Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 588 del 11/11/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 588 Anno 2016
Presidente: VECCHIO MASSIMO
Relatore: SANDRINI ENRICO GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MELA ALESSANDRO N. IL 13/08/1964
avverso l’ordinanza n. 676/2014 CORTE APPELLO di MILANO, del
04/11/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ENRICO GIUSEPPE
SANDRINI;
lette/sottite le conclusioni del PG Dott. 1,-13 5 bibi e- t, E rt A
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Data Udienza: 11/11/2015

RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza in data 4.11.2014 (oggetto, in data 16.12.2014, di correzione
di errore materiale contenuto nel dispositivo) la Corte d’appello di Milano ha
revocato il beneficio dell’indulto concesso ex lege n. 241 del 2006 a Mela
Alessandro con ordinanza 14.12.2012 del Tribunale di Milano nella misura di anni
2 mesi 10 giorni 20 di reclusione e € 800 di multa, per effetto della condanna
sopravvenuta alla pena di anni 12 di reclusione inflitta con sentenza pronunciata
il 26.03.2013 dalla medesima Corte territoriale per il delitto di cui all’art. 74 DPR

2. Ricorre per cassazione Mela Alessandro, personalmente, deducendo manifesta
illogicità della motivazione dell’ordinanza impugnata, con riguardo all’omessa
considerazione della cessazione della partecipazione al sodalizio criminoso prima
dell’entrata

in

vigore

del

provvedimento

indulgenziale,

a

seguito

dell’avvicendamento con Micale Angelo avvenuto nell’agosto 2005, già ritenuto
dal GIP nell’ordinanza applicativa della misura cautelare e confermato dalla
commissione dei reati fine attribuiti al Mela non oltre i mesi di novembre e
dicembre del 2005; censura l’omesso esercizio da parte del giudice
dell’esecuzione del potere di interpretare il giudicato al fine di individuare la
cessazione della permanenza del reato associativo, rilevante al fine di decidere la
questione a lui sottoposta.
3. Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte, chiedendo che il
ricorso sia qualificato come opposizione ai sensi dell’art. 667 comma 4 del codice
di rito.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Occorre preliminarmente rilevare che alla revoca dell’indulto deve procedersi,
ex art. 674 comma 1 cod.proc.pen., nelle forme dell’incidente di esecuzione
disciplinato dalle ordinarie regole contenziose previste dall’art. 666 commi 3 e
seguenti del codice di rito, e non nelle forme semplificate dell’ordinanza de plano
di cui all’art. 667 comma 4 invece richiamate dall’art. 672 per l’applicazione del
beneficio: avverso il provvedimento di revoca dell’indulto l’interessato è dunque
legittimato a proporre direttamente il ricorso per cassazione, e non il rimedio
dell’opposizione davanti allo stesso giudice dell’esecuzione.
2. Il ricorso è peraltro manifestamente infondato, e deve essere dichiarato
inammissibile, per le ragioni che seguono.
Il delitto per il quale è intervenuta la condanna del ricorrente alla pena di anni 12
di reclusione, che costituisce la causa di revoca dell’indulto ex art. 1 comma 3
legge n. 241 del 2006, è costituito dal reato associativo, di natura permanente,
di cui all’art. 74 DPR n. 309 del 1990, la cui condotta partecipativa è stata
contestata al Mela, e ritenuta in sede di cognizione, come commessa fino alr
1

n. 309 del 1990, commesso dal 1997 al 2009, oltre che per i relativi reati fine.

2009: l’ordinanza impugnata ha, quindi, fatto corretta applicazione al caso di
specie del principio di diritto per cui, in caso di reato permanente, la condizione
della commissione del delitto pregiudicante entro i cinque anni successivi alla
data di entrata in vigore del provvedimento indulgenziale deve ritenersi verificata
allorché la permanenza, ancorché iniziata in epoca antecedente, sia cessata
nell’ambito del suddetto arco temporale (Sez. 1 n. 5565 del 21/11/1994, Rv.
200406), ovvero nel quinquennio in questione sia comunque caduto un qualsiasi
frammento della condotta (Sez. 1 n. 1746 dell’8/03/2000, Rv. 215824).

cessazione della condotta associativa a un’epoca anteriore, in modo da farla
ricadere interamente nel periodo coperto dall’indulto e da escludere l’operatività
della (relativa) condanna come causa di revoca del beneficio, si risolvono in mere
deduzioni di fatto inidonee a superare o contraddire il giudicato di condanna
formatosi sulla permanenza della condotta fino al 2009; esse, tra l’altro, neppure
si confrontano con la motivazione dell’ordinanza impugnata laddove essa ha dato
atto che la sentenza di condanna pronunciata il 26.03.2013 dalla Corte d’appello
di Milano aveva bensì precisato che il Mela aveva ricoperto il ruolo di “braccio
destro” del capo del sodalizio criminoso fino al 2005, ma non aveva affatto
escluso la permanenza della sua partecipazione associativa, in un ruolo diverso,
anche in epoca successiva.
Del tutto inconferente si rivela, infine, il richiamo operato dal ricorrente al
precedente giurisprudenziale di questa Corte secondo cui, qualora in sede
esecutiva debba farsi dipendere un qualsiasi effetto giuridico dalla data di
cessazione della permanenza del reato, e questa non sia stata precisata nella
sentenza di condanna, spetta al giudice dell’esecuzione di procedere al relativo
accertamento attraverso un’attività di interpretazione del giudicato (Sez. 1 n.
45295 del 24/10/2013, Rv. 257725), e ciò in quanto l’indirizzo citato si riferisce
all’ipotesi in cui la contestazione del reato permanente sia stata effettuata, nel
giudizio di merito, in forma c.d. aperta, senza indicazione della data di
cessazione della condotta illecita, con conseguente operatività della regola – di
natura solo processuale, e perciò superabile dal giudice dell’esecuzione – per la
quale la permanenza, in tal caso, si considera di norma cessata con la pronuncia
della sentenza di primo grado; nel caso dì specie, invece, l’epoca di cessazione
della condotta partecipativa del Mela al sodalizio ex art. 74 DPR n. 309 del 1990
era stata puntualmente indicata nell’anno 2009, e conformemente accertata con
effetti sostanziali (e non meramente processuali) dalla sentenza di condanna,
insuscettibile perciò di interventi interpretativi sul punto in sede esecutiva.
3. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali e al versamento alla cassa delle ammende(

Le argomentazioni in base alle quali il ricorrente sostiene la retrodatazione della

della sanzione pecuniaria che si ritiene equo quantificare in 1.000 euro.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Così deciso l’11/11/2015

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