Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5889 del 21/01/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 5889 Anno 2014
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: APRILE ERCOLE

SENTENZA

sul ricorso presentato dal
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Messina

nel procedimento nei confronti di
Capone Natale, nato a Messina il 19/02/1965

avverso l’ordinanza del 08/08/2013 del Tribunale di Messina;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Vincenzo Geraci, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l’indagato l’avv. Tommaso Autru Ryolo, che ha concluso chiedendo
l’inammissibilità o il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO
E CONSIDERATO IN DIRITTO

Data Udienza: 21/01/2014

1. Con l’ordinanza sopra indicata il Tribunale di Messina, adito ai sensi dell’art.
309 cod. proc. pen., confermava il provvedimento del 09/07/2013 con il quale il
Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale aveva disposto
l’applicazione della misura degli arresti domiciliari nei confronti di Natale Capone
in relazione ai reati di cui agli artt. 416 cod. pen. (capo 41) dell’imputazione),
81, 110, 314 cod. pen. (capo 44), 61 n. 2, 81 e 640 bis cod. pen. (capo 45), per
avere – nella veste di direttore amministrativo dell’A.N.CO.L., Associazione
Nazionale delle Comunità di Lavoro, destinataria dell’erogazione da parte della

aggiornamento professionale – fatto parte di un’associazione per delinquere
finalizzata alla commissione di una pluralità di reati di peculato e truffa
aggravata, commessi mediante il percepimento di denaro pubblico a seguito
della presentazione di progetti di corsi e del successivo deposito di
documentazione relativa a contratti di noleggio di attrezzatura varia da parte
dell’associazione Pianeta Verde, di cui il suddetto indagato era presidente,
noleggio effettuato ad un prezzo superiore a quello reale; nonché per avere
concorso nella consumazione dei relativi anzidetti reati fine.
Rilevava il Tribunale come gli elementi acquisiti durante le indagini avessero
dimostrato la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato,
anche se i fatti oggetto di addebito al capo 44) dell’imputazione dovessero essere
qualificati in termini di truffa aggravata e non di peculato, tenuto conto che
l’erogazione di fondi regionali in misura maggiorata era avvenuta, anche per le
quote di acconto, sulla base di quanto chiesto e rappresentato fraudolentemente
dalla associazione A.N.CO.L.

2. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso il Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Messina il quale, sottolineata l’esistenza del proprio
interesse ad impugnare, ha denunciato la violazione di legge, in relazione agli
artt. 640, 640 bis e 314 cod. pen., ed il vizio di motivazione, per avere il
Tribunale del riesame erroneamente qualificato i fatti oggetto di accertamento
giudiziale, posto che per le somme ricevute dall’associazione del Capone a titolo
di primo e di secondo acconto erano state liquidate senza alcuna verifica da parte
degli uffici regionali, chiamati ad effettuare un controllo solo sulla
documentazione giustificativa delle spese sostenute, prodotta in sede di
rendicontazione con la richiesta finale, talché le somme del finanziamento
pubblico ricevute dall’indagato, oggetto di appropriazione, erano già entrate nel
possesso o nella disponibilità dell’incaricato di pubblico servizio, talché la
successiva condotta di produzione di documentazione fraudolenta non era stata

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Regione Sicilia di finanziamenti per l’organizzazione di corsi di formazione e di

finalizzata a permettere quell’appropriazione ma a giustificarla formalmente ex
post.

3. Ritiene la Corte che il ricorso sia inammissibile.

3.1. Sussiste l’interesse del P.M. ad impugnare in quanto la questione della
corretta qualificazione giuridica dei fatti accertati ha, nel caso di specie, rilevanti
effetti pratici, incidendo sul computo del termine di durata della custodia

Leone, Rv. 251569, in relazione ad una fattispecie nella quale era stato
impugnato un provvedimento con cui 43Z&515:e l’originario reato di concussione
era stato ‘derubricato’ in quello di violenza privata; e, con riferimento ad una
ipotesi nella quale la questione concerneva la sussistenza di una circostanza
aggravante ad effetto speciale, dal cui riconoscimento sarebbe potuta conseguire
una più lunga durata dei termini di custodia, Sez. 1, n. 25949 del 27/05/2008,
P.M. in proc. Minotti e altri, Rv. 240464; contra la sola Sez. 6, n. 18091 del
08/03/2011, PM in proc. Bellavia, Rv. 250270).
L’interesse del P.M. è, infatti, sia concreto, perché la riqualificazione dei fatti,
originariamente contestati in termini di peculato, come ipotesi di truffa
aggravata, comporta, in ragione del diverso limite edittale massimo, un diverso e
più ridotto termine di durata della custodia cautelare per le fasi procedimentali
indicate rispettivamente nelle lett. a), h) e b bis) dell’art. 303, comma 1, cod.
proc. pen.; che attuale, poiché la mancata proposizione del ricorso per
cassazione da parte del P.M. avverso l’ordinanza del Tribunale che, in sede di
appello, aveva riqualificato i fatti addebitati, con effetti del tipo innanzi precisati,
avrebbe comportato una preclusione a riproporre la questione dinanzi al giudice
della cautela che fosse stato sollecitato a dichiarare la perdita di efficacia della
misura per decorrenza del termine di durata di fase.
D’altro canto, il riconoscimento, in siffatte situazioni, dell’interesse ad
impugnare del rappresentante della pubblica accusa appare coerente ad un
sistema nel quale, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di
legittimità, anche l’interesse dell’indagato a ricorrere per cassazione avverso
l’ordinanza del tribunale del riesame, che abbia ritenuto sussistente una
circostanza aggravante ad effetto speciale, sussiste solamente se da quella
statuizione conseguano immediati riflessi sulla valutazione della gravità del fatto
ovvero sul computo della durata massima della custodia cautelare (in questo
senso, tra le molte, Sez. 6, n. 7203 del 08/02/2013, Vuocolo, Rv. 254507; Sez.
1, n. 30531 del 30/06/2010, Bonfitto, Rv. 248320).

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cautelare (in senso conforme Sez. 6, n. 48764 del 06/12/2011, Pmt in proc.

Va, dunque, ribadito il principio di diritto secondo il quale nel procedimento
incidentale cautelare sussiste l’interesse del P.M. ad impugnare il provvedimento
con il quale venga diversamente qualificato il reato addebitato quando da tale
decisione consegua la revoca della misura cautelare in corso o la riduzione dei
termini di durata massima della medesima misura.
Né conduce ad una differente conclusione la circostanza che, nel caso oggi in
esame, l’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame rechi nel dispositivo una
decisione di conferma del provvedimento genetico della misura cautelare e solo

reato sub capo 44), in quanto è pacifico che, a differenza di quanto accade per la
sentenza, nella quale la statuizione contenuta nel dispositivo prevale sempre
sull’eventuale contenuto difforme della parte motiva, nella ordinanza – qual è
quella adottata dal Collegio ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen. – vi è una
inscindibilità tra dispositivo e motivazione talchè, in caso di divergenza, è
doverosa una lettura integrata dell’intero provvedimento (così, ex multis, Sez. 5,
n. 27787 del 20/05/2004, Fattorusso, Rv. 228709; Sez. 1, n. 4857 del
09/07/1999, Garreffa, Rv. 214089).

3.2. Tuttavia, la doglianza formulata dal P.M. è, nel merito, manifestamente
infondata.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio
secondo il quale la distinzione tra peculato e truffa non va ravvisata nella
precedenza cronologica dell’appropriazione rispetto all’attività ingannatoria o
viceversa, ma nel modo in cui il funzionario infedele viene in possesso del danaro
del quale si appropria: per cui sussiste peculato quando l’agente fa proprio il
danaro della pubblica amministrazione, del quale abbia già il possesso per
ragione del suo ufficio o servizio, mentre vi è truffa qualora il pubblico ufficiale o
l’incaricato di pubblico servizio, non avendo tale possesso, si sia procurato
fraudolentemente, con artifici e raggiri, la disponibilità del bene oggetto della sua
illecita condotta. Più in particolare, ricorre il peculato quando l’artificio od il
raggiro (anche mediante la creazione di falsa documentazione) siano stati posti
in essere non per entrare in possesso del pubblico danaro, ma per occultare la
commissione dell’illecito; al contrario, nella truffa il momento consumativo del
reato coincide con il conseguimento del possesso a cagione dell’inganno e quale
diretta conseguenza di esso (così Sez. 6, n. 11902 del 11/05/1994, Capponi ed
altro, Rv. 200200; in senso conforme, in seguito, Sez. 6, n. 32863 del
25/05/2011, P.G. in proc. Pacciani, Rv. 250901; Sez. 1, Sentenza n. 26705 del
13/05/2009, Troso, Rv. 244710; Sez. 6, n. 35852 del 06/05/2008, Savorgnano,
Rv. 241186; Sez. 6, n. 5799 del 21/03/1995, Ummaro, Rv. 201680;
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nella motivazione la precisazione della differente qualificazione giuridica data al

sostanzialmente in termini anche Sez. 6, n. 16980/08 del 18/12/2007, Gocini e
altri, Rv. 239842).
A tale regula iuris il Tribunale di Messina si è correttamente uniformato,
evidenziando, con motivazione congrua, priva di vizi di manifesta illogicità, come
gli artifici, descritti nei capi d’imputazione, fossero serviti non per “mascherare”
le indebite appropriazioni di denaro, bensì proprio per ottenere disposizioni
patrimoniali da parte degli uffici dell’ente pubblico tratti in inganno. In altri
termini, il denaro oggetto di indebita appropriazione non era “in possesso” dei

corsi di formazione professionale, ma era stato acquisito sulla base di
documentazione falsa utilizzata per creare la parvenza di esistenza di spese
‘gonfiate’ in relazione alle quali l’associazione sarebbe stata ammessa a
beneficiare di quei finanziamenti ed avrebbe ottenuto tanto gli importi a titolo di
acconto o anticipazione (nella misura rispettivamente del 50% e del 30%
rispetto al totale), liquidati sulla base di dichiarazioni di progetto e di preventivi
di spese che già contenevano l’indicazione di costi in misura maggiorata
(dunque, somme anticipate in proporzione appunto alle spese prospettate);
quanto l’importo finale a saldo (del residuo 20%), determinato sulla base di una
verifica contabile sui costi (apparentemente) reali, in base alla documentazione
di spesa formalmente già sostenuta. In pratica, è stato convincentemente
chiarito come fosse irrilevante che i dirigenti dell’associazione aggiudicataria del
finanziamento pubblico avessero dapprima indicato quelle spese e poi le
avessero rendicontate come effettuate solo al momento della liquidazione della
terza ed ultima tranche del finanziamento: l’operazione economica illecita doveva
essere considerata in maniera unitaria, considerato che sin dall’inizio era stato
prospettato all’ente pubblico finanziatore un costo sproporzionato, ‘valorizzando’
documentazione contenente la mendace rappresentazione della realtà, dunque
capace di trarre in inganno chi quelle carte avrebbe dovuto esaminare (v. pagg.
8-10 ord. impugn.).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso il 21/01/2014

responsabili dell’associazione che aveva chiesto ed ottenuto il finanziamento dei

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