Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6639 del 14/11/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 6639 Anno 2014
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Castellani Vinicio, nato ad Avezzano il 21.8.1967, avverso la sentenza
pronunciata dalla corte di appello di L’Aquila il 29.6.2012;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale dott. Giuseppe Volpe, che ha concluso per l’inammissibilità del
ricorso;

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udito per il ricorrente il sostituto processualklel difensore di fiducia, che
ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso.

FATTO E DIRITTO

1. Con sentenza pronunciata il 29.6.2012 la corte di appello di l’Aquila,
in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di Avezzano, in

Data Udienza: 14/11/2013

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data 3.3.2008, aveva condannato Castellani Vinicio, imputato del delitto
di cui agli artt. 81, 624, 625, n. 2) e n. 7), c.p., per essersi impadronito,
con violenza sulle cose, di alcuni discendenti di rame con annessi gomiti
e collari di fissaggio, rimuovendoli dai muri delle abitazioni delle persone
offese, ove si trovavano esposti alla pubblica fede per necessità e per

favorevole all’imputato il trattamento sanzionatorio.
2.

Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede

l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo
del suo difensore di fiducia, lamentando: 1) violazione di legge in
relazione alla ritenuta circostanza aggravante della “violenza sulle cose”
di cui all’art. 625, co. 1, n. 2), c.p., in quanto il Castellani non ha
danneggiato o trasformato i discendenti in rame oggetto di furto, ma si è
limitato a rimuoverli, con l’ausilio di un cacciavite, liberandoli dalle viti
che li tenevano agganciati al muro; 2) violazione di legge e mancanza di
motivazione della impugnata sentenza, in relazione alla ritenuta
circostanza aggravante di cui all’art. 625, co. 1, n. 7), c.p., non
potendosi considerare “cose esposte per necessità o per consuetudine o
per o per destinazione alla pubblica fede”, i discendenti di rame, essendo
legati all’esterno delle abitazioni ove la vigilanza e la custodia da parte
dei proprietari è continua; 3) violazione di legge in relazione al mancato
riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p.,
essendo noto che il valore “di qualche metro di discendente in rame”
corrisponde a “qualche decina di euro”.
3. Il ricorso è inammissibile stante la manifesta infondatezza dei motivi
che lo sostengono, che, peraltro, appaiono meramente ripetitivi delle
questioni prospettate in appello e rigettate dalla corte territoriale.
4. Ed invero, quanto al primo motivo di ricorso, da tempo la Suprema
Corte ha affermato il condivisibile principio secondo cui in tema di furto,
ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della violenza
sulle cose, non è necessario che la violenza venga esercitata
direttamente sulla “res” oggetto dell’impossessamento, ben potendosi
l’aggravante configurare anche quando la violenza, da intendersi come

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destinazione, alla pena ritenuta di giustizia, rideterminava in senso più

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alterazione dello stato delle cose mediante impiego di energia fisica,
venga posta in essere nei confronti dello strumento materiale apposto
sulla cosa per garantire una più efficace difesa della stessa,
provocandone la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione
o determinandone il mutamento nella destinazione, (cfr., ex plurimis,

7416, R.).
Per cui l’asportazione dei discendenti in rame collocati sui muri delle
abitazioni, resa possibile liberandoli, con un cacciavite, dalle viti che li
tenevano agganciati alla superficie esterna degli immobili, al pari di
quella di una ruota fissata con bulloni ad un autoveicolo (cfr. Cass., sez.
II, 12/11/1984, Cammarano), importa un mutamento di destinazione
della cosa sottratta ed è possibile non già mediante l’impiego della
normale attività fisica che è necessaria per l’amotio nel furto semplice,
ma mediante la rimozione delle viti con un apposito strumento, vale a
dire attraverso la manomissione degli ostacoli che l’opera dell’uomo ha
posto a difesa e resistenza delle cose, integrando, in tal modo, il reato di
furto aggravato dalla violenza sulle cose ex art. 625, co. 1, n. 2) c.p.
5. Anche in relazione al secondo motivo di ricorso va osservato come sia
da tempo costante nella giurisprudenza di legittimità l’orientamento
secondo cui in tema di furto, la ratio dell’aggravamento della pena,
previsto dall’art. 625, co. 1, n. 7), terza ipotesi, c.p., non è correlata alla
natura – pubblica o privata – del luogo ove si trova la “cosa”, ma alla
condizione di esposizione di essa alla “pubblica fede”, trovando così
protezione solo nel senso di rispetto per l’altrui bene da parte di ciascun
consociato.
Ne consegue che tale condizione può sussistere anche se la cosa si trovi
in luogo privato in cui, come nel caso dei muri degli edifici su cui erano
montati i discendenti, per mancanza di recinzioni o sorveglianza
continua, si possa liberamente accedere (cfr. Cass., sez. V, 08/02/2006,
n. 9022, G.; Cass., sez. V, 16/09/2008, n. 41375, B., rv. 242593; Cass.,
sez. V, 18/01/2008, n. 6355, C., rv. 239119; Cass., sez. IV,
08/05/2009, n. 21285, rv. 243513).

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Cass., sez. IV, 14/02/2006, n. 14780; Cass., sez. V, 10/01/2011, n.

6. Quanto al terzo motivo di ricorso, premesso che incombe all’imputato
di provare gli elementi di fatto idonei a giustificare l’affermazione della
sussistenza della circostanza attenuante di cui si invoca il
riconoscimento (cfr. Cass., sez. I, 3.12.2010, n. 2663, P., rv. 249548),
va rilevato che nel caso in esame tale onere non è stato adempiuto dal

valore economico dei beni sottratti, il cui effettivo valore, come
evidenziato dalla corte territoriale, in termini di particolare tenuità, in
realtà non risulta in alcun modo dimostrato.
7. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso di cui in premessa va,
pertanto, dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente, ai sensi
dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento, nonché
in favore della cassa delle ammende di una somma a titolo di sanzione
pecuniaria, che appare equo fissare in euro 1000,00, tenuto conto della
evidente inammissibilità del ricorso, facilmente evitabile dal difensore
del ricorrente, che, quindi, non può ritenersi immune da colpa nella
determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte
Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della
Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 14.11.2013.

Castellani, che, al riguardo, ha formulato una mera ipotesi sul modesto

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