Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6658 del 15/12/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 6658 Anno 2016
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: BASSI ALESSANDRA

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Deidda Ulisse, nato il 15/06/1953
avverso la sentenza n. 317/2011 del 22/02/2012 della Corte d’appello di Cagliari

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandra Bassi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Luigi
Orsi, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.

RITENUTO IN FATTO
L Con provvedimento del 22 febbraio 2012, a seguito di annullamento con
rinvio della sentenza con la quale si era dichiarata l’inammissibilità dell’appello
per difetto di legittimazione del difensore impugnante, la Corte d’appello di
Cagliari ha confermato la sentenza del 15 novembre 2001, con la quale il
Tribunale della stessa città ha condannato Ulisse Deidda alla pena di anni cinque
di reclusione, oltre alle pene di legge, per il reato di peculato continuato, per
essersi appropriato – quale impiegato della cassa economale dei pazienti
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Data Udienza: 15/12/2015

dell’ospedale psichiatrico di Villa Clara di Cagliari – di complessivi 601.700.173
lire (apponendo la propria sottoscrizione nei libretti di deposito di sedici persone,
decedute o trasferite in altre strutture, che venivano pertanto estinti e tramutati
in altrettanti titoli al portatore; fatti commessi dal gennaio 1997 all’agosto
1998).
2. Avverso il provvedimento hanno presentato ricorso l’Avv. Alessandro
Dedoni e l’Avv. Pierluigi Pau, difensori di fiducia di Ulisse Deidda, e ne hanno
chiesto l’annullamento per i seguenti motivi.

316 cod. pen. e 192 cod. proc. pen.
Rileva il ricorrente che la Corte d’appello ha errato l’inquadramento giuridico
del fatto che dovrebbe essere qualificato quale appropriazione indebita
aggravata, stante la mancanza in capo all’assistito della qualifica di pubblico
ufficiale o incaricato di un pubblico servizio, ovvero quale peculato mediante
approfittamento dell’errore altrui ai sensi dell’art. 316 cod. pen., avendo i giudici
di merito affermato la clandestinità dell’appropriazione dei libretti dei pazienti da
parte dell’imputato travisando il contenuto delle dichiarazioni del dirigente Elia
Carboni – comunque da ritenere inattendibile – nonché trascurando di
considerare l’assenza di una qualunque iniziativa del Deidda tesa a conseguire il
possesso o la disponibilità dei libretti, che egli aveva ricevuto dal proprio
dirigente e che aveva trattenuto, almeno in parte, approfittando dell’errore di
quest’ultimo che non ne aveva richiesto la restituzione all’esito dell’operazione di
cambio bancario, non risultando comunque provato che Deidda avesse una copia
delle chiavi della cassaforte ove detti libretti erano custoditi.
2.2. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt.
314 cod. pen. e 192 cod. proc. pen., per avere la Corte confermato il giudizio di
penale responsabilità a carico del Deidda sebbene dagli atti non emerga la prova
che egli abbia incamerato le somme di cui ai certificati, non potendosi
logicamente escludere che tali documenti siano “spariti” a seguito
dell’allontanamento dell’imputato dall’ufficio.
2.3. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in ordine alla mancata
dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione già prima della
pronuncia della sentenza di primo grado, dovendosi il fatto qualificare ai sensi
dell’art. 316 o 56-314 cod. pen.
3. Nei motivi aggiunti depositati in Cancelleria, i difensori del Deidda, Avv.ti
Alessandro Dedoni e Pierluigi Pau, hanno insistito per l’accoglimento del ricorso,
evidenziando, sotto un primo aspetto, che le modalità di custodia e di
negoziazione dei libretti induce a ritenere che Deidda abbia posto in essere
l’operazione di cambio su suggerimento della stessa funzionaria del Banco di
2

2.1. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt.

Sardegna e previa concertazione con il dirigente Elia Carboni; sotto diverso
profilo, che, nella specie, i titoli pervenivano nella disponibilità del Deidda in
assenza di una sua condotta attiva, di tal che il fatto deve essere qualificato ai
sensi dell’art. 316 cod. pen.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

qualificazione giuridica (punti 2.1, 2.2 e 3 del ritenuto in fatto), oltre a riprodurre
nella sostanza le argomentazioni già esposte dinanzi ai Giudici di merito e a
doversi pertanto ritenere generici, là dove non si confrontano con le puntuali
motivazioni svolte in risposta (Cass. Sez. 6, n. 1770 del 18/12/2012, P.G. in
proc. Lombardo, Rv. 254204), si appalesano volti a sollecitare una rivisitazione
meramente fattuale delle risultanze processuali e dunque una lettura alternativa
delle fonti di prova, piuttosto che a denunciare vizi riconducibili al disposto
dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen.
3.

D’altronde, l’apparato argomentativo sviluppato dal Giudice di secondo

grado a sostegno della conferma della condanna di Deidda per il delitto di
peculato non presta il fianco a censure di ordine logico o giuridico.
La Corte territoriale ha, invero, ripercorso la ricostruzione della vicenda
compiuta dal primo Giudice dando atto dell’apporto conoscitivo delle fonti orali
(le dichiarazioni rese dal direttore sanitario dell’ospedale psichiatrico Elia Carboni
e dall’assistente sociale Gilda Cancangiu), degli accertamenti documentali e
bancari e delle dichiarazioni dello stesso Deidda (v. pagine 9 e seguenti); ha
dunque rilevato come, sulla scorta di tale compendio probatorio, debba ritenersi
dimostrato che Deidda aveva la disponibilità delle cose altrui in funzione della
propria veste di economo presso la ASL ed aveva agito allo scopo di fare propri
beni della cui altruità aveva piena consapevolezza (v. pagine 11 e seguenti).
Correttamente il Collegio di merito ha posto in evidenza come, secondo il chiaro
disposto normativo (novellato con la legge 26 aprile 1990, n. 86), il delitto di
peculato sia integrato allorchè il pubblico ufficiale o l’incarico di un pubblico
servizio si appropri di beni “altrui” di cui abbia la disponibilità per ragione del suo
ufficio, essendo pertanto irrilevante che si tratti di beni di proprietà della
pubblica amministrazione ovvero di privati, come appunto nel caso in oggetto (v.
pagina 12).
4.

Prive di pregio sono, d’altra parte, le doglianze concernenti

l’inquadramento giuridico della fattispecie.

3

2. I motivi con i quali il ricorrente contesta la ricostruzione dei fatti e la loro

4.1. Ineccepibilmente si è esclusa la ravvisabilità del reato di appropriazione
indebita stante la qualifica pubblistica dell’imputato.
Come questa Corte ha già avuto modo di riconoscere, sotto il profilo
penalistico deve considerarsi che il servizio sanitario si ispira a due principi
cardine: a) la tutela della salute, oltre che diritto fondamentale dell’individuo,
costituisce un “interesse della collettività” garantito dal Servizio sanitario
nazionale, quale complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi
sanitari regionali e degli altri enti; b) i livelli essenziali e uniformi di assistenza

queste funzioni si svolgono col mezzo di strumenti privatistici, tuttavia la
rilevanza pubblica atta a qualificare, sotto il profilo penale, determinate tipologie
di reati deve rinvenirsi tutte le volte che si attuino proprio le oggettive finalità di
tutela dei diritti fondamentali dell’individuo e dell’interesse collettivo (v.

ex

plutimis Sez. 2, n. 769 del 11/11/2005 – dep. 11/01/2006, Lupo Rv. 232989;
Sez. 6, n. 34359 del 04/06/2010 – dep. 23/09/2010, Ragazzo Rv. 248269).
E’ stata pertanto correttamente riconosciuta la qualifica pubblicistica in capo
al Deidda, il quale, per un verso, era un dipendente nell’organico della Azienda
Sanitaria Locale; per altro verso, quale unico impiegato in servizio presso l’ufficio
di cassa economale dei pazienti dell’ospedale, era addetto allo svolgimento di
attività disciplinate da norme di diritto pubblico, seppure senza poteri
autoritativi, occupandosi del maneggio delle risorse finanziarie delle persone
ospitate presso il nosocomio, id est di un’attività volta a perseguire finalità
pubbliche in quanto strettamente connessa alla tutela della salute degli stessi
pazienti ricoverati.
4.2. Altrettanto correttamente i Giudici della cognizione hanno escluso la
sussistenza dei presupposti del reato di cui all’art. 316 cod. pen.
Tale fattispecie incriminatrice – da ritenere marginale e residuale rispetto a
quella del peculato sanzionato dall’art. 314 cod. pen. – può invero essere
configurata esclusivamente nel caso in cui l’agente profitti dell’errore in cui il
soggetto passivo già spontaneamente versi, come si desume dalla dizione della
norma incriminatrice che, nel prevedere la condotta del “giovandosi dell’errore
altrui”, postula che si tratti di un errore preesistente ed indipendente dalla
condotta del soggetto attivo (Sez. 6, n. 5515 del 06/03/1996 – dep. 04/06/1996,
Covelli, Rv. 204879).
Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai Giudici di merito, Deidda non
approfittava di nessun errore, ma, di contro, si appropriava di beni segnatamente di somme depositate sui libretti al portatore intestati a sedici
pazienti della struttura sanitaria – di cui aveva la disponibilità in ragione del suo

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sono assicurati attraverso risorse pubbliche. Ne consegue che anche se talune di

servizio, quale impiegato presso la cassa economale (v. pagine 12 e 13 della
sentenza).
4.3. Né può assumere un qualunque rilievo la circostanza – prospettata
dalla difesa – secondo la quale Deidda avrebbe ricevuto parte dei libretti dal
dirigente ed avrebbe approfittato dell'”errore” di quest’ultimo nel non richiederne
la restituzione.
Anche secondo l’assunto del ricorrente, la consegna era finalizzata a
convertire i libretti di risparmio in certificati di deposito ed era, dunque, volta alla

(successiva) condotta di impossessamento non potrebbe in nessun modo
ritenersi “favorita” da un errore, costituendo – anzi – l’indicata consegna
un’ulteriore conferma del fatto che Deidda aveva la disponibilità dei libretti in
ragione del proprio ufficio o servizio; per altro verso, che l’approfittamento
riguarderebbe l’errore, non delle persone offese del delitto (i pazienti), bensì del
dirigente, estraneo rispetto ai beni oggetto di appropriazione.
5. Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma
dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente, oltre che al pagamento
delle spese del procedimento, anche a versare una somma, che si ritiene
congruo determinare in 1.000,00 euro.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1000 in favore della cassa delle
ammende.

Così deciso in Roma il 15 dicembre 2015
Il consigliere estensore

Il Presidente

realizzazione di uno scopo istituzionale. Ne discende, per un verso, che la

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