Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6519 del 27/11/2012


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 6519 Anno 2013
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto da Marchetta Nunzio, nato a Canosa di Puglia il
15.1.1961;
avverso la sentenza emessa il 14 dicembre 2011 dalla corte d’appello di
Bari;
udita nella pubblica udienza del 27 novembre 2012 la relazione fatta dal
Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Mario Fraticelli, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore avv. Michelangelo Iurlaro;
Svolgimento del processo
Con sentenza 15.2.2011, il Gup del tribunale di Trani dichiarò Marchetta
Nunzio colpevole del reato di cui all’art. 73, comma 1, d.p.R. 309 del 1990, per
avere illegittimamente coltivato una piantagione di piante di marijuana e lo
condannò alla pena di anni 6 e mesi 8 di reclusione ed E 30.000,00 di multa, oltre pene accessorie.
L’imputato propose appello. All’udienza in camera di consiglio dinanzi alla corte d’appello fu depositata la rinuncia dell’imputato ai motivi di appello diversi dal trattamento sanzionatorio.
La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, concesse le attenuanti generiche equivalenti alla recidiva, e ridusse la pena ad anni 4 di reclusione ed E
18.000,00 di multa.
L’imputato propone personalmente ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione degli artt. 599, comma 2, 127 e 486 cod. proc. pen. Osserva
che all’udienza del 5.12.2011 il difensore produsse certificato medico attestante
l’impedimento dell’imputato (detenuto agli arresti domiciliari) a comparire per
depressione da trattamento farrnacologico. Alla successiva udienza del
14.12.2011 i difensori fecero rilevare che il Marchetta non era stato tradotto nonostante ne avesse fatto richiesta. La corte d’appello però dispose la trattazione
invocando l’art. 599 cod. proc. pen. Ciò ha determinato la violazione del diritto
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Data Udienza: 27/11/2012

di difesa e la nullità del giudizio in quanto egli aveva chiesto di essere tradotto
intendendo essere presente in udienza.
2) mancanza o manifesta illogicità della motivazione sulla sua responsabilità stante le numerose incongruenze della ricostruzione dei fatti operata dai
giudici del merito.
3) mancata assunzione di prove decisive in riferimento alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria ex art. 603 cod. proc. pen.
Motivi della decisione
In applicazione dell’art. 599 cod. proc. pen., nella giurisprudenza di questa
Corte è stato affermato il principio che «Nel giudizio camerale d’appello l’imputato, detenuto o comunque soggetto a misure limitative della libertà personale,
ha diritto di richiedere al giudice competente l’autorizzazione a recarsi in udienza o di essere ivi accompagnato o tradotto e, in difetto di quest’ultima o in caso
di rigetto della medesima da parte del giudice competente, a fronte della tempestiva richiesta dell’imputato di presenziarvi, v’è l’obbligo del giudice d’appello
procedente, a pena di nullità assoluta, di disporne la traduzione, essendo inibita
la celebrazione del giudizio in sua assenza» (Sez. Un., 24.6.2010, n. 35399, F.,
m. 247837).
Nella specie, dall’esame degli atti (che questa Corte ha potuto compiere
trattandosi della denunzia di vizio procedurale), non risulta (come del resto fatto rilevare nel verbale di appello) che l’imputato abbia chiesto di essere tradotto
per l’udienza del 14.12.2011. Nemmeno risulta (né è stato dedotto con il ricorso) che vi fossero elementi concludenti da cui desumere una inequivoca manifestazione di volontà dell’imputato di comparire all’udienza camerale (cfr. Sez.
Un., 27.11.2011, n. 4694/12, Casani, m. 251272).
La corte d’appello non aveva pertanto alcun obbligo di rinviare ulteriormente l’udienza camerale. Ne deriva la manifesta infondatezza del primo motiVO.

Il secondo ed il terzo motivo sono inammissibili, in quanto l’imputato in
appello aveva rinunciato a tutti i motivi di impugnazione diversi da quelli relativi al trattamento sanzionatorio. Deve quindi applicarsi il principio secondo cui
«È inammissibile il ricorso per cassazione avverso la decisione del giudice di
appello che, rilevata la rinuncia dell’imputato ai motivi di appello diversi da
quelli relativi alla riduzione di pena, dichiari, in virtù degli art. 589, commi secondo e terzo e 591, comma primo, lett. d) cod. proc. pen., l’inammissibilità sopravvenuta dei motivi oggetto di rinuncia, omettendone l’esame ai fini dell’applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen., considerato che la rinuncia ha effetti
preclusivi sull’intero svolgimento processuale, ivi compreso il giudizio di legittimità. Pertanto, poiché, ex art. 597, comma primo, cod. proc. pen., l’effetto devolutivo dell’impugnazione circoscrive la cognizione del giudice del gravame ai
soli punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti, una volta che
essi costituiscano oggetto di rinuncia, non può il giudice di appello prenderli in
considerazione, né può farlo il giudice di legittimità sulla base di un’ipotetica
implicita revoca di tale rinuncia, stante l’irrevocabilità di tutti i negozi processuali, ancorché unilaterali» (Sez. II, 3.12.2010, n. 3593/11, Izzo, m. 249269).

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In sostanza, il secondo ed il terzo motivo, in quanto rinunciati in appello,
devono ritenersi motivi nuovi, ossia consistenti in censure nuove, non dedotte
con l’atto di appello e che non possono pertanto essere proposte per la prima
volta in questa sede di legittimità.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.
In applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare
in € 1.000,00.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di E 1.000,00 in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 27
novembre 2012.

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