Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6636 del 07/01/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 6636 Anno 2016
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PANDICO GIOVANNI N. IL 12/03/1961
SCHIAVONE CESIRA N. IL 27/09/1960
avverso il decreto n. 169/2013 CORTE APPELLO di NAPOLI, del
06/03/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACpM0 ROCCHI;
lette/sife le conclusioni del PG Dott.1P-SJI L\\

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Data Udienza: 07/01/2016

RITENUTO IN FATTO

1. Con il decreto indicato in epigrafe, la Corte di appello di Napoli revocava
la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno
imposta a Pandico Giovanni con decreto del 16/4/2013; revocava, altresì, il
sequestro di prevenzione e la confisca concernente due libretti postali intestati a
Maria Pandico e a Schiavone Cesira e confermava nel resto il decreto del
Tribunale di Napoli.

individuali, saldi di conto corrente, fabbricati, automobili, polizze assicurative e
altri libretti postali: tutti beni intestati a Pandico Giovanni, da solo o in
comproprietà con la moglie Schiavone Cesira nonché, con riferimento a 500
azioni della Eurotrading S.p.A., a Pandico Giuseppina.

L’atto di appello segnalava l’assoluzione di Pandico Giovanni dal delitto di
partecipazione ad associazione mafiosa e sosteneva che gli acquisti dei beni
erano stati effettuati con i redditi leciti dei coniugi Pandico – Schiavone, in buona
parte dichiarati, in altra parte percepiti “a nero” dal primo in qualità di geometra.
Gli appellanti ricostruivano la provenienza del denaro utilizzato per l’acquisto
di un immobile sito in Liveri, per buona parte ottenuto con un’apertura di credito
presso una finanziaria e due prestiti bancari nonché con un contributo regionale;
avanzavano ulteriori specifiche considerazioni per i restanti beni confiscati.

La Corte territoriale osservava che la difesa di Pandico non aveva contestato
la valutazione del Tribunale della perdurante operatività del clan Russo; rilevava
che il giudice della prevenzione deve sì, prendere atto, dell’intervenuta
assoluzione dal reato associativo, ma può far derivare dai fatti acquisiti nel
processo penale indizi che militino a favore della sussistenza della pericolosità
del soggetto; riteneva che dagli atti del processo emergesse la pericolosità di
Pandico, che aveva avuto un ruolo in una vicenda estorsiva facente capo al clan
Russo e che traeva profitto dalle estorsioni perpetrate dal clan presso i cantieri:
Pandico aveva rapporti economici risalenti con il clan, dal principio degli anni ’90
fino al 2007.
La Corte riteneva che, all’epoca del decreto emesso dal Tribunale (2013)
sussistesse l’attualità della pericolosità del soggetto, ma che essa fosse venuta
meno successivamente, con conseguente revoca

ex nunc della misura di

prevenzione personale.
Con riferimento alla misura di prevenzione patrimoniale, la Corte osservava
che Pandico Giuseppina non aveva presentato appello e che Pandico Giovanni
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Tale decreto aveva disposto la confisca di quote sociali, azioni, ditte

non aveva impugnato la confisca delle azioni della Eurotrading S.p.A..
Secondo la Corte, i ricorrenti non avevano provato, nemmeno fornendo un
principio di prova, di avere percepito ulteriori redditi “in nero” in aggiunta a quelli
oggetto di denuncia; cosicché i coniugi Pandico e Schiavone non erano riusciti a
provare la liceità del capitale di lire 18.000.000 utilizzato per l’acquisto nel 1994
dell’immobile sito in Liveri. In effetti, il reddito dichiarato era a malapena
sufficiente per l’ordinario sostentamento del nucleo familiare ed, inoltre,
l’acquisto era avvenuto in un periodo in cui Pandico era in affari con Russo

era stato erogato successivamente all’acquisto e, quindi, non poteva essere stato
utilizzato per esso.
Gli acquisti posti in essere successivamente non trovavano giustificazione
nei redditi della coppia: era vero che, dal 1995 al 1999, Pandico aveva stipulato
in rapida successione tre contratti di mutuo, ma i mutui successivi avevano lo
scopo di estinguere quello immediatamente precedente, cosicché le somme
ottenute non potevano essere addizionate. La Corte sottolineava che, subito
dopo l’acquisto dell’immobile di Liveri, a partire dal 1995 la famiglia aveva
assunto un onere pari a lire 1.000.000 mensili nei confronti di una finanziaria di
durata quasi decennale: impegno assunto in un anno in cui Pandico aveva
dichiarato perdite e la moglie un reddito minimo. Nonostante questo impegno
gravoso, Pandico aveva fondato un’agenzia immobiliare e acquistato azioni a
nome della figlia Giuseppina; successivamente aveva anche acquistato una quota
di una società esercente attività di ristorazione.
In definitiva, secondo la Corte, tutti gli investimenti effettuati nel periodo
1994 – 2006 non erano frutto di redditi lecitamente prodotti, in quanto eccessivi
e sproporzionati rispetto alle entrate ufficiali e realizzatisi nel periodo in cui
Pandico aveva intrecci finanziari con il clan Russo.

2. Ricorre per cassazione il difensore di Pandico Giovanni e Schiavone
Cesira, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione.

Il ricorrente argomenta in ordine ai rapporti tra dibattimento penale (nel
quale Pandico Giovanni era stato assolto da tutte le imputazioni) e giudizio di
prevenzione e sottolinea che il giudice della prevenzione aveva recuperato
quattro elementi probatori emersi nel dibattimento, che non avevano ottenuto
alcun riscontro, giungendo tuttavia ad affermare l’esistenza di un rapporto
privilegiato intrattenuto negli anni tra Pandico e i promotori del clan Russo.
In particolare, la Corte, in sede di prevenzione, aveva ritenuto accertato che
Pandico si fosse prestato a svolgere il ruolo di intermediario nella materiale

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Giovanni. Il contributo erogato dalla Regione Campania, pari a lire 9.296.000,

ricezione del “pizzo” tra vittime ed estorsori, mentre, sul punto, il Giudice del
dibattimento aveva ritenuto non attendibili le persone offese.
Analogamente, il racconto del collaboratore di giustizia D’Avanzo su una
estorsione risalente al 1992 non era stato ritenuto attendibile dalla Corte
dibattimentale e, soprattutto, il giudice del dibattimento aveva escluso che
l’episodio concernesse con certezza un’estorsione, poiché mancava la prova che
Pandico ricevesse un prezzo per conto della lavanderia di Russo Carmine
superiore a quelli di mercato.

qualificare come illeciti i rapporti tra Pandico e i fratelli Russo nel settore del
cemento, relativi agli anni ’80; infine la conversazione ambientale non
permetteva di creare un fumus di appartenenza o vicinanza mafiosa, atteso che
l’indagine penale non aveva consentito di individuare una sola operazione
finanziaria e/o immobiliare riconducibile a membri del clan Russo in cui Pandico
Giovanni avesse fatto da intermediario.
Di conseguenza, doveva essere censurata la sintesi della motivazione del
decreto nella parte in cui addebitava al Pandico un rapporto di colpevole
cointeressenza economica con il clan Russo intercorso tra i primi anni ’90 e il
2007. In effetti, nel 1992 Pandico aveva brevemente lavorato come dipendente
nella lavanderia di Russo Carmine ma, fino al 2003, non vi era traccia della sua
presenza.
Il Giudice della prevenzione aveva addirittura addebitato al ricorrente un
ruolo apicale nemmeno contestato nel processo.
In definitiva, alla data della decisione di primo grado (2012) non
sussistevano elementi per ritenere Pandico soggetto socialmente pericoloso.
Il ricorrente conclude per l’annullamento del decreto e per la revoca della
misura di prevenzione personale con effetto ex tunc, con conseguente revoca
dell’obbligo di versamento della cauzione e annullamento della conferma delle
statuizioni della confisca.

Il ricorrente contesta, inoltre, l’affermazione del decreto secondo cui i redditi
ulteriori dei due coniugi non erano stati dimostrati: piuttosto, nell’atto di appello
si era lamentata la mancata valutazione della percezione della somma di lire
14.000.000 da parte della Schiavone a titolo di indennità di maternità, negli anni
1982 e 1985, e della proposta di accertamento con adesione avanzata nell’anno
1988.
Con riferimento all’acquisto della casa di Liveri (1992), il ricorrente
sottolinea che i coniugi non avevano mai sostenuto che il “buono casa” erogato
dalla Regione fosse stato utilizzato per l’acquisto: il denaro era stato impiegato

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Ancora, i collaboratori di giustizia D’Avino non avevano permesso di

per la ristrutturazione dell’immobile.
La Corte aveva sottolineato genericamente che l’anno di acquisto coincideva
con i rapporti economici con Russo Carmine: ma non aveva tenuto conto dei
redditi pregressi, dichiarati o meno, percepiti da entrambi i coniugi negli anni
’80. In definitiva, mancava del tutto la prova che l’acquisto fosse stato finanziato
con il reimpiego di capitale illecito, mentre la Corte non specificava nemmeno
quale fosse la somma necessaria ai due coniugi per il mantenimento del nucleo
familiare.

derivavano da guadagni illeciti, in quanto discendenti da un iniziale accumulo di
capitale illecito: la confisca avrebbe potuto essere disposta solo in presenza di
prova – invece insussistente – che gli atti successivi alla compravendita del 1994
fossero avvenuti attraverso il reimpiego di proventi da attività illecita.
Il ricorrente conclude per l’annullamento del decreto impugnato.

3. Il Procuratore Generale, nella requisitoria scritta, chiede che il ricorso sia
dichiarato inammissibile.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile.

1. Si deve ricordare che, ai sensi degli artt. 10 comma 3 e 27 comma 2 D.
L.vo 159 del 2011 (e, in precedenza, ai sensi degli artt. 4 legge 1423 del 1956 e
3 ter legge 575 del 1965), avverso il decreto della Corte d’appello il ricorso per
cassazione è ammesso solo per violazione di legge, regime che ha superato il
vaglio di costituzionalità (Corte Cost. sent. n. 106 del 2015).

Il regime è stato riaffermato dalle S.U. di questa Corte, che hanno statuito
che nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso
soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre
1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3 ter, secondo comma, legge 31 maggio
1965, n. 575; ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa
dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta
di cui all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare
con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con
decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma del predetto art.
4 legge n.1423 del 56, il caso di motivazione inesistente o meramente
apparente. (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014 – dep. 29/07/2014, Repaci e altri,

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Altrettanto illogica era l’affermazione secondo cui anche i successivi acquisti

Rv. 260246)

2. Poiché il ricorso è proposto sia per violazione di legge che per vizio di
motivazione, occorre verificare quali argomentazioni siano riconducibili al primo
motivo e quali al secondo.
In realtà – non essendo stata dedotta l’assenza di motivazione (del resto
improponibile, attesa l’ampiezza delle argomentazioni svolte dalla Corte
territoriale, che ha ampiamente valutato i motivi di appello) – l’unica censura

quello di prevenzione.

La Corte territoriale ha richiamato la giurisprudenza costante di questa Corte
secondo cui ai fini della formulazione del giudizio di pericolosità, funzionale
all’adozione di misure di prevenzione, è legittimo avvalersi di elementi di prova
e/o indiziari tratti da procedimenti penali, benché non ancora conclusi, e, nel
caso di processi definiti con sentenza irrevocabile, anche indipendentemente
dalla natura delle statuizioni terminali in ordine all’accertamento della penale
responsabilità dell’imputato, sicché anche una sentenza di assoluzione, pur
irrevocabile, non comporta la automatica esclusione della pericolosità sociale
(Sez. 5, n. 32353 del 16/05/2014 – dep. 22/07/2014, Grillone, Rv. 260482; Sez.
6, n. 50946 del 18/09/2014 – dep. 04/12/2014, Catalano, Rv. 261591); in
effetti, il presupposto per l’applicazione della misura patrimoniale non risiede
necessariamente nella condanna per alcuno dei reati associativi indicati dalla
legge 575 del 1965, essendo sufficiente la mera condizione di indiziato di
appartenenza al sodalizio criminale; né assume rilievo la circostanza che il
proposto sia stato assolto dal reato associativo, in quanto per l’autonomia del
procedimento di prevenzione rispetto a quello penale, il giudice chiamato ad
applicare la misura può avvalersi di un complesso quadro di elementi indiziari,
anche attinti dallo stesso procedimento penale conclusosi con l’assoluzione (Sez.
2, n. 2542 del 09/05/2000 – dep. 18/09/2000, Coraglia, Rv. 217801).

Tuttavia il ricorso è inammissibile anche sotto questo profilo.
Lo dimostra la sua impostazione del tema: il ricorrente ammette che “un
conto è l’accertamento della responsabilità penale … mentre ben altro è il
percorso logico che porta a qualificare la responsabilità del soggetto, in funzione
di misure di sicurezza o di prevenzione, poiché nel secondo caso i principi
costituzionali relativi alla libertà personale, alla tipicità, tassatività e
determinatezza delle fattispecie incriminatrici, alla funzione rieducativa della
pena, alla inviolabilità della proprietà privata, devono fare i conti con i principi, a

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rientrante nella violazione di legge riguarda i rapporti tra il processo penale e

loro volta costituzionalmente garantiti, della prevenzione sociale e dell’ordine
pubblico”; quindi accetta il principio dell’autonomia dei due procedimenti così
come enunciato nel decreto impugnato.
Tuttavia, la domanda di fondo che prelude alla trattazione del ricorso è se
“pur nell’autonomia che contraddistingue le due fasi, si può nel procedimento di
prevenzione limitarsi a dedurre e recuperare pedissequamente quegli stessi
elementi che, nel giudizio in ordine alla responsabilità penale dell’imputato,
abbiano dato una chiave di lettura negativa rispetto all’ipotesi d’accusa, ovvero

prepotentemente il diverso vizio, quello di motivazione che, infatti, viene
esplicitamente formulato (“quando è che l’autonomia valutativa sfocia in giudizio
arbitrario, ponendosi in contrasto con í precetti di cui alle lett. b) ed e) dell’art.
606 cod. proc. pen.?”) e successivamente applicato a ciascuno dei quattro
elementi probatori che il giudice della prevenzione avrebbe tratto dagli atti del
processo di cognizione.

Infatti: il giudice della prevenzione avrebbe ritenuto attendibile Iesu
Giuseppe e Felice che, invece (quanto al contributo di Pandico) il giudice della
cognizione avrebbe ritenuto inattendibili; analogamente quanto a D’Avanzo con
riferimento alle estorsioni commesse per conto della lavanderia industriale di
Russo Carmine; le dichiarazioni del collaboratore D’Avino sarebbero state
utilizzate per provare fatti che esse non dimostravano, mentre l’intercettazione
ambientale era insufficiente a fondare un fumus di appartenenza o vicinanza
mafiosa.
Come si vede, si tratta di censure concernenti il travisamento della prova o
la manifesta illogicità della motivazione, in nessun modo inquadrabili nella
violazione di legge.

Che ad essere dedotto sia un vizio della motivazione si ricava ancora più
chiaramente dalle considerazioni successive, relative alla valutazione sintetica
operata dalla Corte, che avrebbe omesso di confrontarsi con un dato processuale
(un vuoto temporale tra il 1992 e il 2003 nei rapporti tra Pandico e Russo) e
avrebbe stravolto il significato e la portata di un dato probatorio emerso nel
processo penale.

Analoghe considerazioni possono essere fatte con riferimento alle misure
patrimoniali: la Corte non avrebbe tenuto conto delle somme ottenute dalla
Schiavone a titolo di indennità di maternità e avrebbe complessivamente errato
nel ritenere che le somme spese per l’acquisto dell’abitazione di Liveri non

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insufficiente, quando non contraddittoria”: quesito che fa emergere

provenissero dai redditi leciti della coppia, censura ampiamente argomentata con
argomenti di merito, che, quindi, può essere qualificata come denunciante un
travisamento della prova o un’insufficienza (non assenza) della motivazione o
una sua manifesta illogicità.

Il ricorso, in definitiva, è inammissibile in quanto fondato su motivi
concernenti la motivazione del provvedimento impugnato e non su quello di

3. Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in
forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese del procedimento e di ciascuno al versamento della
somma, tale ritenuta congrua, di euro 1.000 (mille) in favore delle Cassa delle
Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso (v. sentenza Corte Cost. n.
186 del 2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno a quello della somma di euro 1.000 alla Cassa delle
ammende.

Così deciso il 7 gennaio 2016

Il Consigliere estensore

violazione di legge.

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