Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 615 del 14/11/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 615 Anno 2014
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
D’ALESSIO GIUSEPPE N. IL 11/07/1953
avverso la sentenza n. 873/2011 CORTE APPELLO di LECCE, del
11/01/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 14/11/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. FERDINANDO LIGNOLA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

Data Udienza: 14/11/2013

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Giuseppe Volpe, ha
concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

Corte d’appello di Lecce, in data 11 gennaio 2013, D’Alessio Giuseppe era
condannato alla pena ritenuta di giustizia in relazione al reato di bancarotta
fraudolenta patrimoniale, perché, in qualità di titolare della ditta individuale
omonima, distraeva somme per un ammontare complessivo pari a lire
889.700.000, mediante prelievo dal conto “denaro in cassa” in un arco
temporale di otto mesi (dal gennaio al settembre 2000), prima della
dichiarazione di fallimento, intervenuta con sentenza del Tribunale di Lecce del
22 maggio 2001.
2. Contro la sentenza di appello propone ricorso l’imputato, con atto sottoscritto
dal proprio difensore, avv. Evelina Pascariello, affidato a due motivi.
2.1 Con il primo motivo il ricorrente deduce inosservanza ed erronea
applicazione dell’articolo 192, comma 2, cod. proc. pen., poiché la mancata
dimostrazione della destinazione del denaro, unico elemento su cui è fondata la
condanna, rappresenta solamente un indizio, il quale, in assenza di altri elementi
che abbiano il carattere della gravità, della precisione e della concordanza, non
può assurgere ad elemento di prova.
2.2 Con il secondo motivo il ricorrente contesta inosservanza ed erronea
applicazione dell’articolo 27 della Costituzione ed omessa motivazione in ordine
alle censure mosse con il secondo motivo d’appello, con il quale si deducevano
l’assenza dell’imputato dalla gestione dell’azienda dovuta a gravi motivi di salute
e la presenza di un terzo soggetto, Lamacchia Francesco, titolare di delega sul
conto corrente dell’imputato, potenziale responsabile della distrazione. Secondo
il ricorrente in definitiva il D’Alessio sarebbe stato condannato in forza di una
responsabilità oggettiva.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso dell’imputato è inammissibile.

2

1. Con sentenza del 19 novembre 2010 del Tribunale di Lecce, confermata dalla

1.1 II primo motivo, con il quale si deduce la violazione della norma che
disciplina la valutazione della prova indiziaria, è manifestamente infondato.
Diversamente da quanto affermato (in maniera estremamente sintetica) dal
ricorrente, la prova della distrazione non è fondata su un unico indizio, ma sulla
ricostruzione dei movimenti operata dal curatore fallimentare, che ha indicato

giustificati da esigenze aziendali e rispetto ai quali l’imputato non ha fornito
alcuna spiegazione.
1.2 La Corte territoriale ha fatto applicazione del consolidato principio affermato
da questa Sezione, secondo il quale sia l’imprenditore individuale, che è
illimitatamente responsabile con tutti i beni presenti e futuri ex art. 2740 c.c., sia
gli amministratori di una società dichiarata fallita, hanno l’obbligo di fornire la
dimostrazione della destinazione data ai beni acquisiti al patrimonio, in quanto la
destinazione legale dei beni del debitore all’adempimento delle obbligazioni
contratte comporta una limitazione della libertà di utilizzare gli stessi, onde dalla
mancata dimostrazione può essere desunta la prova della distrazione o
dell’occultamento (Sez. 5, n. 7048 del 27/11/2008 – dep. 18/02/2009, Bianchini,
Rv. 243295; Sez. 5, n. 3400 del 15/12/2004 – dep. 02/02/2005, Sabino, Rv.
231411; Sez. 5, n. 7569 del 21/04/1999, Jovino, Rv. 213636).
La legge fallimentare, all’art. 87, comma 3 (anche prima della sua riforma)
assegna al fallito un obbligo di verità circa la destinazione dei beni di impresa al
momento dell’interpello formulato dal curatore al riguardo, con espresso
richiamo alla sanzione penale. Immediata è la conclusione che le condotte
descritte all’art. 216, comma 1, n. 1 (tra loro sostanzialmente equipollenti)
hanno (anche) diretto riferimento alla condotta infedele o sleale del fallito nel
contesto dell’interpello. Osservazioni che giustificano l'(apparente) inversione
dell’onere della prova ascritta al fallito, nel caso di mancato rinvenimento di
cespiti da parte della procedura e di assenza di giustificazione al proposito (o di
giustificazione resa in termini di spese, perdite ed oneri attinenti o compatibili
con le fisiologiche regole di gestione).
2. Il secondo motivo di ricorso è generico.
2.1 Il ricorrente ripropone la stessa argomentazione svolta nei motivi di appello,
mirante ad escludere la responsabilità penale per le cattive condizioni di salute
che lo indussero a rilasciare una delega sul conto corrente ad un altro soggetto;

3

prelievi di denaro dal conto “denaro in cassa” per 889.700.000 lire, non

in tal modo il ricorrente trascura di prendere in considerazione e non si confronta
con la motivazione della sentenza di appello, la quale riconduce le operazioni di
prelievo a momenti diversi da quelli dei ricoveri ospedalieri ed esclude il rilievo
della delega rispetto a tali adempimenti, osservando altresì che comunque il
D’Alessio riceveva regolarmente gli estratti conto e non ebbe mai nulla da

lui approvati.
2.1 In tal modo l’atto di impugnazione non rispetta il requisito di cui all’art. 581
c.p.p., lett. c), secondo il quale devono essere enunciati nell’atto di
impugnazione “i motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli
elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”. Tale norma ha l’evidente
significato di imporre al titolare del diritto di impugnazione di individuare i capi e
i punti dell’atto impugnato che si intende sottoporre a censura e di esprimere un
vaglio critico in ordine a ciascuno di essi formulando argomentazioni che
espongano critiche analitiche (e, in definitiva, le ragioni del dissenso rispetto alle
motivazioni del provvedimento impugnato) le quali siano capaci di contrastare
quelle in esso contenute al fine di dimostrare che il ragionamento del giudice è
carente o errato.
3. Ciò si traduce in una genericità del motivo, poiché in tal modo esso tradisce
l’unica funzione per la quale è previsto e ammesso (la critica argomentata al
provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento ora
formalmente impugnato, lungi dall’essere destinatario di specifica critica
argomentata, è di fatto del tutto ignorato (Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013,
Leonardo, in motivazione). Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione è,
infatti, innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioè con specifica
indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il
dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta,
poiché diversamente i motivi devono essere considerati non specifici ma
soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una
critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del
11/03/2009, Arnone, Rv. 243838; Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv.
253849).
4. In conclusione il ricorso dell’imputato va dichiarato inammissibile. Alla
declaratoria di inammissibilità segue per legge, in forza del disposto dell’art. 616

4

obiettare sui prelevamenti, che dunque erano stati effettuati personalmente o da

c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al
versamento della somma, ritenuta congrua, di euro mille in favore della cassa
delle ammende.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 14 novembre 2013
Il consigliere estensore

Il Presidente

P.Q.M.

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