Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6664 del 05/12/2012


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 6664 Anno 2013
Presidente: FOTI GIACOMO
Relatore: FOTI GIACOMO

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
1) AOUDIA ATHMANE N. IL 21/02/1975
avverso la sentenza n. 2693/2011 GIP TRIBUNALE di LIVORNO, del
24/01/2012
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO FOTI;

Data Udienza: 05/12/2012

Con sentenza del 24 gennaio 2012, il Gup del Tribunale di Livorno ha applicato ad Aoudia
Athmane, ex art. 444 cod. proc. pen, la pena concordata tra le parti di quattro anni, otto mesi
di reclusione e 20.000,00 euro di multa per il reato di cui all’alt. 73 del d.p.r. n. 309/90. Con
la stessa sentenza, il giudice ha disposto, ex art. 12 sexies della legge n. 356 del 1992, la
confisca dei beni oggetto di sequestro, costituiti: da un’autovettura “Audi A3”, da una moto
“Yamaha” e dalla somma di 14.100,00 euro in contanti.
Avverso detta decisione propone ricorso per cassazione l’imputato, che deduce violazione
di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata in relazione alla confisca dei beni
sopra indicati. In particolare, per quanto riguarda il denaro confiscato, sostiene il ricorrente
che esso gli sarebbe stato elargito nel mese di aprile dal fratello Aoudia Abdellah, residente
in Francia, per intraprendere un’attività commerciale. Circostanza da costui confermata.
Considerato in diritto.
11 ricorso è inammissibile.
Rileva al riguardo, anzitutto, la Corte che il ricorso articola censure sostanzialmente in
fatto, riconducendo le proprie disponibilità economiche all’intervento del fratello, laddove
nella sentenza impugnata sono state indicate le ragioni per le quali i beni confiscati devono
essere ricondotti all’imputato, attraverso un percorso argomentativo del tutto coerente sul
piano logico, e dunque non censurabile nella sede di legittimità.
La decisione, peraltro, si presenta del tutto condivisibile e rispettosa della normativa di
riferimento, la quale prevede che, nei casi di condanna o di applicazione di pena concordata,
ex art. 444 cod. proc. pen., per delitti previsti dall’art. 73 del d.p.r. n. 309/90 (esclusa l’ipotesi
descritta sub comma 5), il giudice deve sempre disporre la confisca del denaro, dei beni e
delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per
interposta persona, fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi
titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle relative imposte, o
alla propria attività economica.
La sussistenza di tali condizioni il Gup ha compiutamente accertato con riguardo, sia alla
titolarità e diretta disponibilità dei beni in sequestro da parte dell’imputato, sia alla
sproporzione tra il valore dei beni (un’auto costosa, una moto di grossa cilindrata, una
notevole somma di denaro) ed il reddito percepito (negli ultimi quattro anni, l’imputato non
ha svolto alcuna attività lavorativa e risulta avere percepito, nell’anno 2004, la somma di
circa 2.300,00 euro, nel 2005 la somma di 163,00 euro e nel 2007, la somma di 3.439,00
euro), sia, infine, all’assenza di una credibile giustificazione, da parte dello stesso imputato,
circa la provenienza dei beni in sequestro.
A tale ultimo proposito il Gup non ha omesso di considerare le allegazioni dell’imputato ed
ha ritenuto, legittimamente e con argomentazioni ineccepibili sotto il profilo logico, che le
stesse fossero del tutto strumentali e non credibili, non avendo, peraltro, lo stesso fornito in
precedenza alcuna giustificazione in ordine al possesso della somma di denaro in sequestro.
Del tutto irrilevante nei termini ritenuti dal ricorrente è, infine, il riferimento nel ricorso alla
mancata contestazione del reato ex art. 81 cpv C.P., che renderebbe illogica l’indicazione del
denaro quale frutto di illecita attività di spaccio, laddove si consideri la recidiva specifica
contestata all’imputato, che ancor più autorizza a ricondurre i beni in sequestro all’illecita
attività di spaccio dallo stesso continuativamente svolta.
Alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della cassa delle
ammende, di una somma che si ritiene equo determinare in euro 1.500,00.

Ritenuto in fatto.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2012.

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