Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 646 del 06/11/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 646 Anno 2014
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: DEMARCHI ALBENGO PAOLO GIOVANNI

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
TUCCIO MASSIMILIANO N. IL 23/03/1972
avverso la sentenza n. 1783/2011 CORTE APPELLO di LECCE, del
12/07/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 06/11/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. PAOLO GIOVANNI DEMARCHI ALBENGO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

Data Udienza: 06/11/2013

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Gioacchino Izzo, ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Per la parte civile è presente l’Avvocato Quarta, la quale conclude
chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso o il rigetto dello stesso.
Per il ricorrente è presente l’Avvocato Lattanzi, il quale chiede
l’accoglimento del ricorso.

1.

Tuccio Massimiliano è imputato dei reati di cui agli articoli 348 e

495 del codice penale per avere esercitato la professione di avvocato
senza essere iscritto nel relativo albo e per essersi qualificato come
avvocato in atti compiuti davanti a giudici ed altri pubblici ufficiali.
2.

La Corte d’appello di Lecce ha confermato la sentenza di primo

grado che aveva ritenuto l’imputato responsabile di entrambi i reati,
unificati dalla continuazione, con condanna alla pena di mesi quattro di
reclusione (previo riconoscimento delle attenuanti generiche e riduzione
per il rito scelto).
3.

Il Tuccio propone ricorso per cassazione per i seguenti motivi:
a. inosservanza ed erronea applicazione dell’articolo 348 del
codice penale. Sotto tale profilo osserva che l’elemento
costitutivo del reato in esame è rappresentato dalla mancanza
dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, non
essendo determinante la mancata iscrizione nell’albo di
categoria, che attiene esclusivamente alle modalità di
esercizio della professione, ma non riguarda l’accesso ad essa.
b. Inosservanza ed erronea applicazione dell’articolo 491 del
codice penale. Sostiene il ricorrente che la spendita del titolo
di avvocato non rientri nell’ambito applicativo dell’articolo 395
del codice penale, atteso che esso trova la sua completa
regolamentazione alla stregua degli articoli 348 e 498 del
codice penale. Nel primo caso, il reato di cui all’articolo 395
sarebbe assorbito nel reato di esercizio abusivo, che implica
anche la spendita del titolo. Ma, anche a ritenere sussistente il
reato di esercizio abusivo di professione forense, sarebbe
contraddittorio un ordinamento che punisse un soggetto che si
arroga un titolo afferente ad una professione che, per altra

1

RITENUTO IN FATTO

norma di legge, si ritiene che egli possa legittimamente
esercitare.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato. Quanto al primo profilo di ricorso, la
giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso di ritenere che

condotta di chi, conseguita l’abilitazione statale, eserciti l’attività
professionale prima di aver ottenuto l’iscrizione all’albo professionale
(cfr. Sez. 6, n. 27440 del 19/01/2011, Sgambati, Rv. 250531). Tale
interpretazione ha ricevuto recentemente l’avallo delle sezioni unite
(v. Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011, Cani, Rv. 251819: “…La norma
incriminatrice dell’art. 348 c.p., che punisce chi “abusivamente
esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale
abilitazione dello Stato”, trova la propria ratio nella necessità di
tutelare l’interesse generale, di pertinenza della pubblica
amministrazione, a che determinate professioni, richiedenti
particolari requisiti di probità e competenza tecnica, vengano
esercitate soltanto da chi, avendo conseguito una speciale
abilitazione amministrativa, risulti in possesso delle qualità morali e
culturali richieste dalla legge (in tal senso, testualmente, Sez. 6, n.
1207 del 15/11/1982, dep. 1985, Rossi, Rv. 167698). Il titolare
dell’interesse protetto è, quindi, soltanto lo Stato, (…) Dalla
ricognizione delle normative che prevedono e regolano le professioni
soggette a speciale abilitazione dello Stato emerge, in via generale,
che il conseguimento di tale titolo, da un lato, presuppone il possesso
di altri pregressi titoli e, dall’altro, costituisce a sua volta il
presupposto (principale ma non esclusivo) per la iscrizione in appositi
albi (relativi ai laureati) o elenchi (diplomati), tenuti dai rispettivi
ordini e collegi professionali (enti pubblici di autogoverno delle
rispettive categorie, a carattere associativo e ad appartenenza
necessaria): iscrizione che è configurata essa stessa come condizione
per l’esercizio della professione. La “abusività” prevista dalla norma
penale viene conseguentemente riconnessa, in pratica, alla
mancanza della detta iscrizione”.
2. D’altronde, se l’iscrizione all’albo non fosse requisito essenziale per
l’esercizio della professione legale, non configurerebbe il reato de quo

2

integra il delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato la

la condotta di colui che continui ad esercitare la professione
nonostante la intervenuta sospensione o radiazione dall’albo; ma
anche tale interpretazione, oltre che scarsamente giustificabile sotto
il profilo logico e normativo, si porrebbe ancora una volta in contrasto
con i pregressi orientamenti di questa Corte (v. Sez. 6, n. 33095 del
04/07/2003, Longo, Rv. 226528).
3. La pronuncia della Corte costituzionale, invocata dal ricorrente, non è
determinante non solo perché non spetta alla Consulta

affermava affatto un principio in contrasto con quello dichiarato dalla
Corte di legittimità; nella citata sentenza numero 199-1993, la Corte
si limitava ad affermare, sotto il profilo strutturale, che “..ciò che la
norma penale individua come elemento necessario e sufficiente per
l’integrazione della fattispecie è l’assenza di quella speciale
abilitazione che lo Stato richiede per l’esercizio della professione,
mentre il contenuto ed i limiti propri di ciascuna abilitazione, non
rifluiscono – come ritiene il giudice a quo – all’interno della struttura
del fatto tipico, ma costituiscono null’altro che un presupposto di
fatto che il giudice è chiamato a valutare caso per caso” (in nessun
passo della sentenza si diceva che la mancata iscrizione all’albo era
irrilevante ai fini del reato de quo).
4. Anche la doglianza relativa al ritenuto concorso dei reati di esercizio
abusivo e di spendita del titolo è infondata; questa Corte ha già
avuto modo di affermare – senza che risultino pronunce contrarie che “L’esercizio abusivo della professione legale, ancorché riferito allo
svolgimento dell’attività riservata al professionista iscritto nell’albo
degli avvocati, non implica necessariamente la spendita al cospetto
del giudice o di altro pubblico ufficiale della qualità indebitamente
assunta, sicché il reato si perfeziona per il solo fatto che l’agente curi
pratiche legali dei clienti o predisponga ricorsi anche senza comparire
in udienza qualificandosi come avvocato; ne deriva che quando
quest’ultima condotta si accompagna alla prima, viene leso anche il
bene giuridico della fede pubblica tutelato dall’art. 495 cod. pen. e si
configura il concorso dei detti reati” (Sez. 2, n. 18898 del
06/04/2004, Santopaolo, Rv. 229223).
5. Poiché questo collegio non intende discostarsi dai citati precedenti,
ne consegue che il ricorso deve essere rigettato. Ai sensi dell’art. 616
c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo

3

l’interpretazione delle norme di diritto, ma soprattutto perché non

ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del
procedimento, nonché alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile,
che si liquidano come da dispositivo.

p.q.m.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali, nonché alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile,

Così deciso il 6 novembre 2013

Il Consiglie

ensore

Il Presidente

che liquida in complessivi C 1.800,00, oltre accessori secondo legge.

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