Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6585 del 10/11/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 6585 Anno 2016
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: SANDRINI ENRICO GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SASSI MATTEO N. IL 15/09/1987
ROCCI CARLO N. IL 12/05/1963
avverso la sentenza n. 4587/2012 CORTE APPELLO di MILANO, del
06/02/2015
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/11/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ENRICO GIUSEPPE SANDRINI
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Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
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Data Udienza: 10/11/2015

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 6.02.2015 la Corte d’appello di Milano, in parziale
riforma della sentenza pronunciata il 9.05.2012 dal Tribunale di Como, sezione
distaccata di Menaggio, ha assolto Rocci Carlo dal reato di cui all’art. 496 cod.
pen. ascritto al capo C, rideterminando in giorni 10 di arresto la pena (sospesa)
per la contravvenzione di cui al combinato disposto degli artt. 221 comma 2
T.U.L.P.S. e 259 r.d. n. 635 del 1940 ascritta al capo B, per la quale confermava
la condanna dell’imputato; e ha confermato la condanna inflitta in primo grado a

A alla pena di giorni 20 di arresto e C 200 di ammenda.
I reati contravvenzionali ascritti agli imputati erano quelli, rispettivamente, di
aver eseguito investigazioni private in assenza di licenza (in particolare
pedinando una donna su incarico del marito), quanto al Sassi, e di omessa
comunicazione al prefetto dell’assunzione del Sassi quale proprio collaboratore,
quanto al Rocci, titolare di agenzia investigativa munita di regolare licenza
prefettizia.
2. Entrambi gli imputati hanno proposto, personalmente, ricorso per cassazione
avverso la sentenza d’appello.
2.1. Col proprio ricorso Sassi Matteo, premesso di essere nipote del Rocci e di
essere stato occasionalmente incaricato da quest’ultimo di eseguire il
pedinamento di Longhi Roberta, deduce:
– vizio di motivazione della sentenza impugnata, con riguardo alle dichiarazioni
testimoniali del dirigente della prefettura di Como Venturo Nicola, secondo cui
l’agenzia investigativa adempie l’obbligo di comunicazione previsto dalla legge
nel momento in cui manifesta l’intenzione di volersi avvalere del collaboratore,
così come effettuato dal Rocci mediante segnalazione in data 23.11.2010 del
nominativo del nipote a mezzo del servizio postale alla prefettura e alla questura
di Como;
– vizio della motivazione con riguardo alla contraddizione ravvisabile tra le
imputazioni ascritte al Sassi al capo A e al Rocci al capo B, posto che la
condanna del primo per aver svolto un’attività investigativa senza licenza
postulava l’assoluzione del secondo dall’accusa di aver impiegato il Sassi alle
proprie dipendenze senza eseguire la comunicazione al prefetto, e viceversa;
– violazione di legge, in relazione all’insussistenza dell’esercizio di un’attività
investigativa da parte del ricorrente, che non aveva ricevuto alcun incarico dal
coniuge della persona da pedinare;
– richiesta di applicazione della disciplina sopravvenuta, più favorevole, sulla
particolare tenuità del fatto.
2.2. Rocci Carlo, col proprio ricorso, premesso di essere titolare di autorizzazione

Sassi Matteo per la contravvenzione di cui all’art. 140 T.U.L.P.S. ascritta al capo

prefettizia all’esercizio di attività di investigazioni private dal 20.04.1998, di
essere un esperto del settore e di aver regolarmente assunto il 21.10.2010 da
Piras Cristian il mandato investigativo di pedinarne la moglie, deduce di aver
espletato la relativa attività personalmente, incaricando il nipote Sassi Matteo,
già operante nel settore, di un ulteriore pedinamento richiesto dal cliente,
segnalando tempestivamente il 23.11.2010 il nominativo del Sassi alla prefettura
e alla questura di Como a mezzo del servizio postale, tramite lettera spedita con
posta ordinaria.

– vizio della motivazione, con riguardo alle dichiarazioni testimoniali rese dal
dirigente della prefettura di Como Venturo Nicola all’udienza del 9.05.2012,
secondo cui l’agenzia investigativa adempie l’obbligo di comunicazione previsto
dalla legge nel momento in cui manifesta l’intenzione di volersi avvalere del
collaboratore, che l’agenzia non è legittimata a impiegare soltanto se la
prefettura comunichi l’esistenza di una situazione ostativa;
– violazione di legge, con riguardo all’inesistenza di una previsione normativa sui
tempi di comunicazione al prefetto del nominativo dei collaboratori, con
conseguente irrilevanza penale di un’eventuale comunicazione tardiva, non
avente natura recettizia;
– richiesta di applicazione della norma sopravvenuta, più favorevole, sulla
particolare tenuità del fatto, deducendo di essere incensurato.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il secondo motivo del ricorso di Sassi Matteo è fondato, alla stregua della
stessa ricostruzione e rappresentazione dei fatti offerta dalle sentenze di merito,
e

il suo accoglimento comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza

impugnata perché il fatto ascritto all’imputato non sussiste, con conseguente
assorbimento delle altre ragioni di doglianza del ricorrente.
1.1. E’ la stessa sentenza impugnata a considerare come “dato acquisito”
(pagina 4 della motivazione) che il Sassi ha svolto l’attività investigativa
consistita nel pedinamento della moglie del Piras non in proprio, ma quale
collaboratore alle dipendenze di Rocci Carlo, titolare di licenza prefettizia allo
svolgimento di investigazioni private in qualità di titolare dell’agenzia
“Investigate”, tanto che al Rocci è stata contestata la violazione – sanzionata
penalmente dall’art. 221 comma 2 del T.U.L.P.S. – dell’art. 259 r.d. n. 635 del
1940, consistita nell’omessa comunicazione al prefetto dell’assunzione del Sassi
quale proprio collaboratore, e che è stata conformemente ritenuta dalle sentenze
di primo e di secondo grado.
La condotta realizzata, in fatto, dal Sassi non è dunque riconducibile alla
violazione – a lui contestata – dell’art. 134 T.U.L.P.S., sanzionata dal successivo

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In particolare, il Rocci articola tre motivi di doglianza, coi quali lamenta:

art. 140, proprio perché l’attività consistita nel pedinannento di Longhi Roberta
non è stata svolta dal ricorrente nell’esercizio di una propria, autonoma, attività
investigativa, necessitante della titolarità di apposita licenza in capo al Sassi, ma
è stata invece – pacificamente – esercitata per conto e alle dipendenze del Rocci,
e dunque di un soggetto autorizzato a svolgere l’investigazione, secondo una
condotta il cui unico profilo di illiceità penale discende dall’omissione – imputabile
al Rocci – della tempestiva comunicazione del nominativo del collaboratore
all’autorità prefettizia.

la violazione del combinato disposto degli artt. 134-140 T.U.L.P.S., secondo cui
l’assenza della tempestiva comunicazione al prefetto del rapporto di
collaborazione da parte del Rocci sarebbe idonea a parificare il collaboratore
(Sassi) a un investigatore in proprio, è pertanto intrinsecamente contraddittorio
rispetto al dato accertato in sentenza dell’esistenza del rapporto di collaborazione
subordinata di fatto intercorrente tra i due soggetti, che risulta incompatibile con
l’attribuzione al Sassi dell’esercizio in proprio dell’attività investigativa postulato
dalla norma incriminatrice.
Il reato contestato al Sassi, dunque, non sussiste; né appare configurabile, sulla
base della ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, un concorso
dell’imputato nella violazione dell’obbligo di comunicazione proprio del Rocci.
2. Il ricorso di Rocci Carlo è invece infondato in ogni sua deduzione, e deve
essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali.
2.1. Le sentenze di primo e secondo grado hanno motivato con argomentazioni
coerenti e adeguate, che si saldano tra loro concorrendo a formare un unico ed
organico corpo motivazionale (Sez. 3 n. 44418 del 16/07/2013, Rv. 257595;
Sez. 3 n. 13926 dell’1/12/2011, Rv. 252615) che si sottrae a censura in sede di
legittimità, le ragioni della ritenuta assenza di una preventiva comunicazione al
prefetto, da parte del Rocci, del nominativo del Sassi come persona incaricata di
svolgere attività investigativa alle proprie dipendenze, valorizzando al riguardo la
circostanza che la comunicazione allegata dal ricorrente, recante la data
apparente del 23.11.2010 ma pervenuta alla questura il 29.11.2010 e alla
prefettura solo il 3.12.2010, era stata spedita (col mezzo della posta ordinaria)
in una data certamente successiva al 25.11.2010, e dunque all’esecuzione della
prestazione investigativa, altrimenti essa sarebbe stata tempestivamente esibita
dal Rocci ai carabinieri – che avevano accertato l’attività di pedinamento posta in
essere dal Sassi la sera del 24.11.2010 – in occasione della trasmissione a mezzo
fax (il 25.11.2010) della copia della licenza investigativa di cui il Rocci era
titolare (pagine 2 e 3 della sentenza di primo grado).

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1.2. L’assunto sul quale la Corte territoriale ha fondato la condanna del Sassi per

Le questioni giuridiche prospettate nel ricorso del Rocci sulla natura non
recettizia della comunicazione e sull’omessa previsione di un termine per la sua
esecuzione si rivelano dunque inconferenti, rispetto al punto decisivo del
necessario carattere preventivo che l’invio della comunicazione prevista dall’art.
259 r.d. n. 635 del 1940 deve comunque possedere rispetto al compimento
dell’attività investigativa da parte del – nuovo – dipendente o collaboratore
incaricato dal titolare dell’agenzia, pena la vanificazione della funzione che la
comunicazione stessa è deputata ad assolvere (e che costituisce la ratio

possibilità dell’autorità di pubblica sicurezza di verificare a priori, prima dello
svolgimento dell’attività, i nominativi e i requisiti dei soggetti incaricati di
un’attività comportante significative intromissioni nella vita privata delle persone
come quella di investigarne le abitudini, i movimenti e le frequentazioni.
Proprio la risalenza della titolarità della licenza e l’esperienza professionale
acquisita nel settore, allegate dal Rocci nel ricorso, convalidano l’inescusabilità
dell’inadempimento dell’obbligo preventivo di eseguire la comunicazione e di
assicurarsi che la stessa fosse andata a buon fine – prima di avvalersi della
collaborazione del Sassi – da parte dell’imputato, punita a titolo di colpa in
relazione alla natura contravvenzionale e alla struttura omissiva del reato, così
da escludere la sussistenza dei vizi di legittimità della condanna pronunciata per
il capo B denunciati nei primi due motivi di ricorso.
2.2. Infondato è anche il terzo motivo di doglianza del Rocci, che deduce la
ricorrenza della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto,
introdotta nel codice penale (art. 131-bis) dal D.Lgs. n. 28 del 16 marzo 2015.
Premesso che la sopravvenienza della novella normativa, rispetto alla pronuncia
(in data 6.02.2015) della sentenza impugnata, è stata ritenuta da questa Corte
non preclusiva della sua applicazione ai procedimenti pendenti in sede di
legittimità al momento della sua entrata in vigore, trattandosi di

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superveniens di natura sostanziale che può essere rilevato e applicato d’ufficio ai
sensi dell’art. 609 comma 2 cod.proc.pen. (Sez. 3 n. 31932 del 2/07/2015, Rv.
264449; Sez. 4 n. 22381 del 17/04/2015, Rv. 263496), va peraltro precisato che
la relativa prospettazione non implica necessariamente l’annullamento – con
rinvio al giudice di merito – della sentenza gravata, dovendo questa Corte
comunque procedere a vagliare, nei limiti consentiti dallo scrutinio di legittimità,
la ricorrenza delle condizioni per l’applicabilità dell’istituto, alla stregua delle
emergenze processuali quali risultanti dalla motivazione della sentenza
impugnata (Sez. 3 n. 21474 del 22/04/2015, Rv. 263693) e delle valutazioni in
essa compiute anche in punto dosimetria della pena.
Nel caso di specie, assume rilievo dirimente, al fine di escludere i presupposti per
4

dell’incriminazione della relativa omissione), che è quella di assicurare la

la riconoscibilità della causa di non punibilità, la circostanza che la Corte di
merito, in presenza di una contravvenzione punita, ai sensi dell’art. 221 comma
2 del T.U.L.P.S., con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, ha ritenuto
di irrogare la pena detentiva, per giunta in misura superiore al minimo edittale,
in tal modo esprimendo un giudizio di disvalore del fatto incompatibile con la sua
particolare tenuità (Sez. 3 n. 24358 del 14/05/2015, Rv. 264109).

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Sassi Matteo perché

delle spese processuali.
Così deciso il 10/11/2015

il fatto non sussiste; rigetta il ricorso di Rocci Carlo che condanna al pagamento

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