Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6197 del 04/12/2012


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 6197 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: DE MARZO GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Persico Mariarosaria, nata a Benevento il 06/07/1956

avverso la sentenza del 10/06/2011 del Tribunale di Benevento R.G. 8/2010
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione svolta dal Consigliere Giuseppe De Marzo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Eduardo
Scardaccione, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 10/06/2011, il Tribunale di Benevento, chiamato a decidere sull’appello
proposto avverso la sentenza del Giudice di Pace di Benevento del 09/03/2010, ha dichiarato
non doversi procedere nei confronti di Antonio Varricchio per morte del reo e, quanto a
Mariarosaria Persico, ha confermato la decisione di primo grado, che l’aveva condannata alla
pena di giustizia in relazione ai reati di cui agli artt. 594 e 612 cod. pen. e al risarcimento dei
danni in favore della costituita parte civile da liquidare in separata sede.
2. Il Tribunale ha ritenuto: a) che era evidente il contenuto offensivo delle espressioni
adoperate dai coniugi nei confronti del dott. Perrottelli, incaricato di eseguire la visita fiscale
nei confronti del Varricchio, in quanto idonee a lederne la competenza e la professionalità;
che di tale condotta dovesse essere ritenuta responsabile la Persico, che con il suo
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Data Udienza: 04/12/2012

comportamento, annuendo alle frasi offensive pronunciate dal marito, aveva non solo offerto
tutto il suo sostegno morale, ma aveva chiaramente mostrato di condividere totalmente
l’attività denigratoria in corso; c) che alle stesse conclusioni doveva giungersi quanto al reato
di minacce, integrato dal tenore delle parole pronunciate da entrambi i coniugi e prospettanti
un male ingiusto in un clima di chiara ostilità.
2. Nell’interesse della Persico viene proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo, si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen.,
inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 110, 594 cod. pen., sotto il profilo

Le frasi “la visita fiscale è un’offesa grave per il medico di famiglia”, “lei mi fa ridere con le
sue richieste”, “lei non serve a nulla”, seppure pungenti, non possono, secondo la ricorrente,
considerarsi lesive dell’onore del medico, sia per il significato letterale e sociale, sia per il
contesto, di animata discussione sull’utilità della visita fiscale, in cui erano state pronunciate.
Del resto, il concorso della Persico era stato ravvisato in relazione a tali espressioni, mentre
era irrilevante che che fosse stata lei a predisporre la missiva indirizzata il giorno successivo
all’Azienda sanitaria locale, nel quale si faceva riferimento al “sedicente medico”; a questo
riguardo, il ricorso sottolinea che la diffamazione consumata con tale comportamento era
stata contestata, nel capo di imputazione, al solo Varricchio.
2.2. Con il secondo motivo, si contesta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc.
pen., nullità della sentenza ex art. 521 e 522 cod. proc. pen., per mancata correlazione tra
accusa e sentenza, in quanto la Corte aveva condannato l’imputata per il reato di cui all’art.
594 c.p. per avere utilizzato l’espressione “sedicente medico”.
2.3. Con il terzo motivo, si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen.,
inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 612 cod. pen., sotto il profilo dell’insussistenza
del fatto tipico della minaccia. Si osserva nel ricorso che le frasi “non finisce qua” e “lei non
sa chi sono io”, oltre a non prospettare alcun male ingiusto, in quanto allusive rispetto ad
azioni tese alla tutela della posizione soggettiva propria e del marito, non avevano prodotto
alcun effetto intimidatorio sul medico che aveva terminato regolarmente la sua visita.
2.4. Con il quarto motivo, si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen.,
inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 594, cod. pen., in relazione all’art. 43 cod,
pen., dal momento che comunque era insussistente il dolo dell’ingiuria. I coniugi, infatti,
erano mossi dall’intento di reagire alla riduzione dei giorni di convalescenza e non da quello
di schernire e offendere il medico fiscale.
2.5. Con il quinto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen.,
inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 612, cod. pen., in relazione all’art. 43 cod.
pen., poiché le frasi pronunciate non erano dirette a prospettare un male ingiusto, ma a
preannunciare la difesa rispetto al prowedimento adottato dal medico fiscale.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

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dell’insussistenza del fatto tipico dell’ingiuria.

2. Le espressioni attribuite alla ricorrente e sopra descritte, quale che sia stata la causa
scatenante della condotta di quest’ultima (in particolare, la ritenuta inutilità della invece
doverosa esecuzione della visita fiscale disposta), hanno un sicuro contenuto offensivo. Lo
avrebbero già le espressioni “lei mi fa ridere con le sue richieste” e “lei non serve a nulla”,
che sminuiscono in modo ingiustificato la personalità professionale e il decoro del
destinatario.
Quanto all’espressione “sedicente medico”, a tacer del fatto che, nella sentenza del Giudice
di Pace di Benevento, sembrerebbe che essa sia stata utilizzata due volte, una prima (pag. 4

motivazione, dove si legge “che il dott. Perrottelli con insistenza viene ancora indicato….
come ‘sedicente medico’), è assorbente il rilievo che, nel percorso argomentativo del
Tribunale, l’espressione serve non ad integrare i fatti contestati, ma soltanto a dimostrare il
clima di diffidenza e di ostilità che aveva caratterizzato l’espletamento della visita fiscale e, in
definitiva, al vaglio della credibilità delle dichiarazioni della persona offesa.
Sul piano dell’elemento soggettivo — costituente oggetto del quarto motivo di ricorso e qui
esaminato per ragioni di ordine logico -, è sufficiente considerare che, secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte (v., ad es., Sez. 5, n. 7597 del 11/05/1999, Ben i Riboli, Rv.
213631), in tema di delitti contro l’onore, non è richiesta la presenza di un animus Iniuriandi
vel diffamandi, ma appare sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del

dolo eventuale, in quanto basta che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed
espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato
che esse vengono oggettivamente ad acquisire, senza un diretto riferimento alle intenzioni
dell’agente.
Ne discende l’infondatezza del primo motivo e del quarto motivo di ricorso.
3. Con riferimento al secondo motivo, né il Giudice di Pace, né il Tribunale di Benevento
hanno ritenuto la sussistenza del delitto di ingiuria in relazione all’utilizzo dell’espressione
“sedicente medico”, che invece è stata valorizzata ai diversi fini esaminati nel punto che
precede. Va, pertanto, esclusa in radice la fondatezza della critica correlata alla violazione
degli artt. 521 e 522 cod. peri.
4. Con riguardo al terzo motivo, va premesso che, secondo l’orientamento più volte espresso
da questa Corte, il reato di minaccia è un reato formale di pericolo, per la cui integrazione
non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso, bastando che il male prospettato
possa incutere timore nel soggetto passivo, menomandone la sfera della libertà morale; la
valutazione dell’idoneità della minaccia a realizzare tale finalità va fatta avendo di mira un
criterio di medialità che rispecchi le reazioni dell’uomo comune (Sez. 5, n. 8264 del
29/05/1992, Mascia, Rv. 191433).
Esclusa, pertanto, la rilevanza del fatto che il medico abbia comunque portato a termine la
visita, il riferimento al fatto che “la faccenda non finiva lì” appare, nella motivazione della
Corte, alla luce del comportamento successivamente serbato dalla ricorrente (materiale

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della motivazione) in casa, una seconda nella missiva del 07/02/2007 (pag. 5 della

autrice della missiva del 07/02/2007, nella quale si afferma che il medico era stato
“condannato dal Tribunale di Benevento a 4 mesi di reclusione più risarcimento danni per
ingiuria e lesioni aggravate a un collega della ASL” – pag. 5 della sentenza di primo grado —
che, nella sentenza di appello, si traducono nel riferimento ai “presunti precedenti penali” de
medico — pag. 5 della sentenza impugnata), evidente espressione della prospettazione di un
male ingiusto, operata in un clima di chiara ostilità.
A questo riguardo, sempre per ragioni logiche, può essere esaminato il quinto motivo, che
attiene al profilo soggettivo del reato di cui all’art. 612 cod. pen.

nella cosciente volontà di minacciare ad altri un ingiusto danno ed è diretto a provocare la
intimidazione del soggetto passivo, senza che sia necessario che in tale volontà sia compreso
il proposito di tradurre in atto il male minacciato (Sez. 1, n. 7382 del 11/06/1985, Dessi, Rv.
170186), deve aggiungersi che gli elementi sopra ricordati, per come ricostruiti dalla Corte
territoriale, escludono che le espressioni adoperate dalla ricorrente alludessero all’intento di
tutelare i propri diritti in sede giurisdizionale.
4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
P.Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 30/11/2012

Il Componente estensore

Il Presidente

Premesso che nel delitto di minaccia, il dolo, quale componente del fatto contestato, consiste

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