Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6405 del 12/11/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 6405 Anno 2016
Presidente: ROTUNDO VINCENZO
Relatore: MOGINI STEFANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto nell’interesse di
MINZOLINI AUGUSTO, nato il 3.8.1959
avverso la sentenza n. 7436/2014 pronunciata dalla Corte d’Appello di Roma il 27.10.2014;
visti gli atti, l’ordinanza impugnata e il ricorso;
udita la relazione del consigliere Stefano Mogini;
udite le conclusioni del sostituto procuratore generale Paolo Canevelli, che ha chiesto il
rigetto del ricorso;
uditi l’Avv. Maurizio Bellacosa per la parte civile RAI Radio-Televisione Italiana S.p.a., che ha
chiesto l’inammissibilità o comunque il rigetto del ricorso, con conferma delle statuizioni civili
e la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di costituzione e intervento sostenute
nel grado, nonché gli Avvocati Franco Coppi e Fabrizio Siggia, difensori di fiducia del
ricorrente, che hanno insistito per l’accoglimento del ricorso e l’annullamento dell’impugnata
sentenza.

Ritenuto in fatto

1. Augusto Minzolini ricorre per mezzo dei suoi difensori di fiducia avverso la sentenza in
epigrafe, con la quale la Corte d’Appello di Roma ha, in riforma di quella di primo grado di

Data Udienza: 12/11/2015

assoluzione pronunciata dal Tribunale di Roma il 14.2.2013 e appellata dal pubblico ministero e
dalla parte civile R.A.I. Radiotelevisione Italiana S.p.a., dichiarato il ricorrente colpevole del
delitto di peculato continuato a lui ascritto e, a lui concesse le attenuanti generiche, lo ha
condannato alla pena di anni due e mesi sei di reclusione, con l’interdizione dai pubblici uffici
per la durata della pena principale, e al risarcimento dei danni in favore della suddetta parte
civile, da liquidarsi in separato giudizio.
Minzolini è accusato di essersi appropriato, nel periodo dal luglio 2009 al novembre 2010, della
somma complessiva di Euro 65.341,33 mediante l’uso indebito della carta di credito aziendale
di cui aveva la disponibilità quale direttore del TG1 RAI – e quindi quale incaricato di pubblico

ristoranti con ignoti ospiti) e comunque non inerenti al servizio.
La sentenza di primo grado aveva mandato assolto il ricorrente perché il fatto non costituisce
reato. In motivazione il Tribunale esponeva che in astratto era giuridicamente configurabile il
delitto di peculato ascritto a Minzolini in quanto la RAI era da ascriversi al novero degli enti
pubblici. Riteneva tuttavia che nel caso in esame mancasse ad integrare l’elemento soggettivo
del reato la consapevolezza di Minzolini di appropriarsi di denaro pubblico, considerato che era
stata proprio la RAI a mettergli a disposizione la carta di credito aziendale con l’unica
informazione che non doveva superare il massimale mensile di 5.200. Rilevava che Minzolini
aveva subito restituito le somme relative alle spese non sufficientemente motivate e che
nessun accertamento era stato disposto dal pubblico ministero per individuare le persone che
erano state ospiti del ricorrente ai pasti in questione. Riteneva quindi verosimile che nel
Minzolini si fosse creata la convinzione che il massimale della carta di credito fosse adeguato
alla funzione svolta e potesse essere utilizzato senza rendere conto, come invece imponevano
le circolari aziendali applicabili, dell’identità degli invitati e della pertinenza delle spese (tutte
relative a pasti consumati al ristorante) alle finalità di rappresentanza per le quali la carta di
credito era stata a lui attribuita.
In accoglimento dell’appello proposto dal Procuratore della Repubblica di Roma e dalla parte
civile RAI, la Corte territoriale riteneva che Minzolini si era appropriato di risorse pubbliche con
la volontaria e reiterata violazione delle regole aziendali concernenti la documentazione delle
spese di rappresentanza e con la piena consapevolezza della natura privata e personale delle
spese effettuate con la carta di credito aziendale. Motivava il diverso apprezzamento del
materiale probatorio rispetto al primo grado, evidenziando vizi logici e inadeguata valutazione
di prove, che riteneva avessero minato la permanente sostenibilità del primo giudizio e reso la
ricostruzione dei fatti dello stesso giudice di appello l’unica fondata e razionalmente
giustificabile al di là di ogni ragionevole dubbio.

2. Minzolini censura la sentenza impugnata deducendo:
2.1. Vizi di motivazione in relazione agli artt. 533, comma 1, e 192 c.p.p., per avere la
Corte territoriale pronunciato sentenza di condanna, ribaltando la pronuncia assolutoria del
Tribunale in violazione del principio che impone in tal caso l’accertamento della colpevolezza,

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servizio – in particolare utilizzando la carta per spese personali (relative a pasti consumati in

sotto il profilo oggettivo e soggettivo, al di la di ogni ragionevole dubbio e con motivazione
“rafforzata”, pienamente dimostrativa dell’incompletezza o dell’incoerenza della prima
decisione.
In particolare, il ricorrente avrebbe con coerenza sostenuto nel corso dell’intero procedimento
di avere ricevuto e utilizzato la carta di credito aziendale unicamente per spese di
rappresentanza e mai per scopi personali e di avere, però, frainteso la regolamentazione
sottostante al suo utilizzo. La Corte territoriale sarebbe incorsa al proposito nel travisamento di
plurimi elementi probatori. In primo luogo, avrebbe frainteso le dichiarazioni rese dal ricorrente
nel corso delle indagini preliminari. Contrariamente agli assunti del giudice d’appello, infatti,

rappresentasse un beneficio compensativo collegato alla clausola di esclusiva che
contrattualmente gli impediva di continuare la pregressa collaborazione con il settimanale
Panorama. Pur avendo egli posto la concessione della carta in relazione con la cessazione della
sua collaborazione con Panorama ed usato impropriamente i termini “compensazione” e
“benefit compensativo”, mai avrebbe detto di avere inteso l’attribuzione della carta come una
voce aggiuntiva della sua retribuzione, poiché, se così fosse stato, non avrebbe fatto
riferimento – come invece ha fatto sin dalla fase delle indagini preliminari – alle spese di
rappresentanza, ma avrebbe espresso la convinzione di poter utilizzare quelle somme a titolo
personale, senza alcuna necessità di inviare le fatture e ricevute fiscali agli uffici della RAI
preposti al relativo controllo. In altri termini, il ricorrente ha sempre affermato di aver
considerato la carta uno strumento di lavoro da utilizzare per le spese di rappresentanza, sia
pure con ampio margine di discrezionalità e con modalità agevolate rispetto a quelle ordinarie.
Insussistente sarebbe pertanto il presunto cambiamento di linea difensiva, ritenuto dalla Corte
territoriale dimostrativo dell’assenza di buona fede da parte del ricorrente e concludente
rispetto all’uso della carta di credito aziendale per spese di carattere personale o comunque
esorbitanti i fini di rappresentanza per i quali quello strumento era stato concesso.
In effetti, l’unica irregolarità addebitabile al ricorrente sarebbe stata la mancata indicazione
nelle fatture e ricevute fiscali dei pasti da lui consumati coi suoi ospiti della dicitura “per ragioni
di riservatezza non si indica il nome del beneficiario”, ciò che era pacificamente permesso, per i
direttori di testata, dalle circolari aziendali regolanti la materia delle spese di rappresentanza e
dalle prassi al riguardo vigenti in RAI (oggetto di travisamento delle prove dichiarative rese in
dibattimento dai testi Mimun e Fico).
L’attribuzione di una carta di credito aziendale al direttore di un telegiornale costituiva del
resto per la RAI una novità assoluta, ciò che spiega l’equivoco interpretativo nel quale
sarebbero incorsi, in perfetta buona fede, non solo il ricorrente, ma anche gli uffici preposti al
controllo. Primo fra questi il direttore generale Masi, il quale in una nota indirizzata al
ricorrente dopo l’emersione dei fatti aveva fatto riferimento alla “mancanza di chiarezza nella
govemance aziendale in materia” generatrice dell’equivoco che aveva indotto Minzolini “a
ritenere la carta di credito – dal tuo punto di vista in perfetta buona fede – come un bene fit
privo di limitazioni se non quella del plafond dell’istituto di credito emittente”.

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egli non avrebbe mai sostenuto che l’attribuzione in suo favore della carta di credito aziendale

La Corte territoriale avrebbe inoltre illogicamente valorizzato, per ritenere il dolo del delitto di
peculato, il fatto che il ricorrente non ricordasse nessuna delle persone che avevano
beneficiato delle spese sostenute con la carta di credito aziendale, poiché si trattava di spese di
importo contenuto (100-150 Euro ciascuna) e numerosissime, sicché doveva ritenersi
comprensibile che, a distanza di tempo, egli potesse non ricordare per ciascuna di esse i propri
commensali.
La sentenza impugnata non avrebbe dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, nemmeno
la natura personale delle spese effettuate dal ricorrente con la carta aziendale. In mancanza di
prova diretta, in quanto il pubblico ministero non ha accertato presso i diversi ristoranti

dell’estraneità di quelle spese ai fini di rappresentanza per i quali l’uso della carta di credito era
stato concesso dall’azienda. A tal fine, di non univoca valenza dimostrativa dovevano
considerarsi gli ulteriori elementi valorizzati nella pronuncia d’appello (il fatto che nel periodo
considerato le spese sostenute dal direttore del TG2 erano state pari a 6.000 Euro, contro i
65.000 addebitati da Minzolini sulla carta aziendale, ai quali dovevano aggiungersi 18.000 Euro
di cui il ricorrente aveva chiesto il rimborso per spese effettuate con la propria carta di credito;
l’utilizzo quasi quotidiano – anche in giorni festivi e in periodi di ferie – della carta aziendale per
Pasti consumati nella maggior parte dei casi da due persone), sicché la colpevolezza del
ricorrente non era stata accertata, né sotto il profilo soggettivo né sotto quello oggettivo, al di
là di ogni ragionevole dubbio.
Trattandosi di una sentenza di condanna pronunciata in sede di appello in riforma di quella di
assoluzione di primo grado sulla base del medesimo materiale probatorio, la motivazione del
provvedimento impugnato non avrebbe pertanto assolto l’onere di dimostrare con rigorosa
analisi critica l’incompletezza o l’incoerenza della prima pronuncia, sia con riferimento alle
prove dichiarative che a quelle documentali, lasciando così ingiustificata la riforma. In
particolare, la decisione del Tribunale aveva attribuito alla carta aziendale la natura di “benefit
compensativo” (di carattere sostanzialmente retributivo), mentre la Corte d’Appello, sulla base
delle medesime testimonianze, ha ritenuto accertata la natura di strumento volto a facilitare la
gestione amministrativa delle spese di rappresentanza, evitando al titolare l’onere di
anticiparne il pagamento e all’azienda quello di curarne il successivo rimborso. Diverse
sarebbero state anche le conclusioni tratte da numerose testimonianze (in particolare da
quella del dott. Masi, direttore generale pro tempore della RAI), che secondo il Tribunale
avrebbero avvalorato l’insorgenza di un equivoco amministrativo, originato e risolto in ambito
aziendale, mentre a giudizio della Corte d’Appello avrebbe smentito la natura della carta come
un benefit privo di limitazioni (diverse dal massimale mensile di spesa consentito dalla banca)
e dimostrato la consapevolezza del ricorrente circa l’indebito utilizzo da lui fatto della carta per
spese personali.
Con tale operazione ermeneutica, avente ad oggetto il medesimo materiale probatorio raccolto
ed esaminato dal primo giudice, la Corte d’Appello avrebbe violato il diritto all’equo processo
quale definito dalla giurisprudenza della Corte E.D.U., che integra il parametro costituzionale

l’identità dei commensali ospiti di Minzolini, non esisterebbe neppure una prova indiretta

espresso dall’art. 117, comma 1, Cost. nella parte in cui impone la conformazione della
legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. La Corte territoriale
avrebbe infatti proceduto ad una riforma in peius della sentenza di assoluzione in primo grado
sulla base di una rivalutazione di testimonianze assunte dinanzi al Tribunale senza procedere
alla nuova audizione dei testimoni, essendo il giudice d’appello tenuto a procedere anche
d’ufficio a tale incombente in assenza di specifica richiesta di parte (ex multis, CEDU, 4.6.2013,
Hani contro Romania).
2.2. Violazione di legge penale o di altre norme giuridiche rilevanti in relazione agli artt.
358 c.p. e 49 D.Lgs. n. 177/2005, per avere la Corte territoriale condannato il ricorrente per il

più recente giurisprudenza delle SU di questa Corte la RAI, anche se fortemente caratterizzata
da peculiari aspetti e tuttora in mano pubblica, resta pur sempre una società per azioni, tanto
più a seguito della L. n. 112 del 2004 e del T.U. n. 177 del 2005.
2.3. Vizi di motivazione in relazione agli artt. 597, comma 5, c.p.p., 62 nn. 4) e 6) e 323
bis c.p., per avere la Corte territoriale omesso di esercitare il potere officioso a lei spettante ai
fini dell’applicazione di circostanze attenuanti, tanto più in un caso, come quello in esame, nel
quale una siffatta richiesta non aveva potuto essere presentata con l’atto d’appello, tenuto
conto che il Tribunale aveva assolto l’imputato e il giudizio di secondo grado era stato
promosso dalle impugnazioni proposte dal p.m. e dalla parte civile. Concedibili sarebbero state
in particolare le attenuanti del danno economico di speciale tenuità, in ragione del
modestissimo valore delle singole appropriazioni e dell’inconsistenza del danno complessivo
ove posto in relazione alla capacità economica della parte offesa RAI e quella speciale di cui
all’art. 323 bis c.p., che con la prima può concorrere riferendosi al fatto di reato nella sua
globalità (condotta, elemento psicologico e evento), nonché, infine, quella della riparazione del
danno prima del giudizio. Minzolini ha infatti proceduto alla restituzione delle somme
contestate, sia attraverso trattenute sulla busta paga che con successivi tre assegni, ed ha
sempre tenuto nei confronti dell’azienda un atteggiamento collaborativo e disponibile al
confronto, finalizzato ad approdare ad una corretta ricostruzione delle spese da lui sostenute,
nell’interesse proprio e della RAI.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato.
1.1. Infondate sono le censure proposte col primo motivo di ricorso. Il Collegio osserva che
la giurisprudenza di questa Corte ha più volte chiarito che per riformare

“in peius” una

sentenza assolutoria, il giudice di appello è obbligato – in base all’art. 6 CEDU, così come
interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo nel caso Dan c/Moldavia alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo quando intende operare un diverso
apprezzamento dell’attendibilità intrinseca della prova orale, ritenuta in primo grado non
attendibile (ex multis, Sez. 6, n. 16566 del 26.2.2013, Caboni e altro, Rv. 254623; Sez. 6, n.

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delitto di peculato sul presupposto erroneo che la RAI sia un ente pubblico, allorché secondo la

8654 dell’11.2.2014, Costa, Rv. 259107; Sez. 5, n. 14040 del 22.1.2014, Dolente, Rv.
260400; Sez. 3, Sentenza n. 45453 del 18/09/2014, Rv. 260867). Non sussiste dunque la
necessità di rinnovare il dibattimento in appello per procedere ad una nuova escussione dei
testimoni sentiti in primo grado quando, come nel caso di specie, la Corte territoriale pervenga
alla riforma della sentenza di assoluzione e all’affermazione della penale responsabilità
dell’imputato sulla base delle stesse deposizioni assunte dal primo giudice e senza effettuarne
una diversa valutazione di attendibilità – conformemente riconosciuta da entrambe le sentenze
– limitandosi ad una loro rilettura in senso idoneo a fornire l’unica ricostruzione possibile dei

La sentenza impugnata rispetta inoltre, contrariamente agli assunti del ricorrente, i parametri
valutativi e motivazionali richiesti alla decisione d’appello che, in mancanza di elementi
probatori sopravvenuti, ribalti quella assolutoria di primo grado.
La sentenza delinea infatti, per quanto si verrà esponendo, le linee portanti del proprio,
alternativo, ragionamento probatorio e confuta specificamente i più rilevanti argomenti della
motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o
incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (SU, n. 33748 del
12/07/2005, Mannino, Rv. 231679).
Ciò vale in primo luogo per la valutazione che la Corte territoriale riserva alle dichiarazioni rese
nel corso del procedimento dallo stesso ricorrente, alla testimonianza Masi e alla nota scritta
da questi indirizzata al Minzolini il 19.3.2011 – le quali vengono tutte congruamente e
logicamente apprezzate alla stregua del loro effettivo tenore e delle ulteriori emergenze
probatorie di carattere documentale e dichiarativo che ne costituiscono riscontro – in ordine
alla natura e alle finalità dell’attribuzione al ricorrente di una carta di credito aziendale. E’
infatti evidente che l’espresso e puntuale nesso inizialmente stabilito dal ricorrente – nel corso
dell’interrogatorio reso nella fase delle indagini preliminari e ritualmente acquisito in
dibattimento in quanto utilizzato per le contestazioni – tra l’attribuzione in suo favore della
carta di credito aziendale e la cessazione da parte sua della collaborazione con Panorama
(dovendo la prima, a dire dello stesso Minzolini, compensare la seconda, ritenuta dal ricorrente
una “condizione che mi era stata imposta e che io consideravo un’ingiustizia”), non può avere
significato diverso da quello logicamente ricavato dalla Corte territoriale: l’avere cioè in un
Primo tempo il ricorrente configurato il rilascio della carta di credito aziendale come un
beneficio compensativo di carattere sostanzialmente retributivo, come tale svincolato da
effettivi oneri di rendicontazione e soggetto ai soli limiti mensili di importo previsti dall’istituto
bancario emittente.
Il provvedimento impugnato confuta in modo del tutto convincente tale assunto, al quale il
Tribunale aveva assegnato un ruolo centrale nel giustificare la ritenuta assenza di dolo in capo
al Minzolini (convinto, secondo il giudice di primo grado, di poter utilizzare la carta di credito
come compenso aggiuntivo pari a 62.400 Euro annui, ritenuto dal percettore importo adeguato
alla prestigiosa funzione svolta e proporzionale allo stipendio annuale di 578.000 Euro che gli
veniva corrisposto). Persuasiva e concludente è infatti la disamina che la Corte territoriale
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fatti alla stregua del complesso delle prove dichiarative e documentali raccolte.

riserva all’individuazione dell’ammontare e della natura dei compensi previsti dal contratto di
lavoro del Minzolini (p. 8 e s.), anche alla luce delle dichiarazioni rese dal Direttore Generale
Masi (e dai testi Vizza, Flussi e Capello) nel corso del suo esame dibattimentale e alle
spiegazioni da questi fornite circa i presupposti fattuali e il tenore della lettera da lui inviata al
ricorrente in data 19.3.2011 (p. 11). In altre parole, la circostanza che il ricorrente abbia
inizialmente posto la concessione della carta di credito aziendale in relazione alla cessazione
della sua collaborazione con Panorama ed abbia parlato di “compensazione” e di “benefit
compensativo” non può essere ritenuto semplicemente, come preteso in ricorso, quale uso di
una terminologia impropria, ma si sostanzia in una vera e propria ricostruzione alternativa del

aziendale libero nei fini e sottratto ai controlli previsti per le spese di rappresentanza.
La sentenza d’appello dimostra in modo ineccepibile la falsità di tale ricostruzione. Ricompone
a tal fine le disposizioni dettate dalle circolari aziendali (l’ultima delle quali risalente al 2010,
quindi successiva al periodo oggetto delle deposizioni Fico E Mimun) che, per le spese di
rappresentanza – regolarmente documentate – sostenute dai direttori di testata giornalistica,
imponevano a questi ultimi, alternativamente, l’indicazione delle ragioni della spesa e dei
relativi beneficiari, ovvero – nel caso in cui il direttore di testata intendesse mantenere
riservato il nome del beneficiario – l’approvazione del Direttore Generale (p. 9).
Rileva quindi la sistematica violazione da parte del ricorrente di tali regole aziendali – a lui
formalmente comunicate e quindi a lui ben note – mediante l’utilizzo pressoché quotidiano
(anche in giorni festivi e durante periodi di vacanza) della carta di credito per la consumazione
di pasti (nella maggior parte dei casi per due persone), senza mai documentare le ragioni di
rappresentanza, senza mai indicare i beneficiari della spesa e, soprattutto, senza mai
richiedere l’approvazione del Direttore Generale prevista per i casi di particolari esigenze di
riservatezza.
Indica quindi ulteriori elementi di fatto – tra questi la lampante sproporzione degli oltre 65.000
Euro spesi dal Minzolini in lussuosi ristoranti, ai quali dovevano essere aggiunti ulteriori 18.000
Euro dei quali lo stesso ricorrente aveva chiesto il rimborso perché da lui anticipati con la
propria carta di credito, rispetto ai 6.000 Euro impegnati nello stesso periodo dal Direttore del
TG2 – che pone a logico e concludente completamento del ragionamento probatorio fin qui
descritto per affermare l’estraneità di tali spese rispetto a finalità di rappresentanza solo
labialmente e implausibilmente affermate dal ricorrente (p. 9 e s.; p. 11). A tale riguardo, la
sentenza in esame si sottrae alle censure del ricorrente anche quando valorizza l’inverosimile e
capziosa affermazione dello stesso Minzolini, secondo la quale, trattandosi di spese
numerosissime, egli ben poteva non ricordare per ciascuna di esse i nomi dei propri
commensali. Tale censura non si confronta infatti con la sentenza impugnata, la quale
attribuisce correttamente valore indiziario al fatto che il ricorrente non fosse in grado di
ricordare (non già tutti, bensì) nessuno dei commensali che erano stati suoi ospiti solo pochi
mesi prima, finanche in occasioni particolari e in qualche modo memorabili, come quella del
suo compleanno.

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M

fatto, proposta dal ricorrente e successivamente fallita, implicante un uso della carta di credito

La Corte d’appello affronta in maniera logica e convincente anche il tema del presunto
equivoco – derivante dal carattere di novità dell’attribuzione di carte di credito ai dirigenti RAI e
da una supposta mancanza di chiarezza delle relative regole aziendali – che avrebbe indotto il
ricorrente a ritenere in buona fede che si trattasse di “un benefit privo di limitazioni se non
quelle del plafond dell’istituto emittente” (così, testualmente, si esprime il Direttore Generale
Masi nella lettera al Minzolini del 19.3.2011). Infatti, a prescindere dalla considerazione che un
tale equivoco sembra essere escluso dallo stesso ricorrente, il quale nega in questa sede come si è visto – di aver mai considerato la concessione della carta di credito aziendale come
un benefit di carattere retributivo, la Corte giustifica ampiamente la preminenza attribuita a

grado, alle precisazioni rese dal Direttore Generale Masi in dibattimento, secondo le quali
quella lettera rappresentava una “conclusione allo stato”, non essendo a quel momento ancora
emersi particolari profili di violazione delle regole aziendali, ma solo alcune mancate
giustificazioni relative a un breve periodo (21 giorni, nei quali erano state rilevate spese non
giustificate per complessivi 2.000-3.000 Euro, riguardanti tutti pasti consumati in Roma) preso
a campione sull’intero periodo (dal luglio 2009 al novembre 2010) in relazione al quale erano
successivamente emerse le spese ingiustificate per oltre 65.000 Euro oggetto di contestazione
(p. 11; p. 13; p. 18; anche in relazione alle conformi dichiarazioni rese dai testi Flussi e
Capello).
Sicché, in conclusione, la sentenza impugnata procede ad un esplicito e puntuale confronto con
la motivazione della decisione di assoluzione e argomenta in modo persuasivo circa la
configurabilità del diverso apprezzamento come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole
dubbio (una sintesi di tali ragioni a p. 19 e s.), in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze
probatorie che hanno minato la permanente sostenibilità del primo giudizio (Sez. 6, n. 8705
del 24/01/2013, Farre e altro, Rv. 254113; Sez. 6, n. 46847 del 10/07/2012, Aimone e altri,
Rv. 253718; Sez. 6, n. 1266 del 10/10/2012, Andrini, Rv. 254024; Sez. 2, n. 11883 del
08/11/2012, Berlingeri, Rv. 254725; Sez. 1, n. 12273 del 05/12/2013, Ciaramella e altro, Rv.
262261).
1.2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso. L’art. 358 cod. proc. pen. definisce
l’incaricato di un pubblico servizio come colui che, a qualunque titolo, presta un servizio
pubblico, a prescindere da qualsiasi rapporto d’impiego con un determinato ente pubblico.
Il legislatore del 1990 (L. 26 agosto 1990, n. 86, art. 18), nel delineare la nozione di incaricato
di pubblico servizio, ha privilegiato il criterio oggettivo-funzionale, utilizzando la locuzione “a
qualunque titolo” ed eliminando ogni riferimento, contenuto invece nel vecchio testo dell’art.
358 c.p.p., al rapporto d’impiego con lo Stato o altro ente pubblico. Non si richiede, quindi, che
l’attività svolta sia direttamente imputabile a un soggetto pubblico, essendo sufficiente che il
servizio, anche se concretamente attuato attraverso organismi privati, realizzi finalità
pubbliche.
Il capoverso dell’art. 358 c.p.p. esplicita il concetto di servizio pubblico, ritenendolo
formalmente omologo alla funzione pubblica di cui al precedente art. 357, ma caratterizzato

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tale riguardo, anche in riferimento al diverso percorso argomentativo della decisione di primo

dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima (poteri deliberativi, autoritativi o certificativi). Il
parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio è dunque identico a quello della
pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola
l’operatività dell’agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità,
con esclusione in ogni caso dall’area pubblicistica delle mansioni di ordine e della prestazione di
opera meramente materiale (tra tante, Sez. 6, n. 39359 del 7.3.2012, Ferrazzoli, Rv. 254337).
Alla luce dei principi esposti, deve ritenersi, avallando sostanzialmente il discorso giustificativo
della sentenza in verifica, che il Direttore di un Telegiornale R.A.I. rivesta la qualità di
incaricato di pubblico servizio, a prescindere dalla natura privata di tale società, in

televisiva svolta dalla R.A.I..
Tale attività si caratterizza infatti per la diretta inerenza al preminente interesse generale ad
una informazione corretta e pluralista, concretandosi in un servizio offerto alla generalità dei
cittadini da un soggetto – la RAI Radio Televisione Italiana S.p.a. – che nonostante la veste di
società per azioni, peraltro partecipata totalitariamente da enti pubblici, è: designato dalla
legge quale concessionaria dell’essenziale servizio pubblico radio-televisivo; sottoposta a
vigilanza da parte di apposita commissione parlamentare; destinataria di un canone avente
natura di imposta, destinato precipuamente, tra l’altro, alla copertura dei costi dell’attività
propria al suddetto servizio pubblico di informazione radio-televisiva (SU, ord. N. 27092 del
22.12.2009, Rv. 610699).
Sicché l’attività in concreto svolta dal ricorrente, di carattere intellettivo e non meramente
esecutivo o d’ordine, pur senza i poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione,
attiene a bisogni di pubblico interesse non aventi carattere industriale o commerciale, il cui
soddisfacimento è perseguito istituzionalmente con capitali pubblici e secondo modalità e
forme determinate da regolamentazione di natura pubblicistica, rientrando così nell’alveo della
prestazione di pubblico servizio, quale definita all’art. 358 cod. pen..
1.3. Deve infine ritenersi infondato anche il terzo motivo di ricorso, poiché non
ricorrono le condizioni di legge per la concessione al ricorrente delle attenuanti da lui invocate.
Il Collegio osserva a tale riguardo che la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4,
ricorre solo quando il danno patrimoniale subito dalla parte offesa come conseguenza diretta e
immediata del reato sia di valore economico pressoché irrilevante (da ultimo, Sez. 6, n. 14040

del 29/01/2015, Rv. 262975; Sez. 2, n. 15576 del 20/12/2012, Rv. 255791).
Pur ribadendosi il principio, più volte affermato in questa Sede, secondo cui, ai fini
dell’applicazione dell’attenuante in esame, la valutazione della speciale tenuità, nel caso di

reato continuato, va effettuata non in relazione all’importo complessivo delle somme
contestate, ma con riguardo al danno patrimoniale cagionato per ogni singolo fatto-reato
(Sez. 6, n. 14040 del 29/01/2015, Rv. 262975; Sez. 6, n. 30154 del 12/06/2007, Rv.

237329; Sez. 3, n. 11035 del 21/10/1993, Rv. 195943), dal tenore della sentenza
impugnata è dato desumere che le singole spese di cui si tratta attengono alla
consumazione di pasti per più persone in ristoranti di lusso e con scelte di vini e cibi dal

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considerazione della indubbia connotazione pubblicistica dell’attività di informazione radio-

prezzo manifestamente eccessivo (p. 10), sicché deve escludersi che il danno patrimoniale
subito dalla persona offesa come conseguenza immediata e diretta delle singole condotte
possa ritenersi pressoché irrilevante. Ad analoga conclusione si perviene del resto sulla
base dell’assunto esplicitato in ricorso, secondo cui ciascun pasto avrebbe comportato una
spesa pari a 100-150 Euro.
Analoghe considerazioni

s’impongono, altresì, in merito alla prospettata configurabilità

dell’attenuante di cui all’art. 323 bis c.p., dovendosi al riguardo considerare gli aspetti legati,
per un verso, alla assai significativa entità delle appropriazioni di denaro riconducibile alla sfera
pubblica, complessivamente eccedenti i 65.000 Euro, e, per altro verso, alla ritenuta gravità

del ricorrente dei reiterati abusi da lui commessi nel suo ruolo apicale. Va pertanto esclusa la
sussistenza dei presupposti di cui all’art. 323 bis c.p., che richiedono che il reato, valutato nella
sua globalità, presenti una gravità di contenuto rilievo (Sez. 6, n. 14825 del 26/02/2014, Rv.
259501).
Il Collegio osserva infine che per l’applicabilità della circostanza attenuante della riparazione
del danno contemplata (anche in forma restitutoria) dall’art. 62 n. 6 cod. pen. è indispensabile
che la riparazione stessa, oltre che volontaria ed integrale, sia anche effettiva.
Ne consegue, in primo luogo, che il risarcimento deve essere effetto di una libera
determinazione e non conseguenza inevitabile di fattori estranei alla volontà dell’autore del
reato (Sez. 2, n. 8083 del 30.05.1973, Rv. 125469). La somma di danaro corrisposta
dall’imputato deve poi riguardare sia il danno patrimoniale – comprensivo di capitale ed
eventuali accessori – che quello non patrimoniale (Sez. 2, n. 9143 del 24/01/2013, Rv.
254880; Sez. 3, n. 26710 del 05/03/2015, Rv. 264023) e deve essere data, o almeno offerta,
alla parte lesa in modo da consentire alla medesima di conseguirne la disponibilità
concretamente e senza condizioni di sorta (Sez. 1, n. 2837 del 13/12/1995, Rv. 204094).
Nel caso di specie, nessuno di questi presupposti viene convalidato dalla sentenza impugnata,
la quale riferisce: a) di una sostanziale messa in mora del debitore da parte della RAI, che
annunciò il recupero delle indebite spese e provvide autonomamente a trattenere parte di
quegli importi attraverso ritenute sulla busta paga; b) dell’avvenuta restituzione, soggetta a
condizione di ulteriore verifica, del solo danno patrimoniale in linea capitale; c) della successiva
richiesta avanzata dal ricorrente al giudice del lavoro per ottenere il recupero di tutte le
somme da lui corrisposte a fronte dell’indebito uso della carta di credito aziendale per spese
personali.

Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché quella alla rifusione delle spese
sostenute dalla parte civile per la perdurante partecipazione al giudizio, liquidate come in
dispositivo.

10

intrinseca dei fatti, connotati secondo la Corte territoriale dalla piena consapevolezza da parte

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla
rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile RAI Radio-Televisione Italiana
S.p.a., che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A.

Così deciso in Roma il 12 novembre 2015.

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