Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 598 del 12/11/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 598 Anno 2014
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: SABEONE GERARDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MANNI ALDO N. IL 15/01/1973
avverso la sentenza n. 5/2011 CORTE ASSISE APPELLO di
VENEZIA, del 06/07/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 12/11/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GERARDO SABEONE
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. ei.v iktik
che ha concluso per ) 00,A‘mmtz 444 L

g

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 12/11/2013

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Assise di Appello di Venezia, con sentenza del 6 luglio 2012,
ha sostanzialmente confermato, riducendo soltanto la pena, la sentenza della
Corte di Assise di Venezia del 18 ottobre 2010 ed ha condannato Manni Aldo per

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato,
personalmente, il quale lamenta, quale unico motivo, la mancanza della
motivazione, con particolare riferimento all’ipotesi della cosiddetta motivazione
per relationem ricostruttiva della vicenda processuale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile, in quanto manifestamente infondato il
relativo motivo.
2. Nel delineare i limiti di legittimità della motivazione per relationem
della sentenza di appello, questa Corte ha avuto modo di precisare che
l’integrazione della motivazione tra le conformi sentenze di primo e secondo
grado sia possibile soltanto se nella sentenza d’appello sia riscontrabile un nucleo
essenziale di argomentazione, da cui possa desumersi che il Giudice del secondo
grado, dopo avere proceduto all’esame delle censure dell’appellante, abbia fatto
proprie le considerazioni svolte dal primo Giudice.
Più specificamente, l’ambito della necessaria autonoma motivazione del
Giudice d’appello risulta correlato alla qualità e alla consistenza delle censure
rivolte dall’appellante: se questi si limita alla mera riproposizione di questioni di
fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo Giudice,
oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il Giudice
dell’impugnazione ben può motivare per relazione e trascurare di esaminare
argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati.
Quando, invece, le soluzioni adottate dal Giudice di primo grado siano
state specificamente censurate dall’appellante, sussiste il vizio di motivazione,
sindacabile ex articolo 606 cod.proc.pen., comma 1, lett. e), se il Giudice del
gravame si limiti a respingere tali censure e a richiamare la contestata
motivazione in termini apodittici o meramente ripetitivi, senza farsi carico di
1

il delitto di omicidio preterintenzionale in danno di Novella Giangastone.

argomentare sulla fallacia o inadeguatezza o non consistenza dei motivi di
impugnazione. (v. Cass. Sez. VI 12 giugno 2008 n. 35346).
Nella specie si è verificata l’ipotesi di legittima motivazione per relationem
a cagione della riproduzione, quali motivi dell’impugnazione, delle censure
proposte in prime cure ed a fronte della completezza della decisione del primo
Giudice; il tutto non senza considerare, con assorbente considerazione, che il

nell’impugnata decisione e vi abbia sovrapposto le proprie logiche considerazioni
proprio in funzione delle doglianze dell’appellante.
Al generale obbligo di motivazione corrisponde, inoltre, un ulteriore
obbligo specifico in punto di apprezzamento del corredo probatorio, giacché
paradigmaticamente, a norma dell’articolo 192, comma 1, del codice di rito, dei
risultati che scaturiscono dalla valutazione della prova e dei criteri adottati (il
profilo “sostanziale” del tasso di persuasività della prova, e quello “metodologico”
del percorso seguito per giungere a quel determinato convincimento) il Giudice è
chiamato a darne conto nella motivazione.
I limiti che, pertanto, presenta nel giudizio di legittimità il sindacato sulla
motivazione, ineluttabilmente si riflettono, dunque, anche sul controllo in ordine
alla valutazione della prova, giacché altrimenti anziché verificare la correttezza
del percorso decisionale adottato dai Giudici del merito, alla Corte di Cassazione
sarebbe riservato un compito di rivalutazione delle acquisizioni probatorie,
sostituendo, in ipotesi, all’apprezzamento motivatamente svolto nella sentenza
impugnata, una nuova e alternativa valutazione delle risultanze processuali che
ineluttabilmente sconfinerebbe in un eccentrico terzo grado di giudizio.
Da qui, il ripetuto e constante insegnamento (v. Cass. Sez. VI 15 marzo
2006 n. 10951 e Sez. V 6 ottobre 2009 n. 44914) in forza del quale, alla luce
degli espressi e non casuali limiti che circoscrivono, a norma dell’articolo 606,
comma 1, lett. e) cod.proc.pen., il controllo del vizio di motivazione in
Cassazione la Corte non deve stabilire se la decisione di merito proponga la
migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve
limitarsi a verificare, sulla base del testo del provvedimento impugnato, se
questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una
plausibile opinabilità di apprezzamento: e ciò proprio perché il richiamato articolo
606, comma 1, lett. e), cod.proc.pen., non consente alla Corte, che deve
limitarsi ad apprezzare la adeguatezza del corredo argomentativo e la non
manifesta illogicità del relativo percorso, di procedere ad una diversa lettura dei
dati processuali o ad una diversa interpretazione delle prove (o della relativa
2

Giudice dell’appello si sia basato soprattutto sugli accertamenti di fatto contenuti

affidabilità ed inferenza), perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo
della correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali.
Nella specie, la censura del ricorrente s’incentra su asserzioni circa una
diversa ricostruzione dei fatti piuttosto che su critiche all’operato dei Giudici del
merito e di conseguenza si manifesta in tutta la sua genericità.
Invero, nella esposizione dei fatti la Corte di Assise di Appello ha riportato

conclusioni sia del consulente tecnico della difesa che di quello della Pubblica
Accusa in relazione alla presunta causa del decesso e ne ha fatto logicamente
discendere, conformemente a quanto acclarato in prime cure, la penale
responsabilità del Manni a scapito dell’asserzione defensionale circa l’intento
suicidiario della vittima.
Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione “oltre ogni
ragionevole dubbio”, già adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema
(v. per tutte, Cass. Sez. Un. 10 luglio 2002 n. 30328) e successivamente
recepita nel testo novellato dell’articolo 533 cod.proc.pen. quale parametro cui
conformare la valutazione inerente all’affermazione di responsabilità
dell’imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell’icastica espressione,
mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio
costituzionale della presunzione di non colpevolezza e la cultura della prova e
della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale.
Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una
funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il
“ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre
il proscioglimento a norma dell’articolo 530 cod.proc.pen., comma 2, sicché non
si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova
rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito
il principio, immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario,
secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza
processuale assoluta della responsabilità dell’imputato (v. da ultimo Cass. Sez. H
9 novembre 2012 n. 7035).
Certezza che i Giudici a quo hanno logicamente espresso, sottraendo la
loro motivazione, pertanto, al lamentato vizio di legittimità.
3. In definitiva, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il
ricorrente condannato, altresì, al pagamento delle spese processuali e di una
somma di denaro in favore della Cassa delle Ammende, che appare equo
determinare in euro 1.000,00.
3

tutte le assunte deposizioni testimoniali, citate dall’odierno ricorrente, nonché le

P.T.M.
La Corte, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore

Così deciso in Roma, il 12 novembre 2013.

della Cassa delle Ammende.

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