Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6213 del 05/12/2012


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 6213 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: ZAZA CARLO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Campanella Giuseppe, nato a Trebisacce il 09/02/1955

avverso la sentenza del 27/09/2011 del Tribunale di Castrovillari

visti gli atti, il provvedimento impugnato, il ricorso e la memoria depositata dalla
parte civile;
udita la relazione svolta dal Consigliere Carlo Zaza;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Gioacchino Izzo, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito per la parte civile l’avv. Fulvio Romanelli in sostituzione dell’avv. Gaetano
Parise, che ha concluso per il rigetto del ricorso depositando conclusioni e nota
spese;

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Data Udienza: 05/12/2012

RITENUTO IN FAUCI

1. Con la sentenza impugnata, in riforma della sentenza assolutoria del
Giudice di pace di Trebisacce del 10/01/2011, appellata dalla parte civile,
Giuseppe Campanella veniva condannato al risarcimento dei danni in favore di
quest’ultima per il reato di cui all’art.594 cod. pen., commesso il 05/10/2009
presso lo studio medico di Domenico Michele Alessio in Trebisacce profferendo
nei suoi confronti le espressioni «sei un pagliaccio, vai a fare in culo»,

cui all’art.612 cod. pen., contestato come commesso nella stessa occasione.

2. L’imputato ricorre sui punti e per i motivi di seguito indicati.
2.1. Il ricorrente deduce in primo luogo violazione di legge in ordine
all’eccepita inammissibilità dell’appello proposto dalla parte civile avverso la
sentenza di primo grado, osservando che la previsione dell’art.38 D.Igs. 28
agosto 2000, n.274, la quale consente alla parte offesa, che abbia proposto
ricorso immediato al giudice di pace ai sensi del precedente art.21,
l’impugnazione della sentenza negli stessi casi in cui la stessa è consentita al
pubblico ministero, non era applicabile alla fattispecie in esame, nella quale la
citazione a giudizio dinanzi al giudice di pace avveniva nelle forme ordinarie di
cui all’art.20; che detta limitazione trova il suo fondamento nell’estensione alla
parte offesa di tutte le facoltà del pubblico ministero nei soli casi in cui la prima
esercita direttamente l’azione penale; che pertanto il principio di tassatività dei
mezzi di impugnazione imponeva la declaratoria di inammissibilità dell’appello in
esame; e che erroneamente il Tribunale riteneva l’appello ammissibile ai sensi
della generale previsione di cui all’art.576 cod. proc. pen., in quanto quest’ultima
consente alla parte civile di impugnare agli effetti civili la sentenza di
proscioglimento, da intendersi come emessa ai sensi dell’art.529 cod. proc. pen.,
e non anche la sentenza di assoluzione dell’imputato ai sensi dell’art.530 cod.
proc. pen., quale quella nella specie pronunciata in primo grado.

2. Sull’affermazione di responsabilità il ricorrente lamenta illogicità e
contraddittorietà della motivazione in ordine all’attendibilità delle dichiarazioni
della persona offesa, rispetto all’interesse della stessa, alla conferma solo
parziale dell’espressione contestata nell’imputazione ed all’esclusione in sede
dibattimentale di minacce invece riferite nella querela, ed al riscontro
proveniente dalle dichiarazioni dei testi Violante e Lategano, fra loro contrastanti
laddove il secondo escludeva di aver udito le frasi ingiuriose viceversa indicate
dalla prima, oltretutto dipendente della persona offesa.
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confermandosi invece l’esclusione della responsabilità dell’imputato per il reato di

3. La parte civile ha depositato memoria a sostegno della richiesta di rigetto
del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il motivo di ricorso relativo all’eccepita inammissibilità dell’appello
proposto dalla parte civile avverso la sentenza di primo grado è infondato.

la regola generale della facoltà per la parte civile di presentare appello a fini civili
ai sensi dell’art.576 cod. proc. pen., norma applicabile al processo che si svolge
dinanzi al giudice di pace in forza del richiamo di cui all’art.2 d.lgs. n.274 del
2000. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non vi è alcuna ragione
per intendere il riferimento alle sentenze di proscioglimento, presente nel citato
art.576, come limitato a quelle emesse ai sensi dell’art.529 cod. proc. pen. e non
genericamente riferito a tutte le decisioni che a vario titolo prosciolgano
l’imputato, ivi comprese quelle di assoluzione; ed a sentenze di quest’ultima
natura attengono del resto specificamente le pronunce di questa Corte
affermative della vigenza del principio in esame nel procedimento per i reati di
competenza del giudice di pace (Sez. 5, n.4695 del 05/12/2008 (03/02/2009),
Simoni, Rv.24260; Sez. 5, n.23726 del 31/03/2010, Serpi, Rv.247509).
Una volta stabilita la generale portata del menzionato principio nel
procedimento in oggetto, ne discende l’applicabilità dello stesso a prescindere
dalle modalità con le quali il procedimento sia introdotto, e quindi anche laddove
l’atto introduttivo sia l’ordinaria citazione a giudizio di cui all’art.20 d.lgs. n.274
del 2000. Nessuna deroga può essere ravvisata, come sostenuto dal ricorrente,
nella previsione dell’art.38 del decreto, che facoltizza la parte offesa, la quale
abbia proposto ricorso immediato, all’impugnazione della sentenza nei casi in cui
la stessa è consentita al pubblico ministero. Questa formulazione, come del resto
è stato già chiarito da questa Corte (Sez. 5, n.41148 del 22/04/2005, Capellino,
Rv.232589), attribuisce in realtà alla norma una funzione non limitativa, ma anzi
estensiva del principio, consentendo alla parte offesa ricorrente di interporre
appello anche agli effetti penali, e non solo, come previsto in linea generale, ai
soli effetti civili. Ed esclusivamente in questa prospettiva, estranea al caso in
esame ove l’appello veniva proposto a fini civili, vale il riferimento del ricorrente
all’attribuzione alla parte offesa di facoltà analoghe a quelle del pubblico
ministero ove la stessa abbia direttamente esercitato l’azione penale;
intendendosi come tale la possibilità di appellare a fini penali, rimanendo la

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Correttamente, invero, il Tribunale riteneva valida anche nel caso di specie

facoltà di appello agli effetti civili propria della posizione processuale generale
della parte civile.

2. Anche il motivo di ricorso relativo all’affermazione di responsabilità
dell’imputato è infondato.
Sull’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa la sentenza
impugnata offriva una congrua motivazione, fondata sulla coerenza del racconto,
sui concordi apporti testimoniali in merito al verificarsi dì una discussione fra il

proveniente dalla deposizione della teste Violante. L’assoluzione dall’imputazione
di minaccia è oggetto nel ricorso di una valutazione meramente alternativa a
quella dei giudici di merito, i quali coerentemente argomentavano come l’aver la
stessa parte offesa escluso di essere stata minacciata ne confermava la
mancanza di interesse ad aggravare oltremodo la posizione dell’imputato. Né la
tenuta logica della motivazione è compromessa dai riferimenti del ricorrente ad
altro teste che non avrebbe udito le frasi ingiuriose, a fronte della convergenza di
elementi testimoniali di segno contrario, o all’aver la parte offesa riferito al
dibattimento solo parte dell’espressione contestata, comunque offensiva in
quanto riportata nel ricorso come «un pagliaccio come te non l’ho mai visto».
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, seguendone la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali e delle spese sostenute nel
grado dalla parte civile, che avuto riguardo alla dimensione dell’impegno
processuale si liquidano in €.2.640 oltre accessori di legge.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali,
nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in questo giudizio di
cassazione, che liquida in complessivi €.2.640 oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma il 05/12/2012

Il Consigliere estensore

Campanella e l’Alessio e sullo specifico riscontro delle espressioni ingiuriose

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