Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5861 del 20/12/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 5861 Anno 2014
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
VALLEFUOCO BIAGIO N. IL 05/07/1951
CALANDRA DAVIDE CORRADO N. IL 14/09/1961
AMIRANTE BRUNO N. IL 15/06/1972
avverso l’ordinanza n. 1706/2013 TRIB. LIBERTA’ di NAPOLI, del
18/03/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FERDINANDO
LIGNOLA;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.

Uditi difensor Avv.;

e

Data Udienza: 20/12/2013

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Giuseppe Volpe, ha
concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;
per Amirante Bruno è presente l’avv. Umberto Pappadia, in sostituzione dell’avv.
Giuseppe Stellato, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso ed ha
depositato un dispositivo di sentenza del G.U.P. del Tribunale di Santa Maria

dei tre indagati per il delitto di associazione per delinquere perché il fatto non
sussiste.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 20 febbraio 2013 il Gip del Tribunale di Santa Maria Capua
Vetere disponeva la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di
Vallefuoco Biagio, Calandra Davide Corrado e Amirante Bruno, per i delitti di
associazione per delinquere e di falsità ideologica per induzione in atto pubblico,
realizzati attraverso la materiale apposizione di firme false – perché riferite a
clienti ignari o deceduti – sui mandati di conciliazione depositati presso la Camera
di Commercio di Napoli e quindi sui mandati ad litem per la proposizione di
ricorsi relativi al rimborso delle spese di spedizione della fattura e/o ai canoni di
abbonamento nei confronti della Telecom S.p.A., presentati dinanzi al giudice di
pace di Santa Maria Capua Vetere.
1.1 Secondo la prospettazione accusatoria, recepita dal giudice per le indagini
preliminari, i tre indagati avevano messo in atto un meccanismo fraudolento per
effetto del quale si otteneva dal giudice di pace di Santa Maria Capua Vetere la
condanna di Telecom Italia S.p.A., anche al pagamento delle spese di giudizio,
nonostante l’assoluta inammissibilità del ricorso, proposto in nome di persone
defunte o del tutto inconsapevoli. Il reato associativo era dedotto
dall’indeterminatezza dei reati scopo e dalla specifica divisione dei compiti, in
forza di un accordo iniziale destinato a durare nel tempo ed a riproporsi ogni
volta che si acquisiva la documentazione necessaria per predisporre un ricorso
intestato a persona fisica che si assumeva fosse cliente Telecom: Vallefuoco
Biagio curava la fase di conciliazione, sulla base di mandati contraffatti dallo
stesso legale; Amirante Bruno si costituiva in giudizio, sulla base di un mandato
mai rilasciatogli; Calandra Davide si occupava dell’individuazione dei nominativi
per i quali doveva essere presentato ricorso e curava la fase esecutiva, per il
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Capua Vetere, riguardante una decisione di non luogo a procedere nei confronti

recupero delle spese legali liquidate dal giudice della cognizione.
1.2 I reati per i quali era emesso il titolo custodiale sono quelli dell’associazione
a delinquere e del falso ideologico per induzione, nel quale l’atto pubblico è
rappresentato dalle sentenze dei giudici di pace di accoglimento delle domande
dei ricorrenti, rispetto a domande in realtà inammissibili, in quanto proposte per

non titolari di contratto con il gestore telefonico. Agli indagati sono altresì
contestati i delitti di falsità in scrittura privata e falsità ideologica in certificati, in
relazione alle firme false apposte in calce ai mandati ad litem ed alle falsità delle
autentiche, nonché di truffa aggravata in danno della società Telecom S.p.A..
1.3 In esito all’interrogatorio di garanzia, il giudice per le indagini preliminari
sostituiva la misura custodiale con quella meno gravosa dell’obbligo di dimora
nei confronti del solo Amirante Bruno, tenuto conto dell’atteggiamento
collaborativo assunto dal prevenuto, attraverso l’immediata segnalazione di
ulteriori fascicoli processuali, frutto della medesima modalità di condotta, e la
successiva rinuncia ai mandati in corso.
2. Con ordinanza del 18 marzo 2013, il Tribunale di Napoli ha rigettato le
richieste di riesame proposte dagli indagati, confermando le misure cautelari in
atto.
2.1 II Tribunale ha condiviso e confermato l’inquadramento giuridico della
condotta contestata, con particolare riferimento al falso per induzione in
relazione alle sentenze del giudice di pace, osservando che attraverso l’autentica
di una sottoscrizione apocrifa, relativa a persona che mai ebbe a conferire alcun
incarico professionale, il difensore non si limita ad una mera certificazione di
autografia di una firma non apposta in sua presenza, riconducibile all’articolo 485
cod. pen., con la conseguenza di una sentenza errata in ordine alla fondatezza
della pretesa, ma pone in essere una condotta di induzione in errore del giudice
in ordine alla sussistenza dei presupposti logico giuridici necessari per l’adozione
del provvedimento, ossia la legitimatio in ius e quella ad causam.
3. Contro l’ordinanza del Tribunale di Napoli propongono ricorso per cassazione
tutti e tre gli indagati.
4. Amirante Bruno ha proposto due ricorsi, il primo dei quali sottoscritto dal
difensore, avv. Alfonso Quarto, affidato ad unico motivo, con il quale si deduce
violazione dell’articolo 606 lettera C, D ed E, cod. proc. pen., con riferimento agli
artt. 273, 292, comma 2, lettera C e C bis cod. proc. pen. e 48, 479 e 416 cod.
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conto di soggetti privi di legittimazione ad agire, deceduti, ignari o addirittura

pen.
4.1 In primo luogo si lamenta mancanza e/o apparenza di motivazione e
manifesta illogicità in relazione alle difese prospettate con memoria depositata in
udienza e riguardanti l’esistenza di un contratto tra l’indagato e l’avv. Calandra,
in base al quale era il secondo a reperire tutta la documentazione necessaria per

svolgeva la propria attività in completa buona fede, potendo fare completo
affidamento sul rispetto del contratto da parte del Calandra e dunque anche
sull’autenticità delle sottoscrizioni. Inoltre si richiama l’orientamento
giurisprudenziale e del Consiglio Nazionale Forense in base al quale l’avvocato
può delegare un collega a raccogliere la firma del cliente e successivamente
autenticarla, senza commettere illecito deontologico.
4.2 Sotto altro profilo si contesta la motivazione in ordine al delitto associativo,
ritenuta carente e manifestamente illogica, laddove indica un meccanismo in sé
perfettamente lecito, ovvero la presentazione di ricorsi per centesimi di euro
idonea a fruttare spese processuali per centinaia di euro, come sintomatico di
un’associazione a delinquere e trasforma un accordo lecito tra avvocati in un
elemento di organizzazione del sodalizio.
4.3 Infine si censura la qualificazione giuridica del falso per induzione, sia perché
a giudizio del ricorrente è necessario che a monte vi sia un falso ideologico
commesso dal privato in atto pubblico, sia perché la decisione del giudice, che si
assume essere “falsa”, è in realtà frutto di attività discrezionale e non può
rientrare nello schema del rapporto causa-effetto descritto dall’articolo 48 cod.
pen..
4.4 Con riferimento alle esigenze cautelari, il ricorrente deduce carenza di
motivazione, sia con riferimento agli elementi prospettati dalla difesa (l’indagato
ha reso spontanee dichiarazioni; ha consegnato il contratto e una serie di
fascicoli sfuggiti alla perquisizione; ha rinunciato a tutti i mandati e alle azioni
intraprese contro Telecom e non ha più patrocinato in alcuna procedura contro
detta società), sia con riferimento all’attualità del pericolo di reiterazione dei
reati.
5. Amirante Bruno ha proposto un secondo ricorso, sottoscritto dal difensore,
avv. Giuseppe Stellato, affidato a due motivi.
5.1 Con il primo motivo si deduce violazione di legge e difetto di motivazione in
relazione agli artt. 110, 48, 479, 416 e 640 cod. pen., poiché l’oggettiva falsità
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i ricorsi ed a raccogliere le firme poi autenticate dal primo, sicché l’Amirante

delle firme, ove ritenuta dimostrata attraverso una perizia a campione, nulla dice
in relazione alla consapevolezza in capo all’indagato di tale falsità, tenuto conto
delle particolari modalità di conferimento dei mandati, raccolti dai colleghi e
successivamente autenticati dall’indagato, nella piena convinzione che le firme
provenissero dai titolari, data la qualità dei rapporti intercorsi con gli altri colleghi

L’assenza di motivazione, che per il ricorrente è anche “grafica”, perché assoluta,
si desume dalla mancata considerazione proprio delle modalità di conferimento
dei mandati, poiché il Tribunale desume il dolo dell’Amirante dalla oggettività dei
fatti, ossia dalla circostanza che questi non abbia acquisito in prima persona le
firme autenticate.
5.2 Quanto poi alla falsità per induzione, si sottolinea l’incompatibilità con lo
schema di cui all’articolo 48 cod. pen. della decisione di un giudice, caratterizzata
da piena discrezionalità: la norma penale sostanziale richiede, ai fini
dell’induzione, che esista un rapporto immediato di causa-effetto tra la condotta
inducente e quella indotta, cosa che non sarebbe possibile ipotizzare rispetto ad
una sentenza.
5.3 In ordine al reato associativo si contesta la motivazione del Tribunale,
fondata sulla prova logica, poiché si rileva che il procedimento di inferenza logica
è possibile solamente laddove la premessa del ragionamento sia assolutamente
certa ed inequivoca e la sua conseguenza sia certamente ed inequivocamente
dimostrativa della responsabilità penale. Venuto meno il presupposto di
partenza, ossia il concorso nella falsità delle autenticazioni, per le ragioni già
indicate, la serialità dei ricorsi e la divisione dei compiti sulla base della scrittura
privata di collaborazione professionale – e dunque il mero svolgimento della
propria attività professionale – diventano elementi neutri, che si prestano a
lettura alternativa e non consentono dunque la deduzione di una gravità
indiziaria.
5.4 Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e difetto di motivazione
in relazione all’art. 274 cod. proc. pen., poiché il Tribunale del riesame non ha
preso in considerazione gli elementi specifici favorevoli all’indagato e risultanti
dagli atti processuali già prima dell’emissione dell’ordinanza cautelare, quali la
perquisizione operata nel marzo 2010, la successiva attività del ricorrente di
collaborazione con l’autorità giudiziaria e di dismissione dei mandati, nonchè il
contratto di collaborazione con l’avv. Calandra.
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e la tipologia “seriale” dei ricorsi da proporre.

6. Vallefuoco Biagio ha proposto due ricorsi, il primo dei quali sottoscritto dal
difensore, avv. Gianfranco Mallardo, affidato a quattro motivi.
6.1 Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell’articolo 606 lettera C,
in relazione all’art. 8 cod. proc. pen., poiché a suo giudizio l’ordinanza applicativa
della misura cautelare è stata emessa da un giudice territorialmente

individuato in relazione al reato associativo, certamente più grave, la cui
consumazione ha avuto inizio a Napoli, secondo la stessa ipotesi accusatoria. Il
ricorrente sottolinea che nel circondario di Napoli sono ubicate le sedi delle
associazioni e dei patronati in cui è stata raccolta la documentazione degli utenti
Telecom, utilizzata per predisporre i ricorsi; a Napoli ha sede lo studio legale
presso il quale sono state predisposte le domande di conciliazione e sono state
apposte le firme false.
6.2 Con il secondo motivo si deduce violazione dell’articolo 606 lettera B, in
relazione all’art. 479 cod. pen., poiché la condotta dell’indagato si sostanza in
una falsa certificazione, sanzionabile ai sensi dell’articolo 485 cod. pen., che non
può rappresentare un antecedente logico dell’atto del pubblico ufficiale.
6.3 Con il terzo motivo si deduce violazione dell’articolo 606, lettera B, C ed E, in
relazione agli artt. 274, 292, comma 2 lettera C bis e 309, comma 9, cod. proc.
pen., poiché l’ordinanza impugnata non ha valutato gli apporti probatori delle
difese ed ha travisato i fatti rispetto alle risultanze di specifiche fonti di prova.
Quanto al primo aspetto si ribadisce che il ricorso preventivo alla procedura
conciliativa rispetto all’instaurazione del giudizio dinanzi al giudice di pace non è
obbligatorio, per cui del tutto errata è la motivazione che fa leva proprio su tale
procedura per dedurre un ruolo “essenziale” dell’indagato nell’associazione.
In ordine al secondo aspetto si sottolinea l’errore del Tribunale, laddove ha
ritenuto necessaria l’autentica del difensore anche nella fase conciliativa, nella
quale invece è sufficiente la mera sottoscrizione del privato.
A giudizio del ricorrente il Tribunale ha erroneamente applicato la regola
metodologica fissata dall’articolo 192, comma 2, cod. proc. pen.
nell’apprezzamento degli indizi, pervenendo ad una motivazione illogica e
contraddittoria, viziata dall’erronea valutazione del materiale probatorio acquisito
(in particolare dal travisamento dei dati oggettivi e dalle dichiarazioni rese dagli
indagati); il Tribunale ha disatteso, senza neppure esprimersi sulla fondatezza
dei rilievi metodologici, la consulenza grafologica redatta per la difesa dall’avv.
6

incompetente, per essere competente il G.I.P. presso il Tribunale di Napoli,

prof. Gennaro Mazza, la quale confutava l’unico indizio di colpevolezza a carico
del Vallefuoco, rappresentato dalla falsificazione delle sottoscrizioni alle istanze
di conciliazione; non ha considerato i rilievi difensivi sulle dichiarazioni della
dottoressa Amelia Moio, praticante avvocato presso lo studio Vallefuoco,
allontanata dallo studio per una serie di errori ed inadempienze.

indicato quale domiciliatario nelle istanze di conciliazione in favore del Calandra,
che egli conosceva come consulente di associazioni di consumatori, per cui
l’attività conciliativa ben poteva giustificarsi quale tutela esclusiva dei
consumatori stessi e non certo in vista di una successiva azione giudiziale; la
diversa ricostruzione dei fatti condivisa dal Tribunale di Napoli non ha tenuto
conto di una serie di elementi (quale la mancata partecipazione agli accordi
economici tra gli avvocati Calandra e Amirante; la presenza negli atti sequestrati
dell’autorizzazione al trattamento dei dati personali con la firma del cliente falso,
da conservare nel fascicolo di studio; l’assenza di qualsiasi procedura in cui l’avv.
Vallefuoco abbia patrocinato cause relative a “filoni” contro la Telecom) che
avrebbero dovuto condurre ad escludere i gravi indizi di colpevolezza a suo
carico.
Con riferimento al reato associativo, si deduce carenza del requisito del vincolo
associativo permanente, destinato a durare oltre la realizzazione degli specifici
delitti di falso, nonché carenza dello scopo comune, poiché dal contratto che
regola la divisione dei proventi viene escluso l’indagato.
6.3 Con il quarto motivo si deduce mancanza delle esigenze cautelari, poiché il
Tribunale ha valorizzato la mancanza di provvedimenti interdittivi di competenza
degli ordini professionali, così confermando che le esigenze potevano essere
adeguatamente tutelate mediante misura interdittiva.
7. Vallefuoco Biagio ha proposto un secondo ricorso, sottoscritto dal difensore,
avv. Angelo Raucci, affidato a due motivi.
7.1 Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell’articolo 606 lettera B,
in relazione agli artt. 8 e 9 cod. proc. pen., poiché a suo giudizio l’ordinanza
applicativa della misura cautelare è stata emessa da un giudice territorialmente
incompetente, per essere competente il G.I.P. presso il Tribunale di Napoli,
individuato in relazione al reato associativo, certamente più grave, la cui
consumazione ha avuto inizio a Napoli secondo la stessa ipotesi accusatoria,
poiché il vincolo associativo si è costituito a Napoli e comunque la prima fase del
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Secondo la tesi difensiva l’indagato si limitò a rendersi disponibile ad essere

programma associativo si è realizzato a Napoli, con la predisposizione e
presentazione delle domande di conciliazione alla Camera di commercio.
7.2 Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell’articolo 606 lettera
B ed E, in relazione agli artt. 192, commi 1 e 2 e 273 cod. proc. pen., per
mancanza, apparenza, contraddittorietà ed omessa valutazione degli elementi

l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità che identifica i gravi indizi di
colpevolezza previsti dall’articolo 273 del codice di rito, con gli indizi “gravi,
precisi e concordanti”

richiesti dall’articolo 192, comma 2, ai fini

dell’accertamento della responsabilità.
Secondo il ricorrente, trascurando gli elementi probatori di natura favorevole e le
doglianze di parte, il Tribunale ha per un verso erroneamente applicato le regole
di apprezzamento della prova indiziaria e dall’altra tradito il proprio obbligo di
motivare sulle deduzioni difensive. In particolare si censura la valutazione di
inattendibilità della consulenza grafologica di parte in ordine alle firme apocrife
apposte sui mandati di conciliazione ed il travisamento delle dichiarazioni del
coindagato Calandra, riguardante solamente i mandati riferibili all’Amirante,
poiché invece le sottoscrizioni apposte alle richieste di conciliazione non recano
alcuna autenticazione.
8. Calandra Davide Corrado ha proposto ricorso, sottoscritto dal difensore, avv.
Umberto Del Basso De Caro, affidato a due motivi.
8.1 Con il primo motivo si deduce violazione dell’articolo 606 lettera B ed E, in
relazione alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine al
delitto associativo. Il ricorrente contesta, sotto il profilo della illogicità, che la
presentazione di ricorsi seriali possa rappresentare un indizio di
un’organizzazione sofisticata e dunque di una compagine associativa. Il
ricorrente ricorda che l’organizzazione dell’attività professionale è una
conseguenza necessitata proprio dal carattere seriale dei ricorsi ed è di per sè
espressione di un’attività lavorativa lecita, soprattutto alla luce del contratto tra
l’indagato e l’Amirante, evocativo di un accordo legittimo tra professionisti.
Inoltre si sottolinea la mancanza di un elemento tipico della fattispecie
associativa, rappresentato dalla indeterminatezza del programma criminoso,
essendo l’accordo finalizzato alla presentazione di determinati ricorsi, aventi un
preciso oggetto.
8.2 Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge penale
8

favorevoli all’imputato in ordine gravi indizi di colpevolezza. Il ricorrente richiama

relazione agli artt. 48 e 479 cod. pen., poiché il fatto andava sussunto nella
previsione dell’art. 481 o al più dell’art. 485 cod. pen.: essendo l’avvocato
qualificabile come esercente di un servizio di pubblica necessità, l’autentica di
firma rientra nella previsione della falsità ideologica commessa da persona
esercente un servizio di pubblica necessità, come affermato proprio dalla Quinta

(sent. 3135 del 2003) e non integra illecito disciplinare laddove non attesti che la
sottoscrizione sia avvenuta in presenza del professionista (decisione del Consiglio
Nazionale Forense del 28 dicembre 2005, n. 157). Si esclude invece
l’applicabilità dello schema del delitto di falso per induzione, che può verificarsi
solamente laddove la falsa attestazione del dichiarante abbia rilievo nella parte a
contenuto narrativo dell’atto falso, come documentazione di fatti o di situazioni
influenti sulla decisione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi vanno rigettati.
1.1 1.1 Prima di esaminare i singoli motivi, è necessario ricordare che a questa
Corte non possono essere sottoposti giudizi di merito, non consentiti neppure
alla luce del nuovo testo dell’art. 606 cod. proc. pen., lettera E. Va infatti
premesso che la modifica normativa di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46 lascia
inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di cassazione, che può
essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito. Il
nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, il cui vizio di
mancanza, illogicità o contraddittorietà può ora essere desunto non solo dal testo
del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente
indicati; è perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova,
che si realizza allorché si introduce nella motivazione un’informazione rilevante
che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova
decisiva ai fini della pronunzia.
1.2 Con specifico riferimento all’impugnazione dei provvedimenti adottati dal
giudice del riesame dei provvedimenti sulla libertà personale, l’ordinamento non
conferisce alla Corte di Cassazione alcun potere di revisione degli elementi
materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi,
nè alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato,
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Sezione di questa Corte (sent. 22496 del 2005), o del falso in scrittura privata

ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute
adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e
insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare,
nonché del Tribunale del riesame. Il controllo di legittimità sui punti devoluti è,
perciò, circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare che

negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità: 1)
l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato;
2) l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto
al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 2, n. 56 del 07/12/2011 – dep.
04/01/2012, Siciliano, Rv. 251760).
1.3 Inoltre il controllo di legittimità sulla motivazione delle ordinanze di riesame
dei provvedimenti restrittivi della libertà personale è diretto a verificare, da un
lato, la congruenza e la coordinazione logica dell’apparato argomentativo che
collega gli indizi di colpevolezza al giudizio di probabile colpevolezza dell’indagato
e, dall’altro, la valenza sintomatica degli indizi. Tale controllo, stabilito a garanzia
del provvedimento, non involge il giudizio ricostruttivo del fatto e gli
apprezzamenti del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e
la concludenza dei risultati del materiale probatorio, quando la motivazione sia
adeguata, coerente ed esente da errori logici e giuridici. In particolare, il vizio di
mancanza della motivazione dell’ordinanza del riesame in ordine alla sussistenza
dei gravi indizi di colpevolezza non può essere sindacato dalla Corte di
legittimità, quando non risulti

prima facie

dal testo del provvedimento

impugnato, restando ad essa estranea la verifica della sufficienza e della
razionalità della motivazione sulle questioni di fatto (Sez. 2, n. 56 del
07/12/2011 – dep. 04/01/2012, Siciliano, Rv. 251761).
2. Fatte queste premesse di ordine generale, appare evidente che alcune delle
censure proposte dai ricorrenti attengono proprio al giudizio ricostruttivo del
fatto.
2.1 In questa prospettiva vanno valutate le doglianze riguardanti l’elemento
soggettivo del delitto di falso, proposte con il primo motivo di entrambi i ricorsi
proposti da Amirante, poiché si tenta di accreditare una diversa lettura degli
elementi investigativi e non si tiene conto di un elemento fondamentale che
sorregge anche la motivazione in ordine alla sussistenza del reato associativo,
ossia la consapevolezza in ciascuno degli indagati (che peraltro non hanno
10

il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro

negato di collaborare tra di loro) del ruolo e dell’attività svolta dagli altri.
2.2 Per la stessa ragione deve ritenersi inammissibile anche la censura
riguardante la sussistenza del delitto di associazione a delinquere (che va
comunque esaminata, perché il dispositivo di proscioglimento prodotto in
udienza dal difensore privo di procura speciale non fa venir meno l’interesse alla

motivazione dell’ordinanza è logica, coerente, priva di contraddizioni e le
deduzioni dell’Amirante (contenute in entrambi i ricorsi), del Vellefuoco (in
entrambi i ricorsi) e del Calandra (primo motivo) presuppongono una diversa
ricostruzione dei fatti. Amirante e Calandra concordano nel ritenere di essersi
limitati allo svolgimento di attività difensiva (lecita) in relazione a numerosi, ma
predeterminati ricorsi di carattere seriale, come risulterebbe da una scrittura
privata intervenuta tra di loro; Vallefuoco addirittura afferma di essersi limitato a
consentire una domiciliazione in relazione ad una attività conciliativa, che
neppure presupponeva una successiva presentazione di ricorsi in sede giudiziaria
e tanto afferma, tra l’altro, sulla base della medesima scrittura privata che non lo
riguardava.
Nella prospettiva accusatoria, fatta propria dai giudici di merito, invece, ciascuno
dei tre indagati aveva un preciso compito nel meccanismo truffaldino, concepito
rispetto ad un numero indeterminato di affari: Calandra procurava i nominativi
dei ricorrenti; Vallefuoco curava la fase di conciliazione; Amirante la fase
contenziosa; Calandra si occupava poi della fase esecutiva di recupero delle
spese liquidate dai giudici di pace in danno della Telecom.
In tale chiave di lettura, evidentemente, l’accordo tra Amirante e Calandra non
ha alcuna valenza probatoria, poiché, come del tutto logicamente osserva il
Tribunale per il riesame, esso rappresenta

“un paravento ufficiale,

apparentemente legale, a copertura di un accordo assolutamente illecito,
espressione di un programma illegale”, che non fa venire meno il vincolo
associativo tra i tre, che evidentemente era stato stipulato allo scopo di
consentire a ciascuno di difendersi da eventuali accuse penali.
2.3 Manifestamente infondata, allora, è anche la censura proposta dell’Amirante
al provvedimento del Tribunale di Napoli, di aver trascurato la deduzione
difensiva in ordine al contratto con il Calandra: il documento è stato valutato dai
giudici del riesame, ma è stato ritenuto semplicemente espressione di un
accordo simulatorio.
11

decisione, in difetto di una valida rinuncia al motivo), rispetto al quale la

2.4 Ancora inammissibile deve considerarsi la censura di Vallefuoco riguardante il
suo ruolo nella vicenda e l’omessa considerazione della consulenza difensiva in
ordine alla falsità delle sottoscrizioni in calce alle istanze di conciliazione (terzo
motivo del primo ricorso, sostanzialmente coincidente con il secondo motivo del
secondo ricorso): il Tribunale del riesame ha preso in esame specificamente la

di quella del pubblico ministero, poiché le valutazioni espresse partono da un
dato di partenza scarsamente attendibile (la valutazione dei documenti non in
originale) rispetto ad alcuni dei criteri utilizzati per escludere la paternità della
scrittuta dell’indagato (le penne utilizzate, le carte oggetto di scrittura,
l’inchiostro, le caratteristiche generali della grafia, quali la pressione, la
continuità e il calibro).
Anche la deduzione riguardante il carattere non essenziale della procedura
conciliativa (peraltro affermata solo da una parte della giurisprudenza di merito)
è stata espressamente disattesa, osservando che in tutte le procedure in cui
sono emersi i falsi era sempre stata esperita tale procedura, che dunque, nel
sistema in esame era, in concreto, una fase essenziale.
A fronte di tale completa motivazione la valutazione del Tribunale appare
incensurabile; vi è soltanto da ribadire come nel giudizio di cassazione il controllo
di legittimità sulle ordinanze emesse in sede di riesame è diretto semplicemente
ad accertare che a base della pronuncia esista un concreto apprezzamento delle
risultanze processuali e che la motivazione non sia puramente assertiva o
palesemente affetta da errori logico-giuridici, mentre restano escluse da tale
controllo le deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza
dei fatti indizianti, la valutazione comparativa della loro attendibilità, la scelta di
quelli determinanti (Sez. 6, n. 1909 del 18/06/1993, Pasquale, Rv. 194951; Sez.
2, n. 56 del 07/12/2011 – dep. 04/01/2012, Siciliano, Rv. 251760).
3. Passando all’esame delle altre doglianze proposte dagli indagati, va presa in
esame l’eccezione di incompetenza territoriale formulata da Vallefuoco (primo
motivo di entrambi i ricorsi): secondo il ricorrente la competenza territoriale si
radica a Napoli, luogo in cui ha avuto inizio la consumazione del reato più grave
di associazione a delinquere, secondo la previsione dell’art. 8, comma 3, cod.
proc. pen.. In difetto di prova relativa al luogo ed al momento della costituzione
dell’associazione, poi, occorreva far riferimento al luogo del primo reato
commesso o comunque del primo atto diretto a commettere i delitti
12

consulenza della difesa, ma l’ha ritenuta – almeno allo stato – meno attendibile

programmati, da individuare sempre in Napoli, poiché qui erano presentate le
procedure di conciliazione.
3.1 Il motivo è infondato, poiché il giudice per le indagini preliminari ha fatto
corretta applicazione della disciplina processuale riguardante la determinazione
della competenza per territorio. Essendo infatti ignoto il luogo di

più grave fra quelli residui, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite di
questa Corte (Sez. U, n. 40537 del 16/07/2009, Confl. comp. in proc. Orlandelli,
Rv. 244330): qualora non sia noto il luogo di commissione del reato più grave (o
del primo reato) non può farsi ricorso ai criteri suppletivi di cui all’art. 9 cod.
proc. pen. in relazione a tale reato, ma deve farsi riferimento, in successione
gradata, al reato più grave (o anteriore nel tempo) fra quelli residui. Con la
precisazione, però, che il luogo di commissione del reato più grave (o del primo
reato) va individuato utilizzando non solo le regole indicate nell’art. 8, ma
eventualmente anche quella di cui al primo comma dell’art. 9, secondo cui “se la
competenza non può essere determinata a norma dell’art. 8, è competente il
giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta parte dell’azione o dell’omissione”.

Nel

caso di specie il reato più grave fra quelli residui è quello di falsità per induzione,
perfezionato sicuramente in Santa Maria Capua Vetere, poiché l’autorità
giudiziaria innanzi alla quale erano esercitate le azioni legali era il giudice di pace
di quella città.
4. Viene in rilievo a questo punto il motivo di ricorso, proposto da tutti gli
indagati, riguardante la contestazione di falso per induzione in relazione alla
sentenza del giudice di pace, schema ritenuto incompatibile con un
provvedimento giurisdizionale espressione di piena discrezionalità, in base alle
decisioni delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 1827 del 03/02/1995,
Proietti, Rv. 200117; Sez. U, n. 35488 del 28/06/2007, Scelsi, Rv. 236868),
secondo le quali il delitto di falsa attestazione del privato di cui all’art. 483 cod.
pen. può concorrere – quando la falsa dichiarazione sia prevista di per sé come
reato – con quello della falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella
redazione dell’atto al quale la attestazione inerisca (artt. 48 e 479 cod. pen.),
sempre che la dichiarazione non veridica del privato concerna fatti dei quali l’atto
del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità.
4.1 Le difese contestano l’applicabilità dello schema del cd. autore mediato con
riferimento al caso di specie, poiché le condotte degli imputati si esauriscono
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perfezionamento del reato associativo, andava preso in considerazione il reato

nella falsità ideologica commessa da persona esercente un servizio di pubblica
necessità (tesi dell’indagato Calandra) del falso in scrittura privata che non
costituisce un antecedente logico dell’attività del pubblico ufficiale (tesi
dell’indagato Vallefuoco), o comunque in una attività che resta relegata alla fase
afferente al rapporto tra soggetto privato e difensore, senza determinare alcuna

4.2 I motivi di ricorso sono infondati.
4.3 Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella prima
delle due decisioni citate dalle difese, l’autore mediato, responsabile ex art. 48
cod. pen., è colui il quale, con inganno, determina in altri l’errore sul fatto
costituente reato, fatto che l’autore immediato commette in buona fede. Ad
integrare la responsabilità ex art. 48 cod. pen. è quindi necessario e sufficiente
che venga posta in essere una condotta causalmente e consapevolmente
correlata all’induzione in errore di chi dovrà commettere il fatto costituente
reato. Con riferimento al reato di falso ideologico in atto pubblico, la sentenza ha
ritenuto che tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a
contenuto descrittivo o dispositivo, dando atto in premessa, anche
implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione,
desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un
falso del pubblico ufficiale, del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 cod. pen.,
colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera.
4.4 Con la seconda decisione, poi, le Sezioni Unite di questa Corte hanno ribadito
che il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo ben può investire le
attestazioni anche soltanto implicite contenute nell’atto e quei fatti,
giuridicamente rilevanti, connessi indiscutibilmente, quali presupposti, con la
parte dispositiva dell’atto medesimo, sia che concernano fatti compiuti o
conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale sia che concernano altri “fatti dei
quali l’atto è destinato a provare la verità” (art. 479 cod. pen., ultima parte). Si
configurano, anche sotto il profilo naturalistico, due condotte riconducibili al
decipiens: stante il rapporto di causa-effetto tra il fatto attestato dal privato,
quale presupposto dell’emanazione dell’atto del pubblico ufficiale, ed il contenuto
dispositivo di quest’ultimo e stante, altresì, la stretta connessione logica tra l’uno
e l’altro, la falsità del primo si riverbera sul secondo e diventa essa stessa falsità
di questo, sicché la recepita falsa attestazione del decipiens acquista la ulteriore
veste di falsa attestazione del pubblico ufficiale deceptus sui fatti falsamente
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induzione al falso (tesi di Amirante).

dichiarati dal primo e dei quali l’atto pubblico è destinato a provare la verità.
Il passaggio fondamentale della decisione, ai fini che rilevano, attiene però alla
incidenza della falsa attestazione del privato sul contenuto di accertamento
dell’atto pubblico, che le difese contestano: la falsa premessa deve concernere
un fatto del quale l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità e ciò

assenza del quale il provvedimento non avrebbe potuto essere adottato.
4.5 Orbene, a giudizio di questo Collegio, le condotte contestate agli imputati
sono perfettamente sussumibili nello schema del falso per induzione, come fin
qui descritto.
Come correttamente osservato da entrambi i giudici di merito, infatti, la falsità
ideologica è configurabile anche rispetto ad una manifestazione di giudizio, quale
la sentenza, sia pure con riferimento alla sussistenza di alcuni presupposti
necessari per l’adozione dell’atto, da identificare nella legittimazione del
difensore a compiere attività processuali, fondata sull’esistenza di una valida
procura ad litem, in mancanza della quale il giudice avrebbe dovuto pronunciare
una sentenza di inammissibilità del ricorso.
5. Restano da esaminare le doglianza prospettate dai singoli indagati.
5.1 Vallefuoco Biagio lamenta travisamento della prova, in relazione alle
dichiarazioni del coindagato Calandra, dalle quali il Tribunale del riesame
avrebbe dedotto la necessità di autentica delle sottoscrizioni delle istanze di
conciliazione, nonché la materiale presenza di una autentica falsa, apposta
appunto dal Vallefuoco.
La censura è generica, poiché l’ordinanza impugnata (pagina 17) si limita ad
affermare che le firme apocrife furono vergate di proprio pugno dall’indagato,
senza fare alcun riferimento ad una autentica apposta dal medesimo, tanto che
l’affermazione di falsità si fonda sulla consulenza grafologica del pubblico
ministero.
5.2 Anche la censura riguardante l’inattendibilità della praticante legale dello
studio, dott.ssa Amelia Moio, è proposta in maniera del tutto generica, poiché
non si precisa l’apporto delle dichiarazioni nel compendio indiziario.
6. Amirante Bruno deduce i entrambi i ricorsi l’assenza di esigenze cautelari, alla
luce della condotta collaborativa tenuta dall’indagato fin dal momento della
perquisizione, che escluderebbe il rischio di reiterazione della condotta criminale.
6.1 In proposito l’ordinanza impugnata precisa che della circostanza si è già
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va inteso anche quale “immutatio veri” circa l’esistenza di un presupposto in

tenuto conto, avendo il G.I.P., all’esito dell’interrogatorio di garanzia, sostituito
la misura custodiale con quella meno gravosa dell’obbligo di dimora, dovendo
per il resto desumersi l’esigenza cautelare dal numero dei ricorsi presentati,
dall’arco temporale interessato, dal collegamento della condotta criminosa con
l’attività professionale di avvocato e dalla raffinatezza del meccanismo criminoso

Calandra e Amirante): in presenza di tale motivazione, assolutamente congrua e
logica, la censura deve ritenersi inammissibile, poichè con riferimento alle
esigenze cautelari (come per i gravi indizi) il ricorso per cassazione è ammissibile
soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge ovvero la
manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della
logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che
riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero che si risolvano in una diversa
valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 5, n. 46124
del 08/10/2008, Pagliaro, Rv. 241997; Sez. 6, n. 11194 del 08/03/2012, Lupo,
Rv. 252178).
7. In conclusione i ricorsi proposti dagli indagati vanno rigettati, con conseguente
condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2013

predisposto (dotato di paraventi di legalità, come il contratto stipulato tra

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