Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6296 del 17/11/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 6296 Anno 2016
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: BELTRANI SERGIO

Data Udienza: 17/11/2015

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI
ROMA
nei confronti di:
DI SILVIO COSTANTINO N. IL 13/10/1982
DE ROSA GIULIA N. IL 01/06/1979
DI SILVIO GIUSEPPE PASQUALE N. IL 03/07/1988
DI SILVIO FERDINANDO N. IL 22/09/1975
DI SILVIO ARMANDO N. IL 29/07/1966
DI SILVIO SAMUELE N. IL 12/12/1990
MATTIUZZO GIANLUCA N. IL 09/08/1982
inoltre:
DI SILVIO COSTANTINO N. IL 13/10/1982
DE ROSA GIULIA N. IL 01/06/1979
avverso la sentenza n. 12107/2012 CORTE APPELLO di ROMA, del
05/03/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/11/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. SERGIO BELTRANI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. ■et, to 4c4
che ha concluso per
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RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale riforma
della sentenza pronunziata dal Tribunale di Latina in data 12.4.2012, su appello degli imputati
e del P.M. ha:
– confermato l’affermazione di responsabilità di COSTANTINO DI SILVIO, in atti
generalizzato, in ordine ai reati di cui ai capi B) e C) – usura aggravata ed estorsione
aggravata ex art. 7 I. n. 575 del 1965 -, quanto al primo reato, previa esclusione

aggravata tentata, e riducendo conseguentemente la pena ritenuta di giustizia dal primo
giudice;

in riforma della sentenza di primo grado, dichiarato GIULIA DE ROSA, in atti

generalizzata, colpevole del reato di usura aggravata di cui al capo B), con esclusione
dell’aggravante dello stato di bisogno, e riconoscendo le attenuanti generiche equivalenti alla
residua aggravante, e condannandola, pertanto, alla pena ritenuta di giustizia;
– confermato le ulteriori assoluzioni pronunziate dal Tribunale di Latina;
– assolto gli ulteriori imputati che in primo grado avevano riportato condanna per i reati di
cui ai capi A) – associazione per delinquere – ed L) – incendio del BAR GIULIA sito in Cerveteri
– con varie formule.
2. Contro tale provvedimento, hanno proposto ricorso per cassazione il P.G. territoriale e
gli imputati COSTANTINO DI SILVIO e GIULIA DE ROSA (questi ultimi con l’ausilio di difensori
iscritti all’apposito albo speciale).
3. All’odierna udienza pubblica, è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito, ed
all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, ed il collegio, riunito in camera di
consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in pubblica
udienza;
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso del P.G. territoriale è fondato nei confronti di DI SILVIO GIUSEPPE PASQUALE,
DI SILVIO ARMANDO, DI SILVIO SAMUELE, DI SILVIO FERDINANDO, limitatamente ai reati di
cui ai capi A) ed L), ed è inammissibile nel resto.
I ricorsi di DI SILVIO COSTANTINO e DE ROSA GIULIA sono inammissibili.

1. Il ricorso del P.G. territoriale.
Il P.G. territoriale ha presentato ricorso contro le assoluzioni pronunziate:

dell’aggravante dello stato di bisogno, e qualificando il secondo reato come estorsione

- dalla Corte di appello in favore di GIUSEPPE PASQUALE DI SILVIO, ARMANDO DI
SILVIO, SAMUELE DI SILVIO, FERDINANDO DI SILVIO relativamente ai reati di cui ai capi A)
(tutti) ed L (ARMANDO E FERDINANDO DI SILVIO);
– dal Tribunale nei confronti di GIUSEPPE PASQUALE DI SILVIO, ARMANDO DI SILVIO,
SAMUELE DI SILVIO, FERDINANDO DI SILVIO, COSTANTINO DI SILVIO, CARMINE DI SILVIO,
GIANLUCA MATTIUZZO, GIULIA DE ROSA relativamente ai reati di cui ai capi A) (i secondi
quattro), D) (i primi quattro: tentato omicidio di MAURIZIO SANTUCCI, in atti generalizzato),
E) (CARMINE DI SILVIO: detenzione, porto e cessione illegali di un’arma comune da sparo

aggravata di più armi comuni da sparo); I) (GIUSEPPE PASQUALE DI SILVIO, ARMANDO DI
SILVIO: detenzione illegale di armi comuni da sparo); M) (ARMANDO DI SILVIO,
FERDINANDO DI SILVIO: incendio dell’autovettura AUDI A3 di proprietà di tal BELLOCCHI
MAURIZIA, in atti generalizzata); con plurime recidive, anche qualificate, come in dettaglio
precisato nelle imputazioni in atti,
lamentando:
I) violazione degli artt. 178, comma 1, lett. C), e 182 c.p.p., per erroneità della
dichiarazione di nullità della perizia di trascrizione e traduzione delle conversazioni
intercettate, dovuta al fatto che il perito nominato si sarebbe indebitamente avvalso di un
ausiliario (il perito aveva, peraltro, espressamente chiesto ed ottenuto facoltà di nominare un
ausiliario per interpretare la lingua ROM; analoga eccezione era stata in diverso procedimento
disattesa dalla Corte di appello, con sentenza passata in giudicato; erroneamente sarebbe
stata richiamata Cass. n. 26617 del 2013, poiché in quel caso il perito non era stato
autorizzato ad avvalersi di un ausiliario; le parti non avevano tempestivamente sollevato
l’eccezione di nullità della perizia all’udienza di conferimento dell’incarico né all’udienza
28.2.2012, nella quale era avvenuto il deposito dell’elaborato peritale, ma soltanto all’udienza
13.3.2012, e neanche immediatamente, ma soltanto dopo l’esame di due testimoni e
l’audizione del perito trascrittore; sarebbe del tutto inattinente anche la decisione delle
Sezioni Unite ampiamente citata dalla Corte di appello, avendo detta decisione unicamente
affermato l’incompatibilità del simultaneo svolgimento nel medesimo procedimento di funzioni
di perito trascrittore ed interprete; la nuova perizia sarebbe incompleta, riguardando soltanto
alcune conversazioni, ed all’evidenza inattendibile, perché presenta – con riferimento alle
conversazioni trascritte – evidenti e documentate lacune);
II)

mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione, quanto alle impugnate

assoluzioni per travisamento ed omessa valutazione delle registrazioni delle disposte
intercettazioni (reiterando forti dubbi sulla genuinità delle seconda perizia trascrittiva).

1.1. I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati
limitatamente all’assoluzione degli imputati GIUSEPPE PASQUALE DI SILVIO, ARMANDO DI

carica), F) (COSTANTINO DI SILVIO, CARMINE DI SILVIO, GIULIA DE ROSA: detenzione

SILVIO, SAMUELE DI SILVIO, FERDINANDO DI SILVIO dai reati di cui al capo A) (tutti), ed L)
(ARMANDO DI SILVIO, FERDINANDO DI SILVIO), e generici nel resto.

1.2. La questione giuridica sollevata dal P.M. è già stata esaminata da questa Corte, ma
con riguardo a fattispecie non sempre esattamente coincidenti con quella in esame.

1.2.1. Nell’ambito dell’odierno procedimento è pacifico che il primo perito, all’atto del
conferimento dell’incarico, chiese ed ottenne l’autorizzazione ad avvalersi della collaborazione

1.2.2. La III Sezione, con sentenza n. 26617 dell’8.5.2013, C.E.D. Cass. n. 256306, ha
affermato il principio di diritto così nnassimato:
«Non rientra tra le facoltà del perito officiato della trascrizione delle intercettazioni
nominare, quale suo ausiliario, un esperto che proceda alla traduzione dei colloqui. (In
motivazione la Corte ha precisato che se l’interprete è stato nominato direttamente dal perito
si verifica una nullità a regime intermedio della perizia, che va rilevata nell’udienza fissata per
il deposito della trascrizione)».
Peraltro, nel caso esaminato dalla III Sezione, il perito non era stato autorizzato ad
avvalersi di ausiliari: con riguardo a tale fattispecie, la III Sezione ha concluso che <>

(f. 11 della

sentenza citata).
Quanto alle conseguenze del vizio rilevato, la I Sezione ha ritenuto, in motivazione (f. 13),
che

«l’omissione incorsa, avendo precluso all’imputato la possibilità di partecipare,

mediante un proprio consulente traduttore, alle operazioni relative, sia stata causativa di una
nullità a regime intermedio; sicché, non avendo gli imputati (…) mai eccepito,
successivamente al deposito delle trascrizioni in lingua romanì (…), la nullità in questione ex

1.3. Ciò premesso, il collegio condivide e ribadisce il seguenti principio di diritto:
«È affetta da nullità c.d. a regime intermedio, rilevabile e/o deducibile ex art. 182
c.p.p., la nomina da parte del perito officiato della trascrizione delle intercettazioni, di un
esperto, quale suo ausiliario, che proceda alla traduzione delle conversazioni, trattandosi di
attività non meramente meccanica, che richiede di scegliere, tra più significati equipollenti di
una parola, quella nella sostanza più fedele al contenuto del dialogo>>.
Tuttavia, la specificità del caso oggi in esame induce il collegio a conclusioni in parte non
coincidenti con quelle alle quali sono pervenute la Terza e la Prima Sezione.
Nel caso odierno, infatti, diversamente da quanto avvenuto nel caso al giudizio della Terza
Sezione, non potrebbe ritenersi che sia stata tout court preclusa agli imputati la possibilità di
partecipare, mediante un proprio consulente traduttore, alle operazioni relative, poiché la
richiesta di avvalersi dell’ausilio di un consulente al fine specifico (e dichiarato) di tradurre le
conversazioni intercettate in italiano era stata espressamente formalizzata dal perito, nel
contraddittorio, ed espressamente autorizzata; d’altro canto, diversamente da quanto
avvenuto nel caso al giudizio della Prima Sezione, le parti avevano eccepito la nullità
eventualmente configurabile, ed è quindi necessario verificare se ciò sia avvenuto, o meno,
tempestivamente.
Osserva in proposito il collegio che la nullità a regime intermedio eventualmente
configurabile doveva essere rilevata o eccepita, ai sensi dell’art. 182, comma 2, c.p.p.,
«quando la parte vi assiste … prima del suo compimento ovvero, se ciò non è possibile,
immediatamente dopo»: nel caso in esame, quindi, avendovi le parti private assistito, essa
avrebbe potuto, e quindi dovuto, essere eccepita «prima del suo compimento», ovvero
nel momento in cui il perito aveva chiesto di essere autorizzato ad avvalersi dell’ausiliario per
la traduzione delle conversazioni intercettate, ovvero, al più tardi, nel momento in cui era
stato a ciò autorizzato dal Tribunale.
Risultava, pertanto, tardiva la deduzione del vizio dopo l’esame dibattimentale del perito
e/o nella prima udienza utile dopo il deposito della perizia (come le difese anche nel corso
della odierna discussione hanno rivendicato – ma inutilmente, alla luce di quanto appena
chiarito in diritto – di avere fatto), ovvero prima della conclusiva lettura degli atti utilizzabili ai
fini della decisione (secondo quanto affermato dal P.G. nel corso dell’odierna udienza).

art. 182 c.p.p. (…) la stessa deve ritenersi evidentemente sanata>>.

1.3.1. Diversamente da quanto affermato dalla III Sezione, deve rilevarsi che – come
espressamente previsto dall’art. 182, comma 3, c.p.p. -, la tardiva deduzione del vizio de quo
non ne comporta la sanatoria (le sanatorie delle nullità generali sono, infatti, soltanto quelle
previste dall’art. 183 c.p.p.), ma la decadenza della parte interessata dalla facoltà di eccepire
la nullità (e del giudice dalla possibilità di rilevarla d’ufficio).

1.3.2. Deve aggiungersi che l’errata – perché non consentita dalla già intervenuta

decadenza – declaratoria di nullità della prima perizia ha decisivamente condizionato il
conclusivo giudizio di appello, per la evidente sommarietà della seconda perizia, sia in
considerazione della mancata trascrizione di numerose conversazioni di interesse
investigativo, sia perché le residue conversazioni oggetto del secondo mandato peritale sono
state trascritte in modo all’evidenza parziale ed estremamente lacunoso (come
inconfutabilmente documentato dal P.G. ricorrente, alle cui dettagliate ricostruzioni
riepilogative quanto ai passi delle conversazioni di interesse non trascritti o mal trascritti nella
seconda perizia non può che farsi rinvio).

1.4. Quanto fin qui osservato riguarda i soli reati di cui ai capi A) ed L) ascritti agli
imputati di DI SILVIO GIUSEPPE PASQUALE, DI SILVIO ARMANDO, DI SILVIO SAMUELE, DI
SILVIO FERDINANDO, assolti dalla Corte di appello riformando l’originaria sentenza di
condanna pronunciata dal Tribunale.
Con riferimento alle ulteriori assoluzioni impugnate, tutte già deliberate dal Tribunale in
primo grado, e confermate dalla Corte di appello, il ricorso del P.G. è del tutto silente: in
parte qua la doglianza, a ben vedere, è meramente enunciata, in difetto di argomentazioni a
corredo, e risulta, pertanto, estremamente generica.

1.5. In accoglimento del ricorso del P.G. territoriale, la sentenza impugnata va, quindi,
annullata nei confronti di DI SILVIO GIUSEPPE PASQUALE, DI SILVIO ARMANDO, DI SILVIO
SAMUELE, DI SILVIO FERDINANDO, limitatamente ai reati di cui ai capi A) ed L), con rinvio
per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che si atterrà al principio di
diritto enunciato nel § 1.3., cui consegue la decadenza delle parti private dall’eccezione di
nullità della prima perizia accolta dalla Corte di appello con la sentenza impugnata.

1.5.1. Il ricorso del P.G. territoriale è, nel resto, inammissibile.

2. Il ricorso di COSTANTINO DI SILVIO.
Il ricorrente lamenta:
I – violazione degli artt. 644 e 42 c.p. per difetto dell’elemento psicologico del reato
%

quanto alla natura usuraria dei tassi praticati;

H – violazione degli artt. 56 e 629 c.p. ed illogicità della motivazione, quanto alla
sussistenza della materialità del reato, in difetto di capacità intimidatoria della pretesa
minaccia in danno della vittima.

2.1. Il ricorso di COSTANTINO DI SILVIO

è in toto inammissibile perché assolutamente

privo di specificità in tutte le sue articolazioni (reiterando, più o meno pedissequamente,
censure già dedotte in appello e già non accolte: Sez. IV, sentenza n. 15497 del 22 febbraio 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. VI, sentenza n. 34521 del 27 giugno – 8 agosto

poiché la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti,
logiche e non contraddittorie (che riprendono quelle, condivise, del primo giudice, come è
fisiologico in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità), e, pertanto,
esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha valorizzato ai fini della contestata affermazione di
responsabilità, anche sotto il profilo dell’elemento psicologico (f. 37 ss.), le dichiarazioni della
p.o. e quanto emergente da alcune conversazioni intercettate, evidenziando che il tasso
praticato dal DI SILVIO era pari nel periodo di riferimento ad oltre il 57%, a fronte di un tasso
soglia pari al 17%, e concludendo

«che non vi sono, pertanto, dubbi circa la natura usuraria
degli interessi pattuiti, né in merito alla consapevolezza da parte di DI SILVIO COSTANTINO
circa il superamento del tasso soglia previsto dal legislatore, trattandosi di tasso di gran lunga
superiore a quello normativamente stabilito, sicché deve escludersi che l’imputato sia incorso
in un errore idoneo ad escludere la sussistenza del dolo richiesto dalla norma
incriminatrice», e che irrilevante in tema risulta la convenienza dell’operazione in ipotesi
ritenuta dalla p.o.
Appare, peraltro, evidente che chi si accinge – sia pur, in ipotesi, abusivamente – al
compimento di un’attività, ha l’onere di accertare quali siano le disposizioni normative che ne
disciplinano l’esercizio: è già stata, pertanto, ritenuta inescusabile l’ignoranza del tasso di
usura da parte di una banca, osservando che

«i presidenti dei consigli di amministrazione
delle banche non possono invocare l’inevitabilità del predetto errore sulla legge penale,
svolgendo attività in uno specifico settore, nel quale gli organi di vertice hanno il dovere di
informarsi con diligenza sulla normativa esistente, poiché i relativi statuti attribuiscono loro
poteri in materia di erogazione del credito, rientranti nell’ambito dei più generali poteri di
indirizzo dell’impresa, sussistendo in capo ad essi una posizione di garanzia a tutela dei clienti
degli istituti bancari quanto al rispetto delle disposizioni di legge in tema di erogazione del
credito» (Sez. II, sentenza n. 46669 del 2011).
2.1.1. Quanto alla qualificazione giuridica dei fatti di estorsione, la Corte di appello,
altrettanto incensurabilmente, ha valorizzato (f. 39 ss.) (oltre al contesto di riferimento ed
alla personalità dell’imputato), essenzialmente il contenuto della missiva consegnata dalla DE
ROSA per conto del DI SILVIO (detenuto in carcere), alla p.o.:

«come tu sai io ti ho sempre

2013, CED Cass. n. 256133), del tutto assertivo e, comunque, manifestamente infondato,

rispettato, perciò vedi di fare il serio e non mi (cancellatura) fare incazzare, se no ti mando i
parenti miei, quelli che abitano vicino a te, perché di tempo già ne è passato troppo, e mia
moglie come i miei figli hanno bisogno perché quello che è giusto è giusto, e sbrigati, perché
c’è anche l’avvocato e quelli non vogliono chiacchiere, il mio problema è molto più grande del
tuo, quindi sbrigati che mi sono già rotto i c…, OK? Adesso ti saluto. CIAO. Ripeto SBRI….,
che già sto a 3 quarti» (cfr. capo C) delle imputazioni).
Dette espressioni sono state, con apprezzamento incensurabile in questa sede, ritenute di
contenuto inequivocabilmente intimidatorio (f. 40 e f. 41), anche perché recanti espresse

reclamate dall’imputato.

2.2. Con tali argomentazioni, il ricorrente in concreto non si confronta adeguatamente,
limitandosi a reiterare le doglianze già sconfessate dalla Corte di appello e riproporre la
propria diversa “lettura” delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed
indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti;
3. Il ricorso di GIULIA DE ROSA.
La ricorrente lamenta:
I – violazione degli artt. 644 e 42 c.p. per difetto dell’elemento psicologico del reato
quanto alla natura usuraria dei tassi praticati, con manifesta illogicità della motivazione, in
ordine alla consapevolezza della configurabilità del reato di usura in tutti i suoi elementi
caratterizzanti.

3.1. Deve premettersi che, secondo il consolidato orientamento anche di questa
Sezione, è illegittima la sentenza d’appello che, in riforma di quella assolutoria, affermi la
responsabilità dell’imputato sulla base dì una interpretazione alternativa, ma non
maggiormente persuasiva, del medesimo compendio probatorio utilizzato nel primo grado di
giudizio (Sez. II, n. 27018 del 27 marzo 2012, Urciuoli, rv. 253407; Sez. VI, n. 20656 del
22 novembre 2011, dep. 28 maggio 2012, De Gennaro ed altro, n.m. sul punto).
La radicale riforma, in appello, di una sentenza di assoluzione non può essere basata su
valutazioni semplicemente diverse dello stesso compendio probatorio, qualificate da pari o
persino minore razionalità e plausibilità rispetto a quelle sviluppate dalla sentenza di primo
grado, ma deve fondare su elementi dotati di effettiva e scardinante efficacia persuasiva, in
grado di vanificare ogni ragionevole dubbio immanente nella delineatasi situazione conflitto
valutativo delle prove: ciò in quanto il giudizio di condanna presuppone la certezza
processuale della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza
dell’innocenza, bensì la semplice non certezza – e, dunque, anche il dubbio ragionevole della colpevolezza.

minacce, per il caso di mancata restituzione delle somme (capitale ed interessi usurari)

Invero, il principio secondo il quale la sentenza di condanna deve essere pronunciata
soltanto “se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole
dubbio”, formalmente introdotto nell’art. 533, comma primo, cod. proc. pen., dalla L. n. 46
del 2006, «presuppone comunque che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale
rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già
acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza,
sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze
della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non

sull’affermazione di colpevolezza» (Sez. VI, n. 40159 del 3 novembre 2011, Galante, rv.
251066; Sez. VI, n. 4996 del 26 ottobre 2011, dep. 9 febbraio 2012, Abbate ed altro, rv.
251782; Sez. H, n. 27018 del 27 marzo 2012, Urciuoli, rv. 253407).
Ai fini della riforma in appello di una assoluzione deliberata in primo grado non può,
quindi, ritenersi sufficiente la possibilità di addivenire ad una ricostruzione dei fatti
connotata da uguale plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo,
invece, che la ricostruzione in ipotesi destinata a legittimare – in riforma della precedente
assoluzione – la sentenza di condanna sia dotata di «una forza persuasiva superiore, tale
da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di
contrasto. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre
l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della
colpevolezza».

3.1.1. Ciò premesso, rileva il collegio che la motivazione della sentenza impugnata
risulta maggiormente persuasiva rispetto a quella assolutoria pronunciata dal primo giudice,
che è inficiata da una serie di omissioni che appaiono di decisivo rilievo: il motivo risulta, di
conseguenza, manifestamente infondato.
Invero, la Corte di appello, con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché
esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede,
ha valorizzato, ai fini della contestata affermazione di responsabilità, una serie di
inequivocabili conversazioni intercettate (riepilogate a f. 42 della sentenza impugnata ed
interpretate incensurabilmente), a torto trascurate dal Tribunale, dalle quali ha
motivatamente desunto che l’imputata «non si è limitata a percepire le somme dovute dal
ROCCO, su delega del marito impossibilitato a far ciò perché ristretto in carcere, ma ha
anche partecipato alla conclusione del patto usurario, di cui conosceva gli esatti termini».
Quanto alla natura usuraria degli interessi convenuti, della quale l’imputata aveva piena
consapevolezza, come desunto dalle conversazioni nelle quali l’imputata fa i conti con la p.o.
di quanto le era dovuto, va richiamato anche quanto osservato sub § 2.1.

più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi

3.1.2. Con tali argomentazioni, anche la ricorrente in concreto non si confronta
adeguatamente, limitandosi a proporre una propria diversa “lettura” delle risultanze
probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei
modi di rito eventuali travisamenti.
4. La declaratoria di inammissibilità totale dei ricorsi di DI SILVIO COSTANTINO e DE
ROSA GIULIA comporta, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese processuali, nonché – apparendo evidente che essi hanno proposto il

186) e tenuto conto dell’entità delle rispettive colpe – della somma di Euro mille ciascuno in
favore della Cassa delle Ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata nei confronti di DI SILVIO GIUSEPPE PASQUALE, DI
SILVIO ARMANDO, DI SILVIO SAMUELE, DI SILVIO FERDINANDO, limitatamente ai reati di
cui ai capi A) ed L), con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma per nuovo
giudizio. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso del Procuratore Generale.
Dichiara inammissibili i ricorsi di DI SILVIO COSTANTINO e DE ROSA GIULIA, che
condanna al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di
euro mille alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, udienza pubblica 17 novembre 2015

Il Presidente

ricorso determinando le cause di inammissibilità per colpa (Corte cost., 13 giugno 2000 n.

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