Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6703 del 05/12/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 6703 Anno 2014
Presidente: GIORDANO UMBERTO
Relatore: SANDRINI ENRICO GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DI MAIO SALVATORE N. IL 01/01/1947
avverso il decreto n. 9/2012 CORTE APPELLO di ROMA, del
04/10/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ENRICO GIUSEPPE
SANDRINI;
lette/
le conclusioni del PG Dott.

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Data Udienza: 05/12/2013

RITENUTO IN FATTO
1. Con decreto emesso il 4.10.2012 la Corte d’Appello di Roma, in parziale
riforma del decreto emesso il 27.10.2011 dal Tribunale di Latina, ha revocato la
misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza
con obbligo di soggiorno nel Comune di Sabaudia applicata a Di Maio Salvatore
per la durata di anni tre, e ha invece confermato la misura di prevenzione
patrimoniale della confisca disposta nei confronti del proposto sui beni indicati
nel provvedimento, con la sola eccezione della nuda proprietà degli immobili siti
in Castello di Cisterna, dei quali era stato dimostrato l’acquisto in virtù di

successione e donazione intra familiare (e dunque la provenienza lecita), con
conseguente ordine di restituzione all’avente diritto.
La Corte territoriale, dato atto che la misura di prevenzione era stata disposta
sul presupposto di una pericolosità sociale di tipo comune, e non già qualificata,
contestata al Di Maio in qualità di soggetto indiziato di essere abitualmente
dedito ai traffici delittuosi e di vivere abitualmente con i proventi di attività
illecite, e non perché indiziato di appartenere a un’associazione mafiosa, riteneva
corretta l’individuazione nel Tribunale di Latina del giudice territorialmente
competente ad applicare la misura, in quanto le condotte (costituite per lo più da
precedenti penali e di polizia) potenzialmente valutabili come pericolose erano
state poste in essere nel territorio di Latina (l’ultima delle quali rappresentata da
un’estorsione commessa nel 2003, in relazione alla vendita all’incanto di beni
immobili ubicati nel Comune di Sabaudia, per la quale il Di Maio aveva riportato
condanna alla pena di anni 4 di reclusione), mentre l’ipotizzata partecipazione
del proposto all’associazione di tipo mafioso facente capo alla famiglia Cava di
Avellino non era stata presa in considerazione ai fini della valutazione di
pericolosità, ma soltanto sotto il profilo dei legami e delle frequentazioni del Di
Maio con ambienti malavitosi di particolare spessore.
La Corte di merito, come già aveva fatto il Tribunale, valorizzava, agli effetti
della valutazione di pericolosità del Di Maio, già destinatario di avviso orale del
Questore di Latina in data 10.07.2008, oltre alle denunce e ai procedimenti a suo
carico per usura ed estorsione e alla condanna riportata per tale ultimo titolo di
reato (indici di una personalità violenta, traente le proprie risorse economiche da
attività illecite di vario genere, anche ricorrendo all’uso della forza), le risultanze
del processo celebrato a carico del Di Maio dinanzi al Tribunale di Avellino per il
reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., che, benchè conclusosi nei suoi confronti
con pronuncia assolutoria per non aver commesso il fatto, aveva evidenziato
(specie attraverso i contenuti delle intercettazioni telefoniche ed ambientali) la
costante frequentazione, da parte del proposto, di soggetti appartenenti al clan
mafioso Cava di Avellino e i suoi legami personali, di affari e di cointeressenza
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economica con tali soggetti nel periodo dal 2002 al 2006, nella consapevolezza
del relativo spessore criminale e procurandosi ingenti somme utilizzate per
l’acquisto di beni intestati fittiziamente ai propri familiari e a soggetti nullatenenti
da lui dipendenti; le dichiarazioni delle persone offese dai reati di estorsione
attribuiti al proposto, sfociati nella condanna alla pena di anni 4 di reclusione per
l’episodio del 10.07.2003 relativo alle violenze e minacce poste in essere per far
desistere gli interessati dalla partecipazione a un’asta di beni immobili di
proprietà del Di Maio e della moglie, riscontravano il clima di pressione

In considerazione della risalenza delle ultime condotte antisociali agli anni 20022006, la Corte d’Appello escludeva peraltro la sussistenza del requisito
dell’attualità della – pur ritenuta – pericolosità sociale, revocando di conseguenza
la (sola) misura di sicurezza personale.
Quanto alla misura di sicurezza patrimoniale, per la quale non era necessaria
una pericolosità attuale, la Corte territoriale, dato atto che il Di Maio aveva
sostanzialmente ammesso la titolarità dei beni confiscati e la fittizietà della loro
intestazione a familiari e a terzi, e premesso che i presupposti della confisca di
prevenzione erano diversi da quelli del sequestro preventivo finalizzato alla
confisca ex art. 12-sexies legge n. 306 del 1992, esaminava analiticamente la
consistenza e la provenienza dei beni oggetto del provvedimento ablativo,
confermandolo (con la sola eccezione del compendio sito in Cisterna di Latina di
cui si è detto sopra) sul presupposto che gli immobili confiscati erano stati
acquistati nel periodo di accertata pericolosità sociale del Di Maio e il loro valore
era del tutto sproporzionato alle attività economiche (lecite) e ai redditi inesistenti o irrisori – dichiarati dal proposto e dai suoi familiari, facendo
applicazione del criterio per cui la corrispondenza temporale non era necessaria
per i beni costituenti frutto di attività illecite di qualunque natura (o del loro
reimpiego), ivi inclusi i proventi di evasione fiscale.
2. Ricorre per cassazione Di Maio Salvatore, tramite il difensore, deducendo due
motivi di censura, consistenti nella prospettata violazione dell’art. 606 comma 1
lett. b) cod.proc.pen., in relazione all’art. 4 legge n. 1423 del 1956 in ordine alla
ritenuta competenza territoriale del Tribunale di Latina (primo motivo), e alla
ritenuta sussistenza della pericolosità sociale del proposto quale presupposto per
l’applicazione della misura di prevenzione reale (confisca), nonché alla illiceità
dei proventi con i quali erano stati acquistati i beni confiscati (secondo motivo).
A sostegno del primo motivo, il ricorrente deduce che il luogo di dimora del
proposto, individuato normativamente come criterio di collegamento per la
determinazione della competenza territoriale a provvedere sulla richiesta di
misura di prevenzione, deve intendersi quello in cui il soggetto ha tenuto i

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ambientale creato dal proposto, sintomatico della sua pericolosità.

comportamenti sintomatici della sua pericolosità sociale, traendone vantaggi per
la propria attività, senza che rilevi la residenza anagrafica, o il luogo in cui la
persona vive abitualmente, o quello dove si trovano i beni suscettibili di confisca;
poiché la maggior parte delle condotte sintomatiche della pericolosità del Di Maio
sarebbero riferibili, secondo il provvedimento impugnato, ai suoi rapporti di
interazione con pretesi appartenenti al clan Cava operante in provincia di
Avellino, il giudice competente deve individuarsi nel Tribunale di Avellino, a nulla
rilevando che il luogo di reinvestimento dei proventi illeciti coincida col territorio

decreto impugnato.
Col secondo motivo, il ricorrente rileva che le sole condotte rilevanti al fine del
giudizio di pericolosità sono, secondo la stessa prospettazione della Corte di
merito, quelle poste in essere nel territorio di Latina, che si riducono a tre
singoli, sporadici, episodi, realizzati in un arco temporale dilatato (il primo,
risalente al 1993, di usura ed estorsione in danno di tale Ghiro; il secondo
rappresentato da un’operazione truffaldina relativa ad immobili siti in Alseno; il
terzo riguardante un’ipotesi estorsiva finalizzata al recupero di beni sottratti al
patrimonio familiare a seguito di procedura esecutiva), privi del requisito
dell’abitualità necessaria a integrare uno stile di vita connotato da pericolosità
sociale, che doveva pertanto essere esclusa, con conseguente insussistenza del
presupposto della misura di sicurezza patrimoniale.
Il ricorrente censura altresì l’error in iudicando in cui sarebbe incorsa la Corte
territoriale nell’aver escluso l’idoneità dei redditi “sommersi”, costituenti
provento di attività lecite del proposto esercitate in regime di evasione fiscale, a
giustificare l’origine del possesso dei beni assoggettati a confisca, nonostante il
contrario principio affermato dalla Corte di legittimità, Sez. 6, nella sentenza n.
29926 del 31.05.2011, resa in materia di confisca ex art. 12-sexies legge n. 356
del 1992, ma estensibile anche alla confisca di prevenzione stante la sostanziale
identità di ratio legis e di contenuto normativo, che si limita a richiedere, in
entrambi i casi, la sussistenza di una sproporzione tra il valore dei beni oggetto
del provvedimento ablativo e il reddito ovvero l’attività economica del soggetto
attinto, senza che rilevi il vincolo di pertinenzialità dei beni stessi con le condotte
illecite; di tal che la violazione delle norme tributarie costituiva un posterius
irrilevante rispetto alla liceità delle attività commerciali produttive dei redditi
sottratti a imposizione fiscale, in relazione ai quali doveva effettuarsi il giudizio di
proporzionalità coi beni confiscati, la cui omissione inficiava la legalità del
decreto impugnato, suscettibile perciò di annullamento con rinvio.
3. Il Procuratore generale ha presentato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto
del ricorso e richiamando il diverso orientamento giurisprudenziale, contrario a

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v

di Latina; sotto tale profilo il ricorrente chiede l’annullamento senza rinvio del

quello invocato dal ricorrente, in materia di confisca di prevenzione dei beni il cui
acquisto trovi giustificazione nei proventi di evasione fiscale.
4. Con memoria depositata il 29.11.2013, il ricorrente replica alle deduzioni del
Procuratore generale, ribadendo la competenza del Tribunale di Avellino sul
presupposto che la maggior parte delle condotte che il decreto impugnato aveva
ritenuto sintomatiche della pericolosità sociale del Di Maio erano riferibili ai
rapporti dello stesso coi presunti appartenenti alla cosca operante in provincia di
Avellino, e rilevando che, ove si ritenesse corretta l’individuazione nel Tribunale

addebitata al Di Maio il requisito dell’abitualità, necessario a supportare il
giudizio (per quanto non più attuale) di pericolosità sociale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è palesemente infondato, fino a rasentare
l’inammissibilità, limitandosi a riproporre gli argomenti di fatto a sostegno della
dedotta incompetenza territoriale del Tribunale di Latina, in favore di quello di
Avellino, che sono stati motivatamente e correttamente disattesi dai giudici di
prima e di seconda istanza, senza apportare alcun elemento di novità rispetto a
quanto già esaminato e valutato dai giudici di merito.
Va rilevato che la censura del ricorrente non riguarda la correttezza giuridica, in
sé, del criterio di determinazione del tribunale territorialmente competente a
pronunciare sulla richiesta di misura di prevenzione, individuato dai giudici di
merito in quello del luogo di manifestazione, da parte del proposto, dei
comportamenti socialmente pericolosi di maggiore spessore e rilevanza (in
conformità alla regola iuris, condivisa dalla difesa del Di Maio, che è stata più
volte affermata da questa Corte: vedi, da ultime, Sez. 5, n. 9350 del
25/10/2012, Rv. 255204, e Sez. 1, n. 21009 del 24/01/2012, Rv. 252858), ma
investe l’applicazione concreta di tale principio al caso di specie, che – secondo il
ricorrente – doveva condurre a individuare il giudice competente nel Tribunale di
Avellino, in relazione ai rapporti di frequentazione personale e di cointeressenza
economica intrattenuti dal Di Maio con esponenti mafiosi del clan Cava di
Avellino, valorizzati dalla Corte territoriale come elementi sintomatici della
pericolosità sociale del soggetto.
I giudici di merito, e in particolare la Corte d’Appello, hanno peraltro spiegato, in
termini chiari e puntuali, che la pericolosità dedotta nella proposta di
applicazione della misura di prevenzione a carico del Di Maio era quella comune,
basata sul presupposto dell’appartenenza alla categoria generale di soggetti di
cui all’art. 1, lettere a) e b), del D. Lgs. n. 159 del 2011, e non già quella
qualificata costituita dall’indizio di appartenenza a un’associazione mafiosa, di tal
che la conseguente valutazione di pericolosità sociale era stata coerentemente
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di Latina del giudice competente a disporre la misura, difetterebbe nella condotta

compiuta sulla base delle condotte del ricorrente, risultanti dai suoi precedenti
penali e di polizia, ritenute sintomatiche di una dedizione abituale a traffici
delittuosi e della ritrazione abituale da tali attività criminose dei propri mezzi di
vita, le cui manifestazioni ricadevano nel circondario del Tribunale di Latina,
coincidente col luogo di dimora (in Sabaudia) del Di Maio; mentre gli elementi
ritraibili dall’accusa di aver fatto parte del sodalizio mafioso diretto dalla famiglia
Cava di Avellino (accusa dalla quale il ricorrente, peraltro, è stato assolto per
non aver commesso il fatto) erano stati considerati esclusivamente

ad

ambienti malavitosi di elevato spessore criminale.
In particolare, la Corte territoriale ha valorizzato, con adeguata motivazione, tra
le manifestazioni più significative della pericolosità sociale del Di Maio, idonee a
radicare la competenza del Tribunale di Latina, la condotta estorsiva posta in
essere nel 2003 per costringere, con violenza e minaccia, i soggetti interessati
all’acquisto a non partecipare alla vendita all’incanto dei beni, di proprietà del
proposto e della moglie, soggetti a procedura esecutiva immobiliare ubicati nel
Comune di Sabaudia, delitto per il quale il ricorrente era stato condannato alla
pena di anni 4 di reclusione con sentenza pronunciata dal Tribunale di Avellino in
ragione della connessione con altri reati dai quali il Di Maio era stato assolto.
La competenza del Tribunale di Latina è stata dunque correttamente determinata
e non sussiste alcuna violazione di legge al riguardo.
2. Anche il secondo motivo è infondato.
Il provvedimento impugnato ha congruamente ancorato il giudizio di pericolosità
sociale del Di Maio, negli anni – compresi tra il 2000 e il 2006 – in cui sono stati
acquisiti al suo patrimonio (sia pure per interposta persona) i beni oggetto di
confisca, ai presupposti normativi richiesti dall’art. 1, lettere a) e b), D. Lgs. n.
159 del 2011 (già art. 1, n. 1 e 2, legge n. 1423 del 1956), valorizzando una
serie di condotte di natura estorsiva, usuraria, truffaldina, o comunque minatoria
e violenta, poste in essere nel periodo dal ricorrente, e ritenute significative della
dedizione abituale ad attività delittuose come fonte di provvista dei propri mezzi
di vita e come strumento di tutela dei propri interessi economici.
Oltre all’episodio estorsivo che ha costituito oggetto della condanna alla
significativa pena detentiva più sopra indicata, la Corte territoriale ha richiamato
le condotte truffaldine addebitate al Di Maio con riguardo ai mutui ottenuti su un
complesso immobiliare sito in Alseno, i prestiti usurari concessi a tale Ghiro
Giuseppe (per i quali era intervenuta sentenza dichiarativa di estinzione per
prescrizione del reato di cui all’art. 644 cod. pen.), le minacce esercitate per
recuperare i crediti vantati nei riguardi dello stesso Ghiro (riscontrate dalle
dichiarazioni della persona offesa, ancorché giudizialmente ritenute inidonee, per

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colorandum, in quanto confermativi della frequentazione da parte del proposto di

la loro genericità, a integrare il delitto di cui all’art. 629 cod. pen.), le
dichiarazioni accusatorie di tali Marrocco Italo e Orsini Gian Luca, descrittive del
clima di pressione ambientale instaurato dal Di Maio per ostacolare e turbare lo
svolgimento delle aste immobiliari coinvolgenti beni di suo interesse, benché
sfociate, in parte, in pronunce assolutorie e di non doversi procedere per
intervenuta prescrizione del reato di cui all’art. 353 cod. pen.: sul punto, il
provvedimento impugnato ha fatto corretta applicazione del principio di diritto,
più volte ribadito da questa Corte, secondo cui nel procedimento di prevenzione

penali riguardanti il proposto e procedere a una nuova e autonoma valutazione
dei fatti ivi accertati, purché dia atto in motivazione, specie quando essi abbiano
dato luogo a una pronuncia assolutoria, delle ragioni per cui siano da ritenere
sintomatici della pericolosità del soggetto (Sez. 6, n. 4668 dell’8/01/2013, Rv.
254417; Sez. 2, n. 26774 del 30/04/2013, Rv. 256819).
Il giudizio sulla pericolosità sociale, di tipo comune (e non qualificato ex art. 4
comma 1 lett. a) D.Lgs. n. 159 del 2011), del Di Maio è stato dunque tratto dalla
Corte di merito sulla base di una serie di condotte reiterate nel tempo in luoghi
ricadenti principalmente nel circondario del Tribunale di Latina, corroborando
ulteriormente la relativa valutazione con elementi ricavati dagli accertati rapporti
(anche di natura economica) del proposto con esponenti del clan Cava di Avellino
(come Casillo Antonio e Avelli Ennio), peraltro operanti in tali occasioni al di fuori
della provincia avellinese (così come emerge dalla lettura della pag. 15, in fondo,
del decreto impugnato).
La motivazione in forza della quale il decreto impugnato ha ritenuto la
sussistenza del requisito dell’abitualità nelle condotte sintomatiche della
pericolosità sociale del Di Maio riferite al periodo interessato dal provvedimento
di confisca (che non presuppone l’ulteriore requisito dell’attualità della
pericolosità, necessario soltanto per l’applicazione della misura di prevenzione
personale: Sez. 1, n. 39204 del 17/05/2013, Rv. 256141) non è suscettibile di
censura, posto che nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è
ammesso, ai sensi dell’art. 10 comma 3 D.Lgs. n. 159 del 2011 (che riproduce il
previgente testo del penultimo comma dell’art. 4 legge n. 1423 del 1956), solo
per violazioni di legge, con la conseguenza che i vizi di motivazione del
provvedimento non sono autonomamente deducibili, ma possono essere dedotti
solo nella misura in cui la censura riguardi non già la pretesa illogicità o
contraddittorietà della motivazione, ma ne contesti l’esistenza o ne lamenti la
mera apparenza (vedi, per l’affermazione del principio, Sez.

1 n. 19093 del

9/05/2006, Rv. 234179, e, da ultime, Sez. 6 n. 35240 del 27/06/2013, Rv.

v

256263, e n. 24272 del 15/01/2013, Rv. 256805), così da tradursi nella carenza

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il giudice può utilizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti

di uno degli elementi essenziali dell’atto prescritti a pena di nullità dall’art. 125
comma 3 cod.proc.pen.: ipotesi, quest’ultima, che – postulando una motivazione
del tutto avulsa dalle risultanze processuali, o che si avvalga di argomentazioni
di puro stile, di asserzioni apodittiche, di proposizioni prive di qualsiasi efficacia
dimostrativa, così che il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della
decisione adottata sia soltanto fittizio (Sez. 5, n. 24862 del 19/5/2010, Rv.
247682) – certamente non ricorre nel caso di specie.
3. Quanto ai beni oggetto di confisca, e dei quali il Di Maio non ha contestato la

impugnato ha analiticamente motivato, con riguardo ai singoli cespiti colpiti dal
provvedimento ablativo, i profili di evidente sproporzione tra il valore dei beni
acquisiti al patrimonio del ricorrente e i redditi (inesistenti o irrisori) dichiarati o
posseduti dallo stesso e dal proprio nucleo familiare, nonchè la carenza di
giustificazione della legittima provenienza dei beni stessi (che era onere del Di
Maio fornire), facendo puntuale e corretta applicazione del principio di diritto
secondo cui ai fini della confisca di prevenzione – che (a differenza di quella
prevista dall’art. 12-sexies legge n. 356 del 1992) non presuppone l’accertata
sussistenza di un reato, ma mira a sottrarre alla disponibilità del soggetto tutti i
beni che siano frutto di attività illecite (senza distinguere se delittuose o meno) o
ne costituiscano il reimpiego – è del tutto irrilevante la loro riconducibilità ai
proventi di (eventuali) attività sommerse esercitate in regime, comunque illecito,
di evasione fiscale (si richiamano, sullo specifico punto, Sez. 2, n. 27037 del
27/03/2012, Rv. 253405, e Sez. 1, n. 39204 del 17/05/2013, Rv. 256140),
peraltro solo allegata, ma non adeguatamente dimostrata, dal ricorrente.
Il richiamo del ricorrente al precedente di questa Corte di cui alla sentenza n.
29926 del 31/05/2011 della Sezione 6, Rv. 250505, è dunque inconferente,
avendo essa riguardo alla diversa ipotesi della confisca ex lege n. 356 del 1992,
connotata da una ratio legis e da presupposti in parte diversi, richiedendo la
commissione di un reato tipico, per giunta accertato da una sentenza di
condanna, ordinariamente generatore – per la sua tipologia – di disponibilità
illecite di natura delittuosa, ancorché l’adozione del provvedimento ablativo
prescinda (anche in questo caso) da un nesso di pertinenzialità del bene col
reato per il quale è intervenuta la condanna.
La confisca di prevenzione persegue, invero, un più ampio fine di interesse
pubblico all’eliminazione dal circuito economico di beni di sospetta provenienza
illegittima, siccome appartenenti a soggetti abitualmente dediti a traffici illeciti
dai quali ricavano i propri mezzi di vita, che sussiste per il solo fatto che quei
beni siano andati a incrementare il patrimonio del soggetto, a prescindere non
solo dal perdurare a suo carico di una condizione di pericolosità sociale attuale
7

V

disponibilità e l’intestazione (meramente) fittizia a familiari o a terzi, il decreto

ma anche dall’eventuale provenienza dei cespiti da attività sommerse fonte di
evasione fiscale, proprio perché la finalità preventiva perseguita con lo
strumento ablativo risiede nell’impedire che il sistema economico legale sia
funzionalmente alterato da anomali accumuli di ricchezza di cui il soggetto possa
disporre per il reimpiego nel circuito economico-finanziario.
4. Il ricorso deve pertanto essere respinto, con le conseguenti statuizioni in
ordine al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Così deciso il 5/12/2013

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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