Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 638 del 30/10/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 638 Anno 2014
Presidente: DUBOLINO PIETRO
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CACCAVO SABINO N. IL 04/09/1956
avverso la sentenza n. 619/2004 CORTE APPELLO di BARI, del
22/06/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 30/10/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. FERDINANDO LIGNOLA
,
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 30/10/2013

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Carmine Stabile, ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

parzialmente quella del Tribunale di Trani del 27 maggio 2003; la Corte, con il
riconoscimento delle attenuanti generiche equivalenti, rideterminava la pena in
relazione al reato di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale,
commesso quale amministratore di fatto della “DAR s.r.l.”, esercente attività
turistica ricettiva e gestione di alberghi e ristoranti, dichiarata fallita con
sentenza del tribunale di Trani dell’8 ottobre 1997.
2. Contro la decisione della Corte d’appello di Bari propone ricorso per
cassazione l’imputato, con atto del proprio difensore, avvocato Giangregorio De
Pascalis, affidato a due motivi:
a) violazione dell’articolo 606 cod. proc. pen., lettera B ed E, in relazione agli
articoli 2639 cod. civ. e 223 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, ai fini del
riconoscimento della qualifica soggettiva di fatto. A giudizio del ricorrente la
qualifica di amministratore di fatto della società è priva di qualsiasi riscontro
fattuale ed è stata affermata in maniera congetturale, in mancanza dei criteri
della continuità e significatività dell’esercizio dei poteri tipici, che l’articolo 2639
cod. civ. pone a base dell’estensione della qualifica soggettiva; a tal proposito il
ricorrente richiama le dichiarazioni della curatrice del fallimento, della coimputata
e amministratrice di diritto della società, del commercialista della società e del
titolare dell’azienda relativa al ristorante “La terrazza”, affidato in gestione alla
“DAR s.r.l.”.
b) violazione dell’articolo 606 cod. proc. pen., lettera E, per la mancanza,
contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla
sussistenza dell’elemento materiale del reato, individuato genericamente con il
richiamo di due fatture di acquisto e dalla situazione delle scritture contabili,
definita “assolutamente deficitaria”; dell’elemento soggettivo del delitto; del
pregiudizio per i creditori; del giudizio di bilanciamento tra l’aggravante di cui
all’art. 219 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 e le attenuanti generiche, a suo
giudizio del tutto deficitario.

2

Con sentenza del 22 giugno 2012 la Corte d’appello di Bari confermava

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.1 II primo motivo propone censure di merito, traducendosi in una alternativa
ricostruzione della vicenda implicante una diversa valutazione (in fatto) delle
risultanze processuali e non già in una censura riconducibile ad un vizio di

1.2 La posizione in tema della giurisprudenza di legittimità è tradizionale e
consolidata: “Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1,
lett. e), dettata dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, il sindacato del giudice di
legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a
verificare che la relativa motivazione sia: a) “effettiva”, ovvero realmente idonea
a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione
adottata; b) non “manifestamente illogica”, ovvero sorretta, nei suoi punti
essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle
regole della logica; c) non internamente “contraddittoria”, ovvero esente da
insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche
tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente “incompatibile” con
altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa
tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal
giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o
radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione” (Sez. 6, n. 10951 del
15/3/06, Casula, rv. 233708).
Ne deriva che gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e
nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente
al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità, se non quando risulti
viziato dal punto di vista logico il discorso giustificativo sulla loro capacità
dimostrativa: e che pertanto restano inammissibili, in sede di legittimità, le
censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione
del risultato probatorio (Sez. 5, n. 8094 del 11/01/2007, Ienco, Rv. 236540;
Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 3, n. 39729 del
18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, Carone,
Rv. 250168).
1.3 II ricorrente richiama le medesime fonti probatorie che la Corte territoriale
indica a sostegno dell’affermazione di responsabilità: le dichiarazioni della

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motivazione desumibile dalla lettura del provvedimento impugnato.

curatrice del fallimento, Mariangela Matera, la quale a seguito della
presentazione di un ricorso ex art. 700 c.p.c. da parte di alcuni dipendenti aveva
potuto accertare che il vero responsabile della struttura era il Caccavo; le accuse
avanzate ai sensi dell’art. 197 bis cod. proc. pen. dalla coimputata D’Ambra
Antonia, amministratrice di diritto della società, secondo la quale i rapporti con il

Vincenzo D’Aloisio, che confermava tale ultima circostanza; le dichiarazioni rese
dall’imputato, nella procedura fallimentare, al curatore, con le quali egli si
attribuiva la completa gestione dell’impresa.
Sulla base di tali fonti di prova i giudici di merito hanno riconosciuto la qualifica
di amministratore di fatto in capo all’imputato, in maniera del tutto coerente e
logica, sicchè la diversa ricostruzione del ricorrente, volta a raggiungere
conclusioni opposte, comportano un evidente sconfinamento del motivo
nell’apprezzamento di merito.
2. Il secondo motivo è parzialmente infondato e parzialmente inammissibile.
2.1 Giova precisare al fine, in primo luogo, che i motivi di ricorso in cassazione
devono mantenersi all’interno del perimetro in precedenza tracciato dalle
contestazioni solevate in appello.
2.2 Poichè in appello la doglianza formulata sul reso giudizio di responsabilità si
appuntava solo sulla responsabilità dell’amministratore di fatto, il motivo è
infondato, perchè la motivazione della decisione richiama la costante
giurisprudenza di legittimità, mai contraddetta da arresti di segno opposto – a
tenore del quale concorrono alla consumazione del delitto di bancarotta
fraudolenta tutti coloro che abbiano, con la loro attività, apportato un concreto
contributo causale alla produzione del dissesto dell’azienda; pertanto, pur
rappresentando la sentenza dichiarativa di fallimento elemento costitutivo della
fattispecie (in quanto accertativa dello stato di insolvenza e della qualifica di
imprenditore o di amministratore del soggetto attivo), anche l’eventuale
amministratore di fatto può essere chiamato a rispondere del reato, in concorso,
appunto, con il soggetto dichiarato fallito (Sez. 5, n. 7583 del 06/05/1999,
Grossi, Rv. 213646).
3.

Quanto all’insussistenza dell’elemento materiale e soggettivo dei reati

contestati ed al riferimento all’effettivo pregiudizio per i creditori, il motivo è
inammissibile, poiché non proposto in sede di appello e perciò in contrasto con la

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commercialista erano tenuti dal Caccavo; la deposizione del commercialista

disposizione dell’art. 606, comma 3, nella parte in cui prevede la non deducibilità
in Cassazione delle questioni non prospettate nei motivi di appello, e comunque
assolutamente generico.
3.1 In proposito va osservato che il parametro dei poteri di cognizione del
giudice di legittimità è delineato dall’art. 609, comma 1, cod. proc. pen., il quale

commisurazione della cognizione di detto giudice ai motivi di ricorso proposti.
Detti motivi – contrassegnati dall’inderogabile “indicazione specifica delle ragioni
di diritto e degli elementi di fatto” che sorreggono ogni atto d’impugnazione
(artt. 581, 1° co, lett. e) e 591, 1° co., lett. c) cod. proc. pen.) – sono funzionali
alla delimitazione dell’oggetto della decisione impugnata ed all’indicazione delle
relative questioni, con modalità specifiche al ricorso per cassazione; il combinato
disposto dell’art. 606, comma 3 e dell’art. 609, comma 1 impedisce la
proponibilità in cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello, e,
come rileva la più recente dottrina, costituisce un rimedio contro il rischio
concreto di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento
impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione
del giudice di appello: in questo caso, infatti è facilmente diagnosticabile in
anticipo un inevitabile difetto di motivazione della relativa sentenza con riguardo
al punto dedotto con il ricorso, proprio perché mai investito della verifica
giurisdizionale.
4. Anche la censura riguardante il giudizio di bilanciamento tra l’aggravante di
cui all’art. 219 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 e le attenuanti generiche è
inammissibile, poiché il la Corte territoriale ha ritenuto addirittura “benevolo” il
riconoscimento delle attenuanti generiche (ed il conseguente giudizio di
equivalenza con l’aggravante) ed il trattamento sanzionatorio pari al minimo
edittale, che il Tribunale aveva determinato pur ricordando i precedenti penali
(per truffa e ricettazione) e la condotta processuale (egli si è reso irreperibile).
4.1 Siffatta linea argomentativa non presta il fianco a censura, rendendo
adeguatamente conto delle ragioni della decisione adottata; d’altra parte non è
necessario, a soddisfare l’obbligo della motivazione, che il giudice prenda
singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui all’art. 133 c.p., essendo
invece sufficiente l’indicazione di quegli elementi che nel discrezionale giudizio
complessivo, assumono eminente rilievo.

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ribadisce in forma esplicita un principio già enucleabile dal sistema, e cioè la

5. In conclusione il ricorso va rigettato.
5.1 II rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2013
Il consigliere estensore

P.Q.M.

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