggetto il conferimento di importanti
cariche di ‘ndrangheta (la “santa” data a Valerio); il tutto in un contesto
caratterizzato dalla familiarità e dall’attiva frequentazione e interazione di
Caccamo con personaggi di assoluto rilievo mafioso, quali Gattuso Nicola,
Serraino Demetrio e Russo Francesco classe ’73, ovvero con personaggi
ugualmente inseriti nella cosca, seppur a livello inferiore, quali Russo Domenico,
Russo Francesco classe ’63, Pitasi Pasquale, Pitasi Sebastiano (giusto per
rimanere a quelli con i quali ha, nelle intercettazioni, interlocuzione diretta),
Quanto mai pertinente è, infatti, il rilievo dei giudicanti, secondo cui Caccamo
non avrebbe potuto avere le conoscenze che ha dimostrato di avere (sia con
riguardo alle persone che al gergo e alle dinamiche interne dell’associazione),
non avrebbe frequentato – con l’intensità rivelata dalle intercettazioni – soggetti
organicamente inseriti nella cosca propria o altrimenti parte
dell’universo

mafioso, non avrebbe mostrato così spiccato interesse (non semplice curiosità)
per l’organigramma mafioso (le cariche attuali e quelle future), non sarebbe
stato ammesso a discussioni così compromettenti per i conversanti, se egli
(Caccamo) non fosse stato “partecipe” dell’associazione tratta a giudizio e sei
soggetti che con lui si rapportava non fossero stati sicuri della sua intraneità, in
considerazione della condivisione – da parte sua – degli interessi e degli scopi del
sodalizio. Il tutto confermato dalla interazione dell’imputato con Russò ,’,Francesco
nell’episodio descritto al capo M) – avente ad oggetto un’arma che egli si incarieO
di rendere meglio funzionante – e dalle dichiarazioni di Fregona, che lo sapeva

28

“Valerio”, la sua partecipazione (attiva) ad un discorso tra sodali sul “Banco

”molto legato a Giardiniere Fabio”; vale a dire, a uno degli astri nascenti della
cosca, anche in virtù della sua affinità (in senso giuridico) a Serraino Domenico e
Alessandro.
Quanto, poi, al rilievo difensivo, secondo cui le organizzazioni criminali, in tanto
possono definirsi mafiose, in quanto abbiano “proiezione esterna”, intesa come
capacità di intimidazione nell’ambiente circostante, vale ciLianto espósto al punto
A2, a cui si rinvia.
2.3. Manifestamente infondate sono pure le censure riguardanti il capo M)

vera (e non di pistola giocattolo) è stato desunto dalle circostanze della
detenzione, dai timori palesati dagli astanti per la partita improvvisa di un colpo,
dalla preoccupazione insorta nei presenti dal sopraggiungere, inaspettato, di un
cliente. Vale a dire, in base a circostanze univocamente indicative della
autenticità dell’arma e dei pericoli che derivavano dal suo maneggiamento.
Quanto al “possesso” dell’arma da parte di Caccamo, giusto rilievo è stato dato
al fatto che, dopo aver accertato il suo difettoso funzionamento, l’imputato si
allontanò dal luogo con la pistola inserendola nella cintola dei pantaloni: segno,
inequivocabile, che si era fatto carico di renderla maggiormente efficiente, data
la sua esperienza in materia. Né merita censure l’attribuzione all’arma (rectius,
al suo possesso) di una finalità agevolatrice dell’associazione, che è stata
desunta dall’interesse mostrato intorno alla stessa da più membri della cosca
(Serraino, Russo, Caccamo) e dalle caratteristiche dell’associazione, che
abbisognava dell’arma per farne mostra e, all’occorrenza, più efficacemente
esercitare il proprio potere sul territorio.
2.4. La motivazione con cui sono state negate le attenuante generiche non si
presta a rilievi di sorta, essendo fondata sull’assenza – desunta, tra l’altro, dal
memoriale da ultimo presentato alla Corte d’appello – di una seria revisione
critica del proprio vissuto e sulla gravità della condotta: vale a dire, in base a
parametri che, avendo base nell’art. 133 cod. pen., costituiscono corretto
riferimento per l’esercizio del potere sanzionatorio.

3. Infondate sono anche le doglianze di Morabito Giovanni. Anche per lui sono
state ritenute significative, e direttamente probanti, conversazioni ché lo
ritraggono a colloquio con personaggi sicuramente intranei alla cosca per cui
processo o certamente appartenenti all’universo mafioso calabrese – quali
Gattuso Nicola (‘ndranghentisa di rango “provinciale”), Pitasi Pasquale, Caccamo
Domenico, Russo Francesco classe ’73 -, oppure dimostrano la sua perfetta
conoscenza delle dinamiche mafiose locali e l’interazione con i personaggi ché
sono, nello specifico della realtà mafiosa di Cardeto, al vertice del sodalizio,
come Serraino Domenico, Alessandro e Demetrio. Soprattutto, dimostrano ché

29

(detenzione e porto di arma comune da sparo). Il fatto che si trattasse di arma

nessuno dei soggetti sopra nominati aveva remore a parlare, dinanzi a lui, delle
dinamiche interne dell’associazione e delle problematiche riguardanti la vita
associativa, anche di quelle destinate, per la loro “delicatezza”, ad essere coperte
dal massimo riserbo, come quelle attinenti al conferimento delle cariche
all’interno del sodalizio. Sono state infatti riportate conversazioni – svoltesi alla
presenza di Morabito o con la sua partecipazione – da cui traspare l’obbligo; per
gli interessati (in questo caso, Pitasi Pasquale e lo stesso Morabito), di informare
Serraino Alessandro di ogni avvenimento che possa involgere gli interessi della

diga del Menta – i cui lavori erano stati appaltati alla Menta 2008 srl – e che è
stato “fermato” da qualcuno che ne aveva il potere, ragion per cui si è reso
necessario investire della questione Serraino Alessandro, anche se della
questione è stato investito pure Serraino Demetrio, il quale, però, non ha voluto
o potuto risolverla (pag. 180-186, conversazioni del 3/6/2008); una
conversazione catturata sull’auto in uso a Nicola Gattuso, nel corso della quale
Pitasi Nicola, alla presenza di Morabito, fa presente di aver richiesto, insieme a
Russo Francesco classe ’73, una carica maggiore all’interno dell’associazione
(quella di “trequarino), ricevendo una risposta interlocutoria di Gattuso
(conversazione del 16/4/2008, da cui traspare il timore di tutti di essere
intercettati); una conversazione captata all’interno della rivendita di auto di
Russo Francesco classe ’73, nel corso della quale i presenti (Gattuso Nicola,
Russo, Morabito, Pitasi Pasquale e tale Nicola) fanno riferimento a “dei lavori é a
delle ditte” e proprio Morabito afferma che “Mico”, appena uscito dal carcere, li
farà mettere “tutti d’accordo” (conversazione dell’8-4-2008. Nella stessa’
conversazione si parla di una riunione – da organizzare al più presto – tra
personaggi di ‘ndrangheta e Morabito si offre di portare qualcuno con sé) ,:
un’altra conversazione (progr. 6555 del 2/8/2008) catturata all’interno della
rivendita di auto di Russo Francesco, nel corso della quale quest’ultimo parla
dell’assunzione di Morabito da parte di Serraino Alessandro e dice la cosa fu – a
suo tempo – gradita a “tutti” (“ci è stato bene a tutti”).
Emerge all’evidenza, dalle emergenze istruttorie appena passate in rassegna,
che i giudici di merito hanno preso in considerazione fatti di indiscutibile valore
inferenziale, perché indicativi della vicinanza di Morabito ai soggetti più
rappresentativi della cosca, della fiducia che era riposta in lui e del gradimento
che era seguito alla sua assunzione nella società gestita da Serraino.i Corretta e,
pertanto, la conclusione che egli era un uomo della cosca in servizio effettivo,
,
disponibile alle incombenze della vita associativa e punto di forza, insieme agli
;
altri, di una entità criminale radicata sul territorio di Cardeto e ivi operan’te.”
Quanto alle ulteriori censure difensive, inammissibili sono tutte quelle ‘rivolte a
contestare o diversamente interpretare le intercettazioni in atti, posto che la

30

cosca e conversazioni in cui si parla di un soggetto che è andato per lavorare alla

lettura del materiale probatorio (tra cui, principalmente, le intercettazioni)
rappresenta compito precipuo del giudice di merito, che, ove condotto’, come
nella specie, in aderenza alle risultanze istruttorie e con criteri di logicità, si
sottrae ad ogni ingerenza ricostruttiva del giudice di legittimità. Peraltro, la Corte
d’appello non ha mancato di prendere in considerazione le specifiche doglianze
difensive e le ha disattese con ampia e pertinente motivazione (vedi pagg. 190 e
segg.), laddove ha fatto rilevare che la continua presenza di Morabito sull’auto di
Gattuso nella circostanza più compromettente (quella in cui si parla delle

memoriale difensivo del 9/4/2014 e che una discesa del Morabito dall’auto prima
che si parlasse di cariche – oltre a non essere stata rilevata dalla Polizia in
ascolto – non è nemmeno plausibile, posto che fu Gattuso ad arrestare l’auto
sotto casa sua per recuperare qualcosa all’interno dell’abitazione, mentre
Morabito non aveva nessun motivo per allontanarsi in quel frangente. Quanto
alla conversazione dell’8/4/2008, non ha mancato di rilevare che l’imputato ha
disconosciuto la partecipazione alla stessa solo “in limine” e solo dopo averne
compreso appieno la carica compromettente, nonostante la stessa fosse stata
messa a base – tra le altre – della misura cautelare a lui applicata, mentre il
difensore ne aveva, fino a quel momento, sostenuto (solo) la scarsa intelligibilità
(pag. 196). In ogni caso, ha rilevato che la voce di Morabito era ‘stata
riconosciuta dalla Polizia in ascolto e che su quel riconoscimento poteva farsi
affidamento, stante la “consuetudine” ormai instaurata dagli operanti con la Voce
dei soggetti investigati.
Non corrisponde a verità, poi, che la Corte d’appello non abbia tenuto conto del
rapporto di lavoro che legava Morabito a Serraino, giacché ha costantemente
distinto le situazioni che potevano implicare problematiche lavorative da qúélle
che dimostravano, invece, una cointeressenza associativa, come è avvenuto; per
esempio, in relazione alla conversazione del 1’8/4/2008, allorché non ha
disconosciuto che Morabito potesse essersi recato sul posto per ritirare un
camion, ponendo, però, correttamente l’accento sul fatto che partecipò alla
discussione – totalmente avulsa dalle dinamiche lavorative lecite – intavolata ;tra i
presenti. E ciò senza considerare che Morabito non aveva alcuna i’nteressenza
lavorativa con Russo Francesco classe ’73, con Pitasi Pasquale, Con Gattuso
Nicola e con gli altri personaggi emersi dalle intercettazioni. Quanto al fatto che
Morabito era sconosciuto a Gattuso Francesco e Fregona, la Corte ri,ori,’ ha
mancato di rilevare che i due erano estranei all’associazione di cui si discute; per
cui è senza significato che i due non sapessero di lui.
3.1. Quanto alle ulteriori censure difensive, l’aver ritenuto Morabito Giovanni
“partecipe” del sodalizio esimeva la Corte territoriale dal ‘motivare in ordine ‘ alla
diversa qualificazione prospettata dal difensore (“concorrente gsternO”);
31

“cariche”: conversazione del 16/4/2008) non è stata contestata nemmeno col

motivazione concernente il trattamento sanzionatorio dà ragione dei motivi per’
cui non sono state ritenute concedibili le attenuanti generiche (vedi punto A4); la
prova della disponibilità di armi da parte di taluni membri .dell’associaziode
indiscutibile, nelle specie – è idonea a fornire dimostrazione della simultanea
sussistenza dell’aggravante di cui all’art 416 bis, quarto comma, Cod pen. nei
confronti degli altri associati, in quanto la dotazione di strumenti di offea è
connaturata al perseguimento degli scopi di un sodalizio di tipo mafioso, ed è
quindi ragionevole presumere la conoscenza di tale disponibilità anche in capo

4. Il ricorso di Nava Ivan Valentino è infondato.
4.1. A suo carico sono state evidenziate – e logicamente apprezzate, in ordine al
reato associativo – una serie di intercettazioni, riportate alle pagg. 213-214,
nonché la relazione di servizio dei carabinieri del 13/1/2010 che, seppur neutre
nei contenuti, testimoniano comunque i suoi stretti rapporti con Cortese
Maurizio, Barbaro Antonino, Giardiniere, Fabio Giordano Francesco: vale a dire,
con i personaggi di questo processo, collocati a diverso livello nella scala
gerarchica dell’associazione. Ma patentemente significative – a suo carico – sono
state considerate le intercettazioni del 7/5/2010, in cui Nava e Giordano
discutono di un progetto criminale che avevano in animo di portare a termine e
che sono stati costretti ad abbandonare per ordine di Giardiniere (pagg. 215218); la conversazione del 22/5/2010, intercorsa tra Barbaro Antonino, Pirrello
Antonino e Nava Ivan, intercettata nell’auto di quest’ultimo, nel corso della quale
i tre si lamentano del trattamento che ricevano dai capi, in particolare dal
Giadiniere, che sfrutta finanche i sodali togliendo loro la parte di spettanza, e
ribadiscono la loro fedeltà agli “ideali” di ‘ndrangheta; tutte le intercettazioni che
riguardano i danneggiamenti compiuti in danno di Monteleone (capo C), di
Romeo (capo D) e di Corsaro Giuseppina (capo F); nonché le dichiarazioni di
Mesiano e Fregona, che, dal loro punto di osservazione, hanno collocato Nava
Ivan nel contesto criminale reggino e, in particolare, nella cosca SerrainORosmini. Perfettamente aderente al contenuto della prova – come riportata in
sentenza – e dotate di incontestabile logicità sono tutte le osservazioni e
considerazioni dei giudici d’appello, per i quali la frequentazione, le discussioni
intercose tra i sodali, i progetti criminali portati a termine o abbandonati (per
ordine superiore), le lamentele sulla cupidigia dei capi, ma anche la
riaffermazione di fedeltà alla “causa” e la disponibilità, dichiarata nelle
conversazioni intercettate, di eseguire ogni ordine superiore

(“mi possono

mandare dove vogli&’io vado”, dice Pirrello, mentre Nava confess:di esere iuh
“mercenario” a servizio della cosca) sono tutti elementi indicativi

della piena

adesione di Nava al sodalizio criminale per cui è processo, sia peri la l’oro

32

agli altri associati (Cass., n. 36198 del 3/7/2014).

intrinseca rilevanza, sia perché genericamente e debolmente contestati dal
ricorrente. Ciò che è stato messo in evidenza dalla Corte d’appello non fornisce
solo la prova di una generica appartenenza ad una “subcultura d’ambiente”, e
della conoscenza delle dinamiche del mondo criminale – come dedotto dal
ricorrente – ma proprio la prova della sua piena integrazione nel sodalizio dir -etto
f

da Serraino e Giardiniere, perché agli ordini quest’ultimo sottostà Jcdrrie
ampiamente rimarcato, sulla base del contenuto delle intercettazioni, dai
giudicanti – e perché con altri membri della stessa associazione si rapporta e con

poi, sono pure le censure riguardanti l’apprezzamento della prova dichiarativa,
sia perché in sentenza si dà ampiamente atto del fatto che i dichiaranti hanno
espresso concordanza sul nucleo centrale dell’accusa (l’appartenenza di Nava alla
cosca Serraino), sia perché la sua ridotta frequentazione con esponenti di cosche
avverse – introdotta nel processo da Mesiano – è stata espressamente valutata
dalla Corte di merito e spiegata – in maniera logicamente inconfutabile – con la
risalenza nel tempo della frequentazione e con la raggiunta pax-mafiosa,
susseguita a una “guerra” di oltre vent’anni prima.
4.2. Quanto all’aggravante dell’art. 7 L. 203/91, contestata in relazione ai
danneggiamenti, corretto è il rilievo del ricorrente che l’aggravante in questione
si nutre del dolo specifico, ma altrettanto corretta è la risposta del giudice di
merito, secondo cui l’esistenza di una causale personale non escludeva, per
Nava, la sussistenza di una causale specifica, che rimandava proprio alla
coscienza e volontà di agevolare e rafforzare l’associazione criminale di
appartenenza, attraverso l’inculcazione, nell’ambiente sociale in cui questa
allignava, oltre che nelle vittime, di un “sano timore” funzionale all’accrescimento
della forza e del prestigio del sodalizio. Coscienza e volontà particolarmente
evidenti – e chiaramente confessate – nell’attentato al giornalista (ma non solo
per esso), allorché, come si è già messo in evidenza commentando la posizione
di Barbaro Antonino, Nava esprimeva plasticamente lo scopo

e gli effetti

dell’azione portata a termine, che era quello di dissuadere il giornalista dallo
scrivere contro i mafiosi e le mogli dei mafiosi e di ottenere che la smettesse di
“fare il Saviano”. Evidente era, pertanto, in lui non solo la consapevolezza ma
anche l’intenzione di avvantaggiare l’associazione. Peraltro, che le azioni in
commento fossero state portate a termine (anche) avvalendosi della forza di
intimidazione del vincolo associativo è stato congruamente e correttaMente
spiegato dalla Corte d’appello, la quale ha rimarcato che nessuna delle vittime si
azzardò a sporgere denuncia contro gli attentatori, nonostante avessero tuitti gli
elementi per comprendere donde provenisse l’aggressione: circostanza die si
spiega solo col timore di aggravare la loro posizione, stante la natura della mano
che li aveva colpiti. La prova delle ricorrenza del metodo n-iafipso uò essere

33

essi porta a termine le imprese criminali disvelate dal processo. Inconsistenti , –

desunta, invero, non solo dalle modalità dell’azione delittuosa, o avendo mente
al momento in cui l’agente agisce sulla volontà della vittima per ottenerne la
sottomissione, ma anche dalla risposta di quest’ultima, giacché l’una e l’altra
forniscono elementi per comprendere in quale contesto è maturata l’aggressione.
L’inerzia della vittima successiva al fatto prova che l’agente si è’ determinato
all’azione facendo affidamento – che è in concreto un “avvalimento” – sulla “forza
di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di, assoggettamento e
di omertà che ne deriva”, ricevendo spinta all’azione dalla consapevolezza

4.3. Le doglianze relative al trattamento sanzionatorio sono infondate per quanto
detto al punto A4.

5. A fondamento della responsabilità di Pirrello Antonino per il reato associativo
sono state riportate in sentenza, e logicamente valutate, le intercettazioni
telefoniche del 22 maggio 2010 – già evidenziata in relazione alla posizione di
Nava – e quelle dell’11-12 maggio 2010, che hanno “filmato” in diretta il
danneggiamento dell’auto di Corsaro Giuseppina. Elementi di contorno, ma non
privi di significato, sono stati poi tratti dalle intercettazioni relative al matrimonio
di Nava e al funerale di Domenico Serraino. Nessuna incongruenza,, illogicità o
errore di lettura è stato segnalato dal ricorrente, talché il contenuto della prova
intercettativa figura a buon titolo tra gli elementi idonei a valutare la sua
posizione. E non v’è il minimo dubbio che si tratta di prova adeguata e sufficiente
– per come esposta in sentenza – all’affermazione della responsabilità, giacché
dimostrativa – contrariamente all’assunto del ricorrente – non solo della
frequentazione e della stretta relazione dell’imputato con i personaggi di questo
processo, ma anche della sua piena adesione alle logiche e alle dinamiche
associative, perché dimostra la piena condivisione dei metodi e dei fini del
sodalizio, la sua soggezione ai capi riconosciuti, la sua collaborazione nelle azioni
delittuose e la disponibilità incondizionata ad eseguire gli ordini che gli vengond
impartiti. Oltre che per la sua partecipazione all’incendio che distrusse l’auto di
Corsaro, la “dedizione” alla “causa” è stata infatti dimostrata attingendo alle sue
stesse parole, laddove è stato rilevato che, nonostante i molti torti subìti e
lamentati, non aveva dismesso il “rispetto” verso i Capi (in particolare,
Giadiniere) e non aveva smesso di rendersi disponibile ad ogni azione
possono mandare dove vogliono, io vado”),

( . rni

evidentemente di natura illecita,

data la consapevolezza di essere esposto, per esse, a privazione della libertà (“a
me per primo mi arrestano”). Il tutto confermato dalle dichiarazioni di Fregona,
che i giudici hanno attentamente valutato e letto come semplice – e non
necessario – riscontro ai dati emersi dalle intercettazioni, già dotati di
straordinaria forza esplicativa e nemmeno necessitanti di conferme o chi rimenti.
34

dell’impunità.

Non corrisponde a verità, poi, che la Corte d’appello abbia trascurato o
sottovalutato i dati provenienti dalle indagini difensive, giacché lo ‘spazio che vi
ha dedicato e le riflessioni che ha sviluppato su di esse (vedi pagg: 243 e 5egg.)
provano ampiamente che nessun elemento dell’indagine è stato prétermesso e
che il suo convincimento rappresenta l’approdo di un percorso valutativo
esaustivo, privo di smagliature o sottovalutazioni, e perciò immeritevole delle
censure che le sono state mosse. Il ricorrente omette di considerare, invero, che
il giudizio su Fregona (rectius, sulla sua credibilità) non dipende dai rapporti più

dichiarazioni con gli esiti delle intercettazioni: collimanza che, per quanto è stato
detto e argomentato, è totale.
5.1. Nemmeno colgono nel segno le censure sollevate in ricorso con riguardo alla
prova delle aggravanti contestate (quella di cui al quarto comma dell’art. 416/bis
e quella di cui all’art. 7 L. 203/91, contestata in relazione al danneggiamento).
Quanta alla prima, basti rilevare che la Corte d’appello ha ritenuto probanti le
dichiarazioni di Fregona circa la disponibilità di armi da parte dell’associazione:
circostanza che il dichiarante ebbe ad apprendere proprio dall’odierno imputato
(e confermata dalle intercettazioni e dalle videoriprese effettuate nella rivendita
di Russo Francesco); inoltre, che l’aggravante dell’art. 416/bis, comma 4, cod.
pen. ha natura oggettiva. Essa, pertanto, si estende a tutti quelli che concorronò
nel reato ed è applicabile anche nei confronti degli associati che non abbiano
personalmente custodito od utilizzato le armi stesse, giacché, data la natura e il
modus operandi delle associazioni mafiose, la disponibilità di armi da parte dei
suoi membri rappresenta circostanza che il singolo sodale mette invariabilmente
in conto. Quanto all’aggravante dell’art. 7 L. 203/91, contestata in relazione al
capo F), si rimanda a quanto esposto nell’esame della posizione di Barbaro e
Nava Ivan, dal momento che gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello si
attagliano – sul punto – anche a Pirrello.

6. Infondato è anche il ricorso di Pitasi Nicola. Le evidenze probatorie poste dalla
Corte d’appello a base del giudizio di responsabilità per il reato associativo sono
costituite da una serie di intercettazioni dotate di decisiva valenza dimostrativa,
sia in ordine al suo inserimento nella compagine malavitosa diretta dai Serraino,
sia in ordine al contributo da lui dato all’affermazione del sodalizio sul territòrio.
In sentenza sono infatti riportate intercettazioni da cui traspare, all’evidenza: a’)
la sua subordinazione a Giardiniere Fabio, che, parlando al plurale, gli ricorda perentoriamente – che un certo soggetto, non identificato (pi jobabilmente, già
vicino al gruppo e poi allontanato), è sgradito a “noi” e che, pertanto; deve
essere allontanato anche dall’imputato (intercettazione del 21/3/2010, proprio
sul telefono di Pitasi); b) la partecipazione di Pitasi Nicola, insieme a oitese
35

o meno conflittuali con i familiari, ma dalla collimanza, o meno, delle sue

Maurizio, Barbaro Antonino e Siclari Giovanni, al pestaggio di un soggetto non
identificato, reo di essere il fidanzato di una ragazza verso cui si erano rivolte le
attenzioni di Siclari Giovanni (intercettazioni del 27 febbraio 2010); c) la
designazione di Pitasi, da parte di Cortese, quale rappresentante del “gruppd” al
matrimonio di Nava; d) l’interazione di Pitasi Nicola con Siclari Giovanni ed altri
nel far visita al semilibero Cortese Maurizio (intercettazioni del 31 agosto 2010);
e) l’esperienza di Pitasi nel confezionamento di ordigni esplosivi con l’utilizzo di
bombole del gas, da lui raccontata a Nava (intercettazione del 5 febbraio 2010);

Imerti, Pasquale Condello e i fili Zagari – della criminalità organizzata calabrese
(conversazione del 4 febbraio 2010); g) la partecipazione di Pitasi ad un
tentativo di estorsione in danno della ditta Restuccia (capo B); la partecipazione
di Pitasi al danneggiamento e alla tentata violenza privata in danno del
giornalista Monteleone (capo C). Emerge all’evidenza che i giudici di merito ,non
si sono accontentati – per dedurre la partecipazione di Pitasi al sodalizio in
contestazione –

del legame di parentela con Cortese Maurizio, né

(esclusivamente) della partecipazione di Pitasi al matrimonio di Nava o al
funerale di Serraino Domenico, avendo tratto da questi dati (a parte che dal
primo) il concetto della “vicinanza” (che, effettivamente, non è ancora
partecipazione) di Pitasi ai personaggi di questo procedimento e imputati, come
lui, di partecipazione associativa, quanto, invece, dai dati, ben altrimenti
significativi,

della

sua

sottoposizione

gerarchica

a

Giardiniere,

come

limpidamente esposto alle pag. 263 e segg.; dal fatto – desunto dalla stessa
intercettazione del 21/3/2010, che Pitasi – a detta di Cortese – poteva e doveva
rivolgersi agli altri sodali per le sue eventuali esigenze, invece che fare
affidamento su soggetti messi al bando dall’organizzazione; dalla sua
partecipazione a spedizioni punitive, a danneggiamenti e ad estorsioni, come
esposto nelle parti della sentenza che lo riguardano. E’ assertiva e apodittica la
deduzione difensiva, pertanto, che non vi sia prova di un contributo dell’imputatd
all’operatività del sodalizio, apparendo chiaramente fondata sulla pretermissioné
dei dati più significativi, rappresentati, all’evidenza, dal tentativo di estorsione in
danno di Restuccia – attuato per le ragioni e con le modalità tipiche délla
delinquenza mafiosa – e dal danneggiamento dell’auto di Monteleone, a’cui PitaSi
non aveva nulla da rimproverare personalmente e fatto – per come è già ‘stato
detto e ripetuto – per dare una lezione al giornalista e dissuaderlo dal continbaré
a scrivere di mafiosi e mogli di mafiosi. Peraltro, non è nemmeno Vero che gli
altri dati esposti in sentenza non siano conducenti rispetto all’ipotesi pocusatoria
fatta propria dai giudicanti, giacché anche da essi si evince, in maniera meno
eclatante ma pur sempre significativa, “l’affiato” di Pitasi col’gruppo malaVitoso
operante nel quartiere reggino, la sua risalente frequentazione del mondò
36

f) l’incontro – avvenuto a Voghera – di Pitasi con esponenti di rilievo – Nino

mafioso calabrese e la sua dimestichezza con gli esplosivi: fatti che ; letti insieme
agli altri elementi di prova esposti dal giudicante, contribuiscono effettivamente
a delineare il profilo dell’imputato nella vicenda criminosa che gli è addebitata.
6.1. Manifestamente infondate sono, poi, le censure concernenti la tentata
estorsione, posto che quanto esposto in sentenza (l’imputato, in compagnia di un
sodale, intimò al carabiniere – fintosi operaio – di abbandOnare tutto e andare
via, sotto minaccia di “danni”; dopodiché, tornato sul posto, lo invitò “ad
accordarsi su tutto”) è più che sufficiente a delineare un tentativo di estorsione

di mezzi meccanici già subiti dal malcapitato imprenditore: fatto che rendeva
evidente l’esistenza di una regia, a cui partecipò – nella veste di esattore l’odierno imputato. Pertanto, nessuna necessità hanno avuto i giudici – per
ricostruire l’episodio e delineare le responsabilità – di ‘affidarsi alle dichiarazioni
rese da Pitasi, successivamente al fatto, ai carabinieri. Solo assertiva, infine, è
l’affermazione – fatta per escludere l’aggravante dell’art. 7 L. 203/91 – che Pitasi
agì per procurarsi un lavoro, posto che tale evenienza è stata esclusa in base
all’elementare considerazione che il lavoro non si ottiene con la minaccia e che,
comunque, nessuna richiesta in tal senso era stata formulata all’impresa di
Restuccia.
6.2. Ugualmente assertive sono le censure concernenti la partecipazione di Pitasi
al danneggiamento in danno di Monteleone. In questo caso il ricorrente si limita
a negare l’evidenza, senza nemmeno tentare di smentire la ricostruzione del
fatto operata dal giudicante e senza nemmeno individuare passi
dell’intercettazione affetti

dal “travisamento” lamentato.

Il

motivo è

inammissibile.
6.3. Quanto alle aggravanti contestate (quella di cui al quarto comma dell’art.
416/bis e quella di cui all’art. 7 L. 203/91, contestata in relazione al
danneggiamento dell’auto di Monteleone) valgono le considerazioni già ,esposte
al punto precedente, commentando la posizione di Pirrello, e quelle esposte al
punto 4.2, commentando la posizione di Nava, a cui si fa rinvio.

7. Le emergenze probatorie esposte a carico dì Pitasi Sebastiano alle pagg. 276 g
segg. sono rappresentate, anche in questo caso, da intercettazioni, dalle qua(i è
stato evinto che l’imputato, soprannominato “Ba” e “Fiamma”: a) intervenne in
una discussione tra sodali, o tra sodali e terzi, e rìuscì a sottrarre l’arma ad uno
f:

di essi prima che la discussione degenerasse; b) partecipò a “mangiate” ,tra
sodali, in ordine alle quali non vi è, comunque, la prova ché nel Orso dell
stesse furono trattate questioni associative; c) venne indicato a ‘Russo FrancesCo
classe ’73 (il quale, a sua volta, commentò la notizia con Gattuso Nicola e Russo
Francesco classe ’63, presenti nell’occasione), da un soggetto “Ca0o” che
37

con metodo mafioso, posto che l’azione faceva seguito a danneggiamenti e furti

possedeva informazioni su indagini in corso, come persona che era pedinato
dalla Polizia, insieme ad altri personaggi del gruppo di Cardeto e di altre cosche.
Nella circostanza, Russo consigliava a Gattu’so di non usare il telefonino, perché
• si esponeva a rischi di intercettazione (intercettazione del 9/5/2008); d)
discuteva con altri sodali (Russo Francesco classe ’73, Russo Francesco classe
’63, col quasi omonimo Pitasi Pasquale, Russo Domenico, Alati Antonino e culli
Giacomo), in una occasione, circa il ristorante in cui conveniva recarsi per ragioni
conviviali. Il gruppo decideva di evitare un certo ristorante, perché frequentato

(intercettazione del 7/4/2008); e) partecipava, nella medesima occasione, ad
una conversazione di gruppo, in cui Serraino Alessandro e Dimitri venivano
indicati come soggetti a loro sovraordinati (“chi, il principale?’) ed in cui Russo
Francesco classe ’63 e Alati Antonino ribadivano la loro fedeltà assoluti ai capicosca, per i quali erano disposti a “farsi a pezzi”. Nella stessa occasione i
conversanti parlavano di una microspia piazzata dalla polizia e scoperta da
qualcuno di loro; f) partecipava alla conversazione svoltasi nella rivendita di
Russo Francesco classe ’73 – insieme a quest’ultimo, a Caccamo Daniele, a Russo
Francesco classe ’63 e a Pitasi Pasquale -, nel corso della quale proprio Pitasi
Sebastiano introduceva l’argomento del “banco nuovo” e della necessità di
parlare con Serraino Domenico (intercettazione del 10/12/2008).
7.1. Con riguardo a questo variegato complesso probatorio va sottolineato,
innanzitutto, che la Corte d’appello non ha affatto escluso valenza indiziante alle
prime tre emergenze (quelle indicate sotto le lettere a-b-c), come erroneamente
e suggestivamente sostenuto dal ricorrente, ma ha soló specificato che esse, da
sole, costituirebbero, al più, prova di “appartenenza” del Pitasi all’associazione
contestata (alla stregua di quanto suole dirsi in tema di misure di prevenzione),
non potendosi desumere, da esse sole, la prova dell’attiva partecipazione di
Pitasi al gruppo malavitoso di Cardeto- San Sperato. La Corte di merito ha anche
precisato, però, che quegli elementi, letti nell’insieme delle risultanze istruttorie,
sono ugualmente indicativi della direzione in cui Pitasi si muoveva, degli interessi
che coltivava e delle frequentazioni che aveva, talché, sommati alle risultanze
successivamente passate in rassegna, si doveva, anche da esse, trarre la
conferma che l’imputato era un membro attivo della cosca, in cui era – a pieno
titolo – inserito. E non v’è dubbio che le successive intercettazioni esaminate
siano effettivamente probanti nella direzione sostenuta dai giudicanti, ‘giacché
provano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Pitasi era considerato – dai
soggetti sicuramente inseriti, per quanto si è detto e si dirà, nella cosca diretta
da Serraino – un loro sodale, tant’è, giusto il rilievo della Corte d’aPpelio, che
non si meravigliavano del fatto che potesse essere pedinato e ne temeVano le
conseguenze, parlavano con lui di microspie scoperte dalla polizia’ e della
38

da esponenti delle Forze dell’Ordine, e di andare, quindi, in “uno che fa per noi”

necessità di evitare l’uso dei telefonini; tant’è che parlavano con lui., o
quantomeno alla sua presenza, dei Serraino come dei loro capi; tant’è che
proprio l’imputato sollevava il problema del “banco nuovo” e della necessità di
discuterne, con una certa urgenza, col capo carismatico Serraino Domenico.
Trattasi di emergenze, giova sottolineare, che non depongono affatto per una
posizione “statica” di Pitasi all’interno del gruppo malavitoso, ma lo qualificano
come membro attivo dello stesso, giacché rivelano il suo spiccato interesse per la
migliore ridistribuzione delle cariche interne, necessaria al sodalizio per il

Manifestamente infondate o altrimenti inammissibili sono le censure rivolte, sul
punto, alla sentenza impugnata, sia per quello che è stato già detto, sia perché
le ulteriori critiche non colgono nel segno, in quanto: a) contrariamente
all’assunto del ricorrente, la conversazione del 9/5/2008 dimostra proprio la viva
preoccupazione dei presenti per i “pedinannenti” in corso, che riguardano, per
l’appunto, anche Pitasi Sebastiano (tanto si desume, inequivocabilmente, dai
dialoghi riportati in sentenza: “aprite gli occhi, in quelle zone, uno di quei due
siete voi, al mille per mille”, dice Carlo, mentre Russo Francesco aggiunge:
“Vedete…che siete sotto osservazione pericolosa é vi fottono

3;

b)

dall’intercettazione del 7/4/2008 non si evince solo l’intenzione del gruppo di
andare ad un ristorante “che fa per loro”, ma soprattutto il fatto – messo in
evidenza in sentenza – che i presenti parlano di Serraino Alessandro e Demetrio
e li qualificano espressamente loro “principali”, oltre a dimostrare devozione
incondizionata verso di essi; c) la questione del “banco nuovo” e la
prospettazione alternativa fatta dall’imputato nel corso del processo e nel ricorso
a questa Corte sono state “funditus” esaminate dalla Corte d’appello, la quale,
avvalendosi della totalità delle intercettazioni disponibili – e ,non limitandosi a
sminuzzare le parole di una singola intercettazione per tentare di attribuire loro
un qualche significato – ha plausibilmente interpretato il dialogo nella maniera
sopra evidenziata, rilevando che dell’espressione “banco nuovo” è stata data,
tempo dopo, una interpretazione autentica nel corso di altra conversazione
intrattenuta da tale “Paolino” con Serraino Alessandro (conversazione del
9/4/2010): vale a dire, con chi del “banco nuovo” occorreva nuovamente (o
ancora) discutere dopo la morte di Serraino Domenico. Ma anche la
conversazione del 7/4/2008 non ha ricevuto minore attenzione da parte dei
giudici di merito, i quali hanno rilevato che la circospezione Mostrata dai
dialoganti, il collegamento della telefonata con altra precedente – da *cui era
emerso che i due Russo erano stati a colloquio con Serraino e che non avevanp
potuto parlare, nell’occasione, di “car’iche”, stante l’assenza dei, Pitasr l’impossibilità di adattare il concreto sviluppo del dialogo alla prostettazione
alternativa proposta dalla difesa depongono inequivocabilmente per la lettura

:3 9

perseguimento degli scopi suoi propri.

meno favorevole per l’imputato, sicché è questa lettura che deve essere posta a
base del giudizio da esprimere su di lui. Nella spiegazione fornita ‘dalla Corte di
merito vi è, all’evidenza, una esaustiva elaborazione del materiale probatorio
disponibile e un’attenta – anche se disattesa – considerazione della tesi
difensiva, sicché la riproposizione della questione dinanzi a questa Corte si
risolve in una inammissibile censura in fatto, esulante dai limiti del giudizio di
legittimità. Non è inopportuno ricordare, al riguardo, che l’interpretazione delle
fonti di prova è compito esclusivo del giudice di merito, che, ove e’sercitato nel

processuali, non travisate, non è denunciabile dinanzi al giudice di legittimità,
poiché i vizi denunciabili in questa sede sono limitati, quanto alla motivazione,
alla mancanza, alla manifesta illogicità o contraddittorietà risultante dal testo o
da altri atti del processo. Come è stato ripetutamente affermato, esula dai poteri
di questa Corte quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione, la cui valutazione si deve rimanere prerogativa
esclusiva del giudice di merito, e non è, quindi, denunciabile come vizio di
legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più
adeguata, valutazione delle risultanze processuali (cfr. Cass. S.U. 24/11/1999,
Spina; S.U. 30/4/1997, Dessimone).
7.2. Per quanto attiene al diniego delle attenuanti generiche si fa rimando, anche
in questo caso, al punto A4.

8. Anche gli elementi probatori esposti a carico di Russo Domenico alle pagg.
292-308 sono univocamente dimostrativi della sua intraneità al sodalizio.
Occorre al riguardo sgombrare il campo da un equivoco in cui è caduto il
ricorrente: la Corte d’appello non ha affatto negato valenza indiziante ai primi
elementi esposti nell’incipit del discorso che riguarda l’imputato (la strettà
frequentazione di Russo Domenico con i principali esponenti della “locale” di
Cardeto; la sua presenza, in momenti topici, nella rivendita di Russo Francesco
classe ’73; la sua partecipazione alle cd. “mangiate”), ma ha chiara,mente
spiegato che tali elementi non sarebbero stati sufficienti – da soli – a legittimare
una pronuncia di condanna. Ha anche’ aggiunto, però, che tali elementi; lètti
unitariamente a quelli più direttamentè evocativi della piena partecipazione al
sodalizio, contribuiscono a delineare la personalità dell’imputato e a dare
pregnanza alle ulteriori emergenze che lo riguardano. Emergenze che – per
come esposte in sentenza – sono effettivamente dimostrative della piena
partecipazione al sodalizio, perché rivelano che Russo

Domenico veniva
H

convocato in riunioni indette e organizzate dai sodali (pag. 293); partecipava,

anche se in maniera passiva, a conversazioni

– intercorse tra , soúétti

indubbiamente appartenenti alla cosca – in cui si parlava dei capi
40

(Seri-raino

rispetto delle regole della logica e in aderenza alle obbiettive risultanze

Domenico, Alessandro e Paolo) e della devozione da cui erano circondati; nonché
di microspie collocate dalla polizia nell’autovettura di uno di loro (pagg. 295297); discuteva con Russo Francesco classe 73, Russo Francesco classe ’63,
Pitasi Pasquale e Sgrò Francesco circa le modalità più opportune per fare visita a
Serraino Domenico, da poco collocato agli arresti domiciliari, e delle precauzioni
da prendere per evitare di essere intercettati dalle Forze, dell’Ordine (Russo
Domenico – a conferma della sua estrema vicinanza al capo – dichiarava di
averlo sognato la notte precedente: pagg. 298-299); veniva indicato da

raccomandato per ottenere una “promozione” in ambito associativo (pagg- 303305); partecipava – nella rivendita di Russo Francesco classe ’73 – ad una
conversazione con quest’ultimo, Gattuso Nicola, Russo Francesco classe ’63,
Pitasi Nicola e un sesto uomo nel corso della quale Gattuso Nicola faceva
riferimento ad una persona (nota agli interlocutori) che aveva pronunciato una
apposita “formula” per il conferimento di “cariche” (pagg. 305-306). E rivelano
che anche soggetti esterni alla cosca (i collaboratori Fregona e Villani) sapevano
della “vicinanza” di Russo Domenico ad esponenti della cosca Serraino o proprio
ai suoi capi.
Trattasi di compendio effettivamente indicativo – secondo ogni logica – di un
ruolo attivo di Russo Domenico nell’associazione, perché solo con un intraneo
sono concepibili discorsi tanto compromettenti e solo ad un intraneo sarebbe
stato consentito di avvicinare il “capo” agli arresti domiciliari; e solo un intraneo
dotato di prestigio all’interno del sodalizio avrebbe potuto appoggiare la scalata
di un sodale nelle gerarchie mafiose. Rispetto a queste logiche argomentazioni il
ricorrente non fa che riproporre – sotto forma di vizio motivazionale – censure
già sollevate dinanzi al giudice d’appello e da questi motivatamente disattese,
laddove è stato fatto rilevare che niente autorizza a ipotizzare una dissociazione
di Russo Domenico dai discorsi del 7 aprile 2008 (pagg. 295-297); che il dialogo
del 12/1/2008 non è affatto scarsamente intellegibile e che esprime concetti
fortemente indizianti nei confronti dell’imputato, perché rivela la considerazione
in cui era tenuto dai sodali (pagg. 303-305); e che lo stesso deve’dirsi per la
conversazione del 20/6/2008, da cui traspaiono concetti chiaramente riferibili a
dinamiche `ndranghentistiche.
Non è poi esatto affermare che la Corte d’appello abbia attribuito ‘scarsa
rilevanza all’ulteriore intercettazione del 7/4/2008, essendosi hmitata ad
affermare che il dialogo conferma – “almeno” – la “appartenenza” di tiitti i
conversanti al “contesto della cosca Serraino”, per poi aggiungere che è
chiaramente percepibile, nel dialogo, “tutta l’inquietudine propria di; che e
membro della cosca diretta dal boss detenuto per non potersi porré ,a1 più’ pràto

41,

Caccamo e Russo Francesco classe 73 come soggetto a cui un terzo sodale si era

in diretta relazione con questi”; il che palesa una valutazione affatto differente
rispetto a quella prospettata dal ricorrente.
Quanto alle dichiarazioni dei collaboratori, inutilmente viene insistito sul
carattere generico e indeterminato del narrato: la stessa Corte di merito ne ha
preso atto per attribuire a quelle dichiarazioni il valore di una Mera e non
necessaria conferma del quadro univocamente emerso dalle intercettazioni;
perciò, nessuna censura sollevata sul punto è idonea a offuscare quel quadro,
racchiuso in una cornice che fa a meno della prova dichiarativa. Solamente

condanna non sono state ritenute sufficienti nel giudizio cautelare: qúesta Corte
non dispone degli elementi necessari al giudizio di comparazione e non è in
grado di apprezzare su quali basi è stata affermata l’insufficienza probatoria delle
prove a suo tempo raccolte e sottoposte al vaglio del giudicante. Tanto, a
prescindere dal rilievo che i medesimi elementi possono ricevere – a parte gli
approfondimenti resi possibili dallo sviluppo della dinamica processuale – una
differente valutazione e assumere diverso rilievo nella lettura unitaria della
prova, cui è chiamato il giudice della cognizione.

9. A carico di Russo Francesco classe 1 63 è stato fatto rilevare quanto segue:
a) partecipò al colloquio svoltosi in data 7/4/2008 nella rivendita di Russo
Francesco classe ’73 – insieme a quest’ultimo, a Russo Domenico, Pitasi
Sebastiano, Pitasi Pasquale, Alati Antonino e Gullì Giacomo – discutendo circa il
ristorante in cui conveniva recarsi. Il gruppo decideva di evitare il “Royal”,
perché frequentato da esponenti di Forze dell’Ordine, e di andare, quindi, su sua
proposta, in “uno che fa per noi” (intercettazione del 7/4/2008); b) partecipò;
nella medesima occasione, ad una conversazione di gruppo, in cui SerrainO
Alessandro e Serraino Demetrio venivano indicati come soggetti a lòrò,
sovraordinati (“chi, il principale?”) ed in cui proprio l’imputato Russo France s co
classe ’63 e Alati Antonino ribadivano la loro fedeltà assoluta ai capi-cosca, per.:i
quali erano disposti a “farsi a pezzi” (l’imputato esprimeva la propria devozione,e
preferenza per “Mico”). Nella stessa occasione i conversanti parlavano di una
microspia piazzata dalla polizia e scoperta da qualcuno di loro, e manifestavano
disappunto per non potersi recare a fare visita a Serraino Domenico, ,da poco
collocato in detenzione domiciliare; c) partecipò, in data 10/12/2008,, alla

conversazione svoltasi nella rivendita di Russo Francesco classe ’73
insierne a
quest’ultimo, Caccamo Daniele, Pitasi Sebastiano e Pitasi Pasquale

nel corso

della quale Pitasi Sebastiano introdusse l’argomento del “banco nuovo” e della
necessità di parlare con Serraino Domenico. Dalla stessa conversazione, e dai
rilevamenti del sistema GPS, è stato desúnto che poco prima l’imputato era statb
a colloquio con Serraino Domenico e che non aveva introdotto, nell’occaSiOné, là
42

assertiva, infine, è la considerazione che le prove poste a base del’ giudizio di

problematica delle cariche per l’assenza dei Pitasi (intercettazione del
10/12/2008); d) era presente, insieme a Gattuso Nicola, nella rivendita di Rus’so
Francesco classe ’73 il 9/5/2008 allorché quest’ultimo Comunicò di aver appreso
da un soggetto – “Carlo”, cugino di Lo Giudice – che erano “tutti” pedinati dalla
polizia. Nella circostanza, Russo Francesco classe ’73 consigliava a Gattuso di
non usare il telefonino, perché si esponeva a rischi di intercettazione; e)
partecipò, sempre in data 9/5/2008, al prosieguo della conversazione nella
rivendita di Russo Francesco classe ’73, presente anche Gattuso Nicola. Nel corso

quell’anno

e, parlando a norine del grUppo di

(“per Polsi come siamo?)

appartenenza, manifestò l’intendimento di ottenere, per esso, cariche superiori
(“noi qualcosa vogliamo quest’anno…che non ci rompano i coglioni, ogni volta
con Tegano”), ottenendo risposte significative da parte di Gattuso (“Ha parlato
con Peppe Pelle”,

all’epoca capo-crimine); f) partecipò alla conversazione

all’interno della rivendita di Russo Francesco classe ’73 in data 17/5/2008. Nel
corso della conversazione proprio l’imputato riferì di aver partecipato ad una
“mangiata” – allorché “era stato dato il locale” – e di aver avuto, nel corso della
stessa, un diverbio con Gattuso Francesco circa i limiti territoriali di rispettiva
influenza mafiosa. Nella discussione si inserì Serraino Demetrio, il quale disse
che, per lui, i limiti potevano anche rimanere invariati finché non fosse tornato in
libertà il fratello Francesco; g) discusse con Russo Francesco classe ’73, nella
rivendita di quest’ultimo, in data 1/7/2008, della convinzione di Gattuso
Demetrio che “quelli di Cardeto” si fossero schierati con “Lirnitri” (Meniti
Demetrio); h) l’auto dell’imputato fu notata – in data 19/8/2009 – all’esterno di
uno dei due ristoranti di Ardore Marina in cui si svolsero i festeggiamenti per il
matrimonio di Pelle Elisa (figlia del capomafia Pelle Giuseppe) e Barbaro
Giuseppe (figlio del defunto Barbaro Pasquale, della famiglia ‘ndranghentistica
dei Castani). In tale occasione la ‘ndrangheta provinciale aveva svolto un summit
in cui erano state conferite nuove cariche; i) l’auto dell’imputato fu notata nella
piazza del santuario di Polsi in data 1/9/2009, in occasione della tradizionale
festa della Madonna ma anche in concomitanza con l’annuale Iconvegno di
‘ndrangheta.
8.1. Si tratta, all’evidenza, anche in questo caso, di un imponente Materiale
probatorio che dimostra effettivamente il pieno inserimento di Russo nella cosca,
la sua devozione per i capi, la sua partecipazione alla vita associativa, la suo
attenzione ai limiti territoriali di competenza mafiosa, il suo attivismo nella
redistribuzione delle cariche interne. La conclusione dei giudici d’appdllo – quelld
di primo grado aveva addirittura ritenuto l’imputato “organizzatore” della cosca
rappresenta la semplice presa d’atto di una realtà che si impone da sola, per la,
chiarezza e l’univocità degli elementi di valutazione offerti’ dalle intercettaziOni.
i

43

della discussione proprio l’imputato chiese notizia della riunione di Polsi di

Per contro, le censure difensive – irricevibili, nella parte in cui pretendono di
riesaminare il materiale probatorio alle luce di una personale lettura delle
intercettazioni – sono infondate nella parte in cui negano l’esistenza di un ruolo
di Russo nell’associazione, giacché quello delineato dai giudici concreta proprio
un ruolo di partecipazione giuridicamente rilevante, siccome caratterizzato dalla
intraneità alle dinamiche associative, dalla condivisione degli scopi e dei metodi
dell’associazione. A nulla rileva il fatto che egli non si sia speso all’esterno per
dare concretezza allo “statuto” dell’associazione, giacché ciò che rileva è, per

collettivo del gruppo mafioso e non della condotta del singolo associato (che può
certo connotarsi di tale profilo aggiuntivo, senza che tanto costituisca
presupposto indefettibile della condotta punibile)”. Agire che, in base a ciò che è
emerso in questo procedimento ed in quello connesso, riguardante altri membri
della contestata associazione, si connota per inequivocabili “proiezioni esterne” di
carattere “mafioso”.
8.2. Infondate sono pure le censure che concernono la disposta confisca dei beni
a lui appartenenti. Premesso che è stata infine riconosciuta natura sanzionatoria
alla “confisca per equivalente” o “allargata” di cui all’art. 12-sexies d.l. n. 306 del
1992 (da ultimo, Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260247, in linea,
peraltro, con l’interpretazione dell’art. 7 CEDU elaborata dalla Corte di
Strasburgo nella sentenza del 09/02/1995 Welch c. Regno Unito), condizioni per
farsi luogo all’ablazione dei beni sono, com’è noto, la disponibilità, anche Per
interposta persona, da parte del condannato per uno dei reati previsti dall’art.
12-sexis cit., di beni che abbiano un valore sproporzionato rispetto al reddito
dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o alla propria attività economica e di
cui il condannato non sia in grado di giustificare la legittima provenienza.
Ebbene, la sentenza impugnata ha dato ampiamente ragione dell’esistenza delle
condizioni suddette, ponendo a raffronto i redditi conseguiti dal nucleo familiare
del Russo – nel periodo oggetto di considerazione – con gli esborsi effettuati (sia
per spese di mantenimento della famiglia che per l’acquisto dei beni),
evidenziando una costante sproporzione tra gli elementi positivi e quelli negativi,
sempre a svantaggio della tesi difensiva (a parte che per i redditi d,i alcuni anni ;
comunque inidonei a colmare il “gap” accumulato nel periodo); situazione; che
depone, inequivocabilmente, per la impossibilità di operare – lecitamente ,- gli
accumuli di ricchezza necessari a sostenere ,le spese relative agli acquisti di ‘culi si
discute. Né giova al ricorrente insistere sul pagamento rateale del ierreno ,e dei
mezzi serventi l’impresa edile Russo o sul valore modesto di; alcuni beni (il
ciclomotore), posto che il raffronto operato dal Tribunale e dalla Corte d’appello è
onnicomprensivo e riguarda anche al periodo in cui sarebbero avvenuti i

44

quanto è stato detto, “la percezione sul territorio di riferimento dell’agire

pagamenti dilazionati. Apodittica, per il resto, e non risolutiva è la considerazione
che “il resoconto I.S.T.A.T. sulla spesa media di una famiglia” è “inaffidabile”, in
quanto la sentenza dà pure atto che i redditi sono stati considerati al ,lordo :delle
imposte e che il prezzo di acquisto dei beni mobili è stato assunto secondo i
valori di registro, ordinariamente più contenuto rispetto a quello di mercato.
Nemmeno giova al ricorrente insistere sulla distanz,a temporale tra gli acquisti
dei beni mobili e i fatti di reato contestati, non essendo necessario per la confisca
in esame l’accertamento di un nesso eziologico tra il reato e i beni.

del nucleo familiare e gli esborsi effettuati per l’acquisto dei beni è, quindi,
tutt’altro che manifestamente illogica e a questa Corte non è consentito un
intervento di sovrapposizione ricostruttiva.

10. Destituito di ogni fondamento è il ricorso di Russo Francesco classe ’73. Le
censure da lui mosse alla sentenza, ai limiti dell’ammissibilità, tralasciano di
considerare che, su tutte le questioni da lui sollevate e sui punti esaminati, la
Corte d’appello ha fornito risposta, ampia, coerente ed esaustiva, richiamando la
debordante messe di intercettazioni (la gran parte effettuate proprio nelle sua
rivendita) che lo riguardano e che provano, al di là di ogni ragionevole dubbio, il
suo pieno inserimento nella cosca, l’esercizio, da parte sua, delle prerogative
connesse alla posizione apicale riconosciutagli ed il possesso dell’arma per cui è
stato condannato.
Senza indulgere nel tentativo, defatigatorio, di riassumere, per lui, il contenuto
delle intercettazioni a cui partecipa o che comunque lo riguardano, in quanto già
passate in rassegna, in buona parte, nell’esame della posizione degli altri
imputati, si deve solo constatare che quelle richiamate dalla Corte d’appello
hanno piena valenza dimostrativa delle conclusioni cui è pervenuta, perché
dimostrano che il Russo si relazionava con quasi tutti i membri del sodalizio,
indipendentemente dalla posizione occupata nella gerarchia mafiosa (Russo
Francesco classe ’63, Pitasi Nicola, Caccamo Daniele, Morabito Giovanni, Russo
Domenico, Sgrò Francesco, ma anche Gattuso Nicola, Gattuso Francesco,
Serraino Domenico, Alessandro e Demetrio); discuteva con loro di cariche
associative (quelle attuali e quelle future), che riguardavano sia i sodali che lui
personalmente (vedi le intercettazioni riportate alle pagg. 330-332 della
sentenza); ambiva ad una posizione di comando al di fuori della “locale” in cui
era inserito, per la qualcosa cercava sponsor aventi influenza in ambito
“provinciale”; aveva contatti diretti con i capi della “ndrina (Serraino Domenico é
Alessandro), tant’è che poteva recarsi a casa del capo indiscusso (Domenico, che
l’aveva “cresciuto”) e regolamentare l’afflusso dei sodali verso l’abitazione di
quest’ultimo (conversazioni del 7 aprile 2008, riportate a pag. 333); aveva piena
45

La motivazione con cui è stata affermata la sproporzione tra i redditi complessivi

conoscenza della geografia mafiosa del reggino e trattava con esponenti di altre
‘ndrine le zone di influenza, oltre a risolvere con loro le questioni – anche di sola
incomprensione – che potevano insorgere (vedi conversazioni riportate alle pagg.
336-337); a lui si rivolgevano i rappresentanti delle imprese che aveVaho
appaltato lavori nel territorio “dei Serraino”, al fine di dirimere le questioni
collegate alla loro esecuzione, come i rapporti con gli zingari e per
l’individuazione dei fornitori; custodiva armi per conto dell’organizzazione (pagg.
346 e segg.).

merito, sia in ordine all’inserimento dell’imputato nella cosca, sia in ordine al
ruolo apicale ricoperto, giacché gli elementi probatori passati in rassegna sono
effettivamente indicativi sia dell’uno che dell’altro, in quanto descrivono
plasticamente il “calibro” del personaggio nei rapporti interpersonali e lo
collocano nelle dinamiche di gruppo più “delicate”, oltre a rivelare le sue
ambizioni di ascesa nella gerarchia mafiosa. Inutilmente, peraltro, il ricorrente
continua a lamentare una “ambiguità” o indecifrabilità delle intercettazioni senza
nemmeno precisare – come gli è già stato contestato – a quali intercettazioni si
riferisca, o a contestare la sua partecipazione a taluni dialoghi, senza chiarire,
ancora una volta, di quali dialoghi parli; ovvero a dedurre la genericità delle
dichiarazioni dei collaboratori Fregona, Villani e Moio, quando gli è stato ribattuto
che le dichiarazioni di costoro sono state apprezzate per la loro carica
corroborativa rispetto ad un compendio intercettativo imponente e sufficiente, da
solo, a dimostrare gli addebiti. Né assume significato il fatto che la maggiore
carica a cui ambiva non gli sia stata conferita, giacché, come gli è stato spiegato,
ciò che conta è l’ambizione da lui rivelata e non la soddisfazione che gli è
mancata. Quanto agli ulteriori reati a lui contestati (quelli concernenti le armi),
vale, anche per lui, quanto si è detto in ordine alla posizione di Caccamo e
quanto si dirà in ordine alla posizione di Sgrò, a cui si rinvia.

11. Il ricorso di Sgrò è infondato. A suo carico sono state evidenziate le seguenti
circostanze, tutte desunte dalle intercettazioni: a) era presente alia
conversazione intercorsa il 7/4/2008 nell’auto-rivendita di Russo Franceco
classe ’73, allorché tra Sgrò, il Russo suddetto, Russo Francesco ‘classe ’63,
Russo Domenico e Pitasi Pasquale fu manifestata l’intenzione di fare visita a
Serraino Domenico, da due giorni in detenzione domiciliare, nonostante i riChi,
rimarcati dallo stesso Sgrò, che l’iniziativa comportava, per Serraino e pér sé
stessi. Proprio Sgrò prospettava l’eventualità di giustificare la visita; in cab

di

controlli, come fatta ai congiunti di Serraino Domenico, abitanti nello seesso
stabile; b) discusse con Russo Francesco, nella rivendita di quest’u,ltirno,

m,;

lata

del 5/5/2008, della situazione di un certo “Ntoni”, che ambiva a0 ottehetéun.
46

Pienamente giustificata è, pertanto, la conclusione del Tribunale della Corte di

carica superiore di ‘ndrangheta e per la quale aveva investito la “Provincia”,
chiedendo pure che gli venisse conferita à San Luta, dove “era stato fatto”
(“battezzato” nell’associazione); c) partecipò, il 4/5/2008, ad una riunione in una
non precisata località di montagna, a cui si sarebbero dovuti recare anche Russo
Francesco classe ’73 e Alati Antonino (che, per circostanze fortuite, non erano
riusciti a “salire”), nonché Russo Francesco classe ’63 (che fu fermato dai
carabinieri). Tanto emerge dalla conversazione del 5/5/2008, intercettata nella
rivendita di Russo, nel corso della quale quest’ultimo, Sgrò e una terza persona

presente, il 10/12/2008, nella rivendita di Russo Francesco classe ’73 allorché
quest’ultimo e Russo Francesco classe ’63 partirono con una Nissan Micra per
fare visita a Serraino Domenico; e) discusse, in data 6/10/2008, con Russo
Francesco, nella rivendita di quest’ultimo, di un problema che aveva visti
contrapposti un proprio cugino e una terza persona. Dalla conversazione è stato
desunto che Russo era intervenuto a favore del cugino di Sgrò; f) discusse con
Russo Francesco classe ’73 di una pistola – che mal funzionava – detenuta da
quest’ultimo. All’esito della discussione Sgrò si allontanò con la pistola per fare
ritorno dopo circa due ore, assicurando di averla pulita ed esprimendo l’opinione
che il problema fosse creato dalle cartucce.
La sua

partecipazione all’associazione non è stata

ritenuta, quindi,

contrariamente all’assunto difensivo, sulla base di elementi privi di significativa
valenza, ma di elementi certi e chiaramente indicativi della sua intraneità al
gruppo, giacché – giusto il rilievo della Corte di merito – solo con un intraneo il
nutrito gruppo di sodali avrebbe discusso dell’intenzione di fare visita al capocosca detenuto in casa e solo con un intraneo Russo Domenico si sarebbe
espresso nel modo riportato in sentenza, allorché disse di aver “sognato” il
Serraino; solo con un intraneo Russo Francesco classe ’73 avrebbe discusso
dell’aspettativa di Ntoni a una carica superiore nella cosca e avrebbe parlato del
cattivo funzionamento della pistola da lui detenuta e solo ad intraneo l’avrebbe
affidata perché la rendesse efficiente; solo alla preSenza di un intraneo i due
Russo Francesco sarebbero partiti in direzione dell’abitazione di Mico Serraino il
10/12/2008. La Corte di merito ha fatto chiara applicazione di ‘regole di comuné
esperienza, secondo cui solo con una persona di assoluta fiducia i membri di unà
cosca mafiosa si sarebbero rivelati come tali ed avrebbero parlato di
organizzazione interna della cosca, di visite al capo-cosca e di aspirazione alle
cariche da parte dei suoi membri e solo ad una persona di assoluta Moda
avrebbero rivelato il possesso di un’arma da fuoco e gliel’avrebbero affidata, dati
i rischi che ciò comportava. D’altra parte, se è vero che le cariche assOciative
sono, normalmente, patrimonio comune degli associati, è altresì ‘vero che ‘non
costituiscono patrimonio comune le aspirazioni dei singoli, ne – nel breve tempo
47

(che all’incontro aveva invece partecipato) commentano l’episodio; d) era

- le modificazioni della gerarchia, soprattutto ai livelli medio-alti, data la
continua variazione delle posizioni soggettive conseguente alla lotta interna e
all’azione di contrasto dello Stato. Del tutto soggettiva – e contrastante con le
comuni conoscenze sulle dinamiche interne dei corpi mafiosi – è la ‘deduzione,
poi, che gli intranei all’associazione interagiscono direttamente con i vertici del
sodalizio, essendo vero il contrario, data la condizione di inavvicinabilità in cui si
pongono, solitamente, i dirigenti di più alto livello. Le lamentale circa ‘il
trattamento ricevuto, poi, non sono affatto inusuali nelle associazioni criminali,

parte della esposizione in diritto.
Quanto alle caratteristiche della pistola detenuta da Russo Francesco classe 73 e
a lui affidata per la manutenzione valgono, infine, i rilievi svolti al punto 2.3.,
allorché è stata esaminata la posizione di Caccamo Domenico, a cui si rinvia.
Per il trattamento sanzionatorio valgono anche per lui, invece, le riflessioni
sviluppate al punto A4.

12. Le considerazioni sopra svolte impongono, in definitiva, il rigetto di tutti i
ricorsi; ai sensi dell’art. 592 c.p.p., comma 1, e art. 616 c.p.p i ricorrenti vanno
condannato al pagamento delle spese del procedimento. Pitasi Nicola va altresì
condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile
Restuccia Vincenzo, che si liquidano in dispositivo.

P.Q. M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese
processuali, nonché Pitasi Nicola alla rifusione ‘delle spese sostenute nel grado
dalla parte civile Restuccia Vincenzo, che liquida in complessivi C 2000, oltre
accessori come per legge..
Così deciso il 6/11/2015

come dimostrato proprio dal tenore delle intercettaziOni richiamate nella prima

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