Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 6000 del 28/01/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 6000 Anno 2014
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: MACCHIA ALBERTO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SANSONE FRANCESCO N. IL 14/03/1950
avverso l’ordinanza n. 1213/2013 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del
09/07/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ALBERTO MACCHIA;
letfe/sentite le conclusioni del PG Dott. A .
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5,e„

Uditi difensor Avv.;

ai2t 114 2/72,,

Data Udienza: 28/01/2014

Con ordinanza del 9 luglio 2013, il Tribunale di Catania ha respinto la richiesta
di riesame avanzata nell’interesse di SANSONE Francesco avverso l’ordinanza
emessa il 22 giugno 2013 dal locale Giudice per le indagini preliminari con la quale
era stata disposta nei confronti del predetto la misura della custodia cautelare in
carcere per tentata estorsione aggravata dalla duplice circostanza di cui agli artt. 629,
secondo comma, in relazione all’art. 628, terzo comma, n, 3, cod. pen. e 7 del d.l. n.
152 del 1991. In particolare, i giudici del riesame nel disattendere le richieste
difensive, sottolineavano come la condotta posta in essere dall’imputato e dalle
persone con le quali l’addebito cautelare era stato configurato in chiave concorsuale,
tesa a costringere la persona offesa a corrispondere ad uno dei tre concorrenti una
somma della quale era debitore, aveva raggiunto lo stadio del tentativo e si doveva
qualificare come estorsione attese le modalità particolarmente pregnanti con cui si
erano estrinsecate le minacce ed il metodo mafioso impiegato nella circostanza.
Propone ricorso per cassazione il difensore il quale, rinnovando censure già
dedotte in sede di riesame e motivatamente disattese dai giudici del gravame, deduce
che nella specie mancherebbero i requisiti della violenza e minaccia nonché quelli
della idoneità e della univocità degli atti, sicchè, al più, i fatti potevano ritenersi
integrare il reato di cui all’art. 393 cod. pen. Difetterebbero, poi, gli estremi per
ritenere che i fatti siano aggravati a norma dell’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991.
Il ricorso è palesemente infondato. Secondo la consolidata giurisprudenza di
questa Corte, infatti, nel tentativo gli atti sono idonei quando, valutati ex ante ed in
concreto, singolarmente e nel loro coordinato comporsi un complesso unitario,
presentino la ragionevole attitudine a determinare l’evento costitutivo del delitto che
si vuole commettere. Si tratta, quindi, di un apprezzamento che deve tenere conto di
tutte le circostanze del caso concreto e delle specifiche modalità della azione secondo
la prospettiva della prognosi postuma, con la conseguenza che l’idoneità va verificata
in funzione della specifica capacità causale a produrre l’evento e conseguentemente
ad esporre a pericolo il bene protetto, escludendosi rilievo ad elementi casuali, quali
la stessa presenza e intervento delle forze dell’ordine. Gli atti sono poi univoci
allorchè gli stessi, considerati in sé medesimi, per il contesto nel quale si inseriscono,
per la loro natura ed essenza rivelino — alla stregua delle norme di comune esperienza
e secondo l’id quod plerumque accidit — l’intenzione de” ll’agente. Anche di recente si
è infatti ribadito che in tema di tentata estorsione, l’idoneità ed univocità degli atti
vanno valutate con giudizio ex ante, tenendo presenti la connotazione storica del
fatto, le sue effettive implicazioni in riferimento sia alla posizione dell’autore della
condotta che a quella del suo interlocutore, nonché il significato del linguaggio e del
messaggio alla stregua delle abitudini locali. (Nella specie l’imputato, tramite un
proprio emissario, aveva dapprima manifestato ad un imprenditore edile l’intenzione
di parlargli e successivamente richiesto allo stesso di telefonare, giacché,
i

OSSERVA

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diversamente, vi sarebbe stato un incendio). (Sez. 6, n. 197 del 15/12/2011 – dep.
10/01/2012, Cava, Rv. 251493).
Ebbene, nella specie, che la condotta posta in essere dall’imputato assieme ai
correi fosse giunta ad una soglia tale da far ritenere del tutto imponderabile un arresto
della stessa, e che fosse stato ampiamente raggiunto lo stadio del tentativo, lo si
desume pacificamente dalla articolata descrizione della vicenda compiuta dai giudici
a quibus, i quali hanno scandagliato la dinamica dei fatti, la particolare portata
intimidatoria delle frasi e degli atteggiamenti utilizzati per costringere la vittima ad
effettuare il pagamento, la reiterazione degli “avvertimenti” mafiosi, e l’effetto
intimidatorio che ha indotto la vittima a sollecitare l’intervento delle forze dell’ordine
e consentire di avviare le indagini.
A proposito, poi, della possibilità — per la verità soltanto accennata dal
ricorrente — di inquadrare i fatti nel perimetro del reato di cui all’art. 393 cod. pen., va
rammentato che può parlarsi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia
o violenza alle persone soltanto se il comportamento dell’agente si sia concretizzato
nella realizzazione di una pretesa di diritto mediante la sostituzione della privata
violenza agli effetti coattivi che scaturiscono, o che possono comunque scaturire, dal
provvedimento giurisdizionale, conseguendo così direttamente, anche se con arbitrio,
a causa dei mezzi impiegati, lo stesso effetto positivo che può scaturire da una
posizione soggettiva qualificata, regolarmente azionata secundum ius. Il delitto di cui
all’art. 393 cod. pen. si traduce, infatti — come anche rivela la sua collocazione
topografica nel quadro dei reati contro l’amministrazione della giustizia — nella
indebita attribuzione a sé stesso, da parte del privato, di poteri e facoltà spettanti
esclusivamente al giudice, e l’agente deve essere animato dal fine di esercitare un
diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli competa effettivamente e
giuridicamente in toto, con la conseguenza che il reato di cui all’art. 393 cod. pen.
non può ritenersi configurabile quando si tratti di pretesa illegittima in tutto o in parte
o sia giuridicamente impossibile il ricorso al giudice. D’altra parte, è pure ricorrente,
come gli stessi giudici a quibus hanno puntualmente rammentato, l’insegnamento
secondo il quale, per la sussistenza della fattispecie in questione, è necessario non
solo che la pretesa arbitrariamente esercitata sia munita di specifica azione, ma anche
che la condotta illegittima sia mantenuta nei limiti di quanto il soggetto avrebbe
potuto ottenere per via giudiziaria, escludendosi, dunque, l’applicabilità dell’art. 393
cod. pen., ove il fatto trasmodi il fine, connotando in termini di ingiustizia sostanziale
‘l’obiettivo perseguito. Anche di recente si è infatti ribadito che integra il delitto di
estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta
minacciosa che esprime tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole
intento di far valere un proprio, preteso diritto, sicché la coartazione dell’altrui
volontà deve ritenersi assuma ex se i caratteri dell’ingiustizia. (Sez. 5, n. 19230 del
06/03/2013 – dep. 03/05/2013, Palazzotto e altro, Rv. 256249).
Nella specie, i giudici del merito hanno dato puntualmente conto della chiara
metodologia mafiosa utilizzata per intimidire la persona offesa, con espressioni e
comportamenti simbolici altamente denotativi del contesto in cui i personagg

P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende. Si provveda a
norma dell’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso in Roma, il 28 gennaio 2014
Il Consi

estensore

A Il Presidente

coinvolti dal preteso creditore si muovevano, realizzando, quindi ad un tempo, non
solo i presupposti per ritenere nella specie integrata la contestata aggravante di cui
all’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, ma anche la ontologica impossibilità di sussumere i
fatti nell’ambito della ragion fattasi, rispetto alla quale la intimidazione mafiosa si
pone, sul piano tanto oggettivo che soggettivo, in termini di evidente contrasto.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di
una somma che si stima equo determinare in euro 1.000,00 alla luce dei principi
affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.

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