Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5848 del 13/11/2012


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 5848 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Corallo Francesco, nato a Catania il 19/09/1960

avverso l’ordinanza del 25/07/2012 del Tribunale di Milano

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Gabriele Mazzotta, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio
dell’ordinanza impugnata;
uditi per il ricorrente gli Avv.ti Alfredo Gaito e Andrea Scuderi, che hanno
concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso e l’annullamento dell’ordinanza
impugnata

RITENUTO IN FATTO

Data Udienza: 13/11/2012

1. Il Tribunale di Milano, su richiesta di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.
avanzata – avverso un’ordinanza del G.i.p. dello stesso Tribunale emessa il
23/05/2012 – nell’interesse di Francesco Corallo, rigettava il gravame proposto
e confermava l’ordinanza impugnata, con decisione adottata all’udienza del
25/07/2012: la motivazione del provvedimento veniva depositata due giorni più
tardi. Nei confronti del Corallo, nonché di altri soggetti, erano state applicate
misure restrittive della libertà personale (quanto al Corallo, quella della custodia
cautelare in carcere), essendo egli sottoposto a indagini per i delitti di
promesse di utilità, quest’ultimo reato aggravato ai sensi dell’art. 2635, comma
terzo, cod. civ.
In particolare, l’ipotesi associativa contestata al Corallo riguardava
l’esistenza di un presunto sodalizio criminoso costituito unitamente a persone
aventi cariche all’interno di istituti preposti all’erogazione del credito (Massimo
Ponzellini, Antonio Cannalire, Enzo Chiesa, rispettivamente presidente del
consiglio di amministrazione, amministratore di fatto e direttore generale della
Banca Popolare di Milano), professionisti (Guido Rubbi, commercialista di fiducia
del suddetto Ponzellini) e uomini politici (l’On. Marco Milanese), volto a garantire
ad imprenditori operanti nel settore del gioco d’azzardo su concessioni pubbliche
– quale appunto il Corallo, titolare del gruppo Atlantis BPlus – l’ottenimento di
contratti, finanziamenti, commesse od altre agevolazioni, anche all’esito di un
orientamento dell’attività di indirizzo politico, normativo ed amministrativo in
tema di gioco d’azzardo legale, in direzione favorevole agli interessi degli stessi
imprenditori: ciò in cambio del versamento effettivo o della promessa di somme
di denaro da parte del Corallo in favore degli altri membri dell’associazione, in
particolare del Ponzellini e del Cannalire (i quali avrebbero ricevuto compensi,
effettivi o promessi, in una misura complessiva di circa 5,7 milioni di euro,
comunque anche da parte di soggetti distinti dal Corallo ed in relazione a
pratiche bancarie di loro interesse). Quelle erogazioni sarebbero avvenute o
risulterebbero paventate dietro lo schermo di contratti falsi, ovvero di fatture
emesse – talora con operazioni finanziarie realizzate all’estero – senza
controprestazione o indicanti valori superiori rispetto alle prestazioni realmente
eseguite.
Al contempo, si ipotizzava che il Ponzellini ed il Cannalire si fossero resi
responsabili – con il concorso del Corallo in qualità di extraneus – del reato di
cui agli artt. 110 cod. pen., 2635 cod. civ., avendo percepito o ricevuto la
promessa di denaro da parte dell’odierno ricorrente al fine di favorire le società
del gruppo Atlantis BPlus nelle pratiche di concessione e gestione del credito
bancario, violando i doveri di fedeltà relativi al rapporto di amministrazione e

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associazione per delinquere e di concorso in infedeltà a seguito di dazioni o

a
direzione di una società quotata nel mercato regolamentato italiano: ciò anche
mediante la falsificazione dei dati concernenti il soggetto giuridico richiedente
l’erogazione, non segnalando o non allegando al procedimento fatti e notizie
afferenti il richiedente medesimo (attraverso tali condotte, che avrebbero
garantito in particolare alla società Atlantis BPlus Giocolegale Ltd., tra il 2009 e il
2010, finanziamenti pari a circa 145 milioni di euro, sarebbe stato altresì
realizzato il reato di cui all’art. 137, comma 2, d.lgs. n. 385 del 1993, non
rientrante fra gli addebiti contestati in sede cautelare in quanto avente natura
L’ordinanza del Tribunale, richiamando il contenuto del provvedimento
restrittivo emesso dal giudice di prime cure, dava atto che gli accertamenti sulle
ipotesi di reato evidenziate avevano preso le mosse da una ispezione eseguita
dalla Banca d’Italia presso la Banca Popolare di Milano, che aveva fatto emergere
l’esposizione dell’istituto ad un elevato rischio nell’attività creditizia, di cui non vi
era però stata adeguata segnalazione agli organi preposti alla vigilanza; ciò,
all’esito delle indagini preliminari compiute (attraverso l’assunzione di persone
informate sui fatti, l’acquisizione di documenti, lo svolgimento di consulenze
tecniche, l’ascolto di conversazioni oggetto di intercettazione), risultava anche
dalla creazione all’interno della B.P.M. di una “struttura parallela” facente capo al
Ponzellini ed al Cannalire, che – avvalendosi della collaborazione del Chiesa – si
era impegnata a soddisfare richieste di finanziamento da parte di soggetti
privilegiati rispetto a chiunque altro nell’accesso al credito, ottenendo pagamenti
corruttivi in cambio dell’erogazione delle somme che tali soggetti si vedevano
concedere pur non ricorrendone i presupposti.
Tra i soggetti in questione figurava la società Atlantis BPlus, riconducibile a
Francesco Corallo, interessata fra l’altro ad ottenere la provvista necessaria per
l’acquisto di una peculiare tipologia di apparati (le c.d. “macchinette VLT”) utili
per ottenere concessioni pubbliche, in quanto macchinari il cui impiego nel gioco
legalizzato avrebbe consentito di finanziare la ricostruzione di zone interessate
da eventi sismici: sotto tale profilo, secondo l’impianto accusatorio, assumeva
particolare rilievo il coinvolgimento nel sodalizio di uomini politici in grado di
incidere sul contenuto stesso delle normativa disciplinante il gioco d’azzardo. La
Atlantis BPlus, peraltro, in quanto avente sede nelle Antille Olandesi, risultava
titolare di concessioni nel settore pur non rispettando il requisito di cui alla legge
n. 220 del 2010, che prescriveva la necessità di avere sede in un paese
dell’Unione Europea: a dispetto di tale caratteristica, la Banca Popolare di Milano
aveva comunque erogato a quella società somme di entità molto rilevante,
emergendo al contempo – soprattutto dall’ascolto delle conversazioni
intercettate e dall’esame di documentazione sequestrata – che vi era stata una

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contravvenzionale).

costante remunerazione del Ponzellini e del Cannalire da parte del Corallo,
all’esito di una pluralità di incontri che gli indagati avevano avuto nel periodo
monitorato dalle investigazioni, anche con l’accortezza di garantirsi un contesto
riservato.
L’ordinanza impugnata evidenziava in proposito il contenuto di alcune
conversazioni intercettate, come pure di annotazioni scritte acquisite al
procedimento, ritenute rilevanti ai fini della sussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza. Fra queste, in particolare, un manoscritto riconducibile alla grafia

l’indicazione di somme ricevute o da avere con riguardo a precisi ambiti
temporali, per importi di centinaia di migliaia di euro: negli stessi periodi, era
stato accertato che la Atlantis BPlus, a mezzo di due bonifici da 500.000,00 euro
ciascuno, aveva apparentemente finanziato senza interessi una società (M2
Pictures s.r.I.) riconducibile al Cannalire, operante nel ben diverso settore della
cinematografia. Ne conseguiva, secondo la ricostruzione fatta propria dal G.i.p.
e condivisa dal Tribunale, la difficile ipotizzabilità della «reale sussistenza del
rapporto sostanziale sottostante, potendo più verosimilmente ravvisarsi una
scrittura negoziale simulata allo scopo di fornire copertura a passaggi di denaro
senza titolo lecito».
In ordine alle esigenze cautelari, con specifico riferimento alla persona
dell’odierno ricorrente, era stato posto in risalto che l’indagato era residente
all’estero e si era dimostrato in grado di disporre di influenti appoggi anche
idonei a favorire la dispersione di elementi di prova, come comprovato ad
esempio dall’esito di una perquisizione compiuta presso un recapito riferibile al
Corallo, parzialmente vanificata dall’intervento di un parlamentare che aveva
reclamato come a lui appartenente un computer portatile che le forze dell’ordine
vi avevano rinvenuto: ciò comportava la concreta ravvisabilità di pericoli attuali
sia di inquinamento probatorio, sia di fuga che di recidiva specifica.
Quanto al .contenuto delle doglianze esposte nell’interesse del Corallo
attraverso la richiesta di riesame, il Tribunale di Milano disattendeva le censure
avanzate dalla difesa osservando che:
la querela in atti doveva considerarsi tempestiva, non potendosi dal
contenuto di articoli di stampa della fine di ottobre del 2011 (ove letti
unitamente a conversazioni intercettate nello stesso torno di tempo fra il
Ponzellini e chi gli era subentrato nella carica) desumere che il
denunciante fosse già a quell’epoca a conoscenza del fatto-reato nella sua
completa dimensione oggettiva e soggettiva;
la competenza apparteneva, allo stato, all’autorità giudiziaria milanese,
avendo la B.P.M. sede in quel capoluogo e dovendosi pertanto ritenere

del Ponzellini, recante il titolo “Atlantis contratto: nome società inglese” e

che a Milano fossero state ideate e programmate le attività del sodalizio,
così individuandosi il luogo di inizio della consumazione del reato
associativo;
non era ravvisabile alcuna nullità nella mancata trasmissione di tutti i files
audio di cui alle intercettazioni telefoniche, dal momento che la difesa
aveva presentato a quel fine una richiesta generica ed onnicomprensiva,
rigettata sul corretto presupposto che vi era stato un provvedimento del
G.i.p. di autorizzazione al ritardato deposito, non invece un’istanza

registrazioni utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento restrittivo:
ed è solo in ordine a tali registrazioni che la giurisprudenza della Corte
Costituzionale e delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo
l’interpretazione offerta dal Tribunale, ha affermato il diritto della difesa
all’acquisizione di copia (in ogni caso, ad avviso dello stesso Tribunale il
compendio indiziario rimarrebbe grave pur volendo considerare
inutilizzabili i risultati delle intercettazioni);
contrariamente a quanto evidenziato nella richiesta di riesame, alcuni
elementi offerti dalla difesa (in particolare, una memoria presentata
nell’interesse della BPlus Giocolegale ltd.) risultavano essere stati valutati
dal G.i.p. e comunque allegati al carteggio trasmesso al Tribunale, mentre
di altri atti effettivamente non trasmessi (fra cui un verbale di sommarie
informazioni rese da tale Dott. Grego) non era stata specificamente
indicata la ragione della presunta decisività;
non vi erano vizi di sorta a proposito della mancata acquisizione al
fascicolo del verbale di conferimento dell’incarico ad un consulente tecnico
del P.M., risultando da altri atti che detto incarico vi era stato in data
determinata, né l’inoltro della successiva relazione via e-mail poteva
inficiare la validità formale dell’elaborato, essendone anzi per tal guisa
sicura la provenienza;
doveva ribadirsi la gravità degli indizi di colpevolezza, sia richiamando il
contenuto dell’ordinanza del G.i.p in un compendio motivazionale unitario
sia tenendo conto che
a) l’esistenza di un’associazione per delinquere può derivare, come
verosimilmente accaduto anche nel caso di specie, da un accordo “a
struttura aperta” intervenuto tra un primo e più ristretto gruppo di
persone, in ipotesi in numero inferiore a tre, con la successiva
adesione di altri;
b) è sicuramente configurabile, per consolidata giurisprudenza, un
vincolo associativo anche fra corruttori e corrotti;

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finalizzata ad ottenere copia dei supporti relativi alle specifiche

c) il reato di cui all’art. 2635 cod. civ. non richiede il verificarsi di un
danno patrimoniale alla società, previsto invece dal precedente art.
2634, bensì di un più generico “nocumento”, nozione da intendere nel
senso di «pregiudizio giuridicamente rilevante, di qualsiasi natura»,
come già evidenziato in precedenti di legittimità (ulteriore differenza
tra le due fattispecie incriminatrici riguarderebbe l’elemento
soggettivo, richiesto dall’art. 2634 in termini di dolo specifico e dalla
norma qui contestata come mero dolo generico, configurabile anche

un danno economicamente apprezzabile, secondo i giudici di merito
può assumere rilievo anche un danno di immagine od una violazione
della riservatezza, che comunque nel caso di specie non sembrano
potersi qualificare di lieve entità, così escludendosi la possibilità di
riconoscere immediata applicabilità all’attenuante ex art. 62 n. 4 cod.
pen.;
d) nel caso in esame, tenendo conto delle risultanze istruttorie che sul
punto vengono nuovamente riepilogate

nella

motivazione

dell’ordinanza, emerge «non tanto la mera correlazione prevista
dall’art. 2634 cod. civ. tra un preesistente conflitto di interessi e le
finalità di profitto o altro vantaggio dell’atto di gestione che
direttamente (per sé) o indirettamente (per altri) persegue l’interesse
confliggente, con detrimento di quello della società, connotandosi
quindi la condotta nelle forme dell’eccesso di potere per sviamento
[…], quanto piuttosto un mercimonio del ruolo apicale ricoperto
dall’imputato nell’ambito dell’istituto bancario» (riferendosi in tal
modo i giudici del Tribunale all’íntraneus Ponzellini) «per fini di
arricchimento personale, tipico delle fattispecie di corruzione previste
nell’ordinamento»;
la prescrizione che la BPlus – per ottenere concessioni nel settore del
gioco legalizzato – dovesse stabilire la sede in un paese dell’Unione
Europea prima dell’entrata in vigore della legge n. 220 del 2010 derivava
già dalla legge comunitaria n. 88 del 2009;
dovevano ritenersi sussistenti tutti i profili di esigenza cautelare ex art.
274 cod. proc. pen., richiamandosi ancora una volta la gravità delle
condotte e dei danni conseguenti, le vicende della perquisizione già
accennata e la circostanza che il Corallo avesse «la residenza fuori del
territorio dello Stato ed anzi in un paese che non garantisce una
cooperazione giudiziaria adeguata», oltre ad essersi falsamente attribuito
la qualità di diplomatico.

nella forma del dolo eventuale): ergo, pure in mancanza della prova di

2. I difensori di Francesco Corallo propongono ricorso per cassazione
avverso l’ordinanza indicata in epigrafe, deducendo quattro motivi.
2.1 Con il primo motivo, si lamenta inosservanza delle norme processuali a
garanzia della difesa in tema di diritto all’accesso alle intercettazioni telefoniche
ed ambientali assunte come elementi di prova nella decisione de libertate:
ribadito che il 06/07/2012 era stato richiesto al P.M. procedente il rilascio di
copia dei supporti informatici contenenti le conversazioni intercettate, e che
era stato anzi autorizzato il ritardato deposito, la difesa censura l’ordinanza
adottata dal Tribunale, secondo la quale non ne sarebbe derivata alcuna
inutilizzabilità delle intercettazioni medesime.
Operato un analitico

del succedersi della normativa e

excursus

dell’elaborazione giurisprudenziale in materia, soprattutto alla luce delle
sentenze della Corte Costituzionale nn. 192/1997 e 336/2008, nonché della
successiva pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte (n. 20300 del
22/04/2010, La Sala), nell’interesse del Corallo si rappresenta che «ogni qual
volta l’indagato raggiunto da ordinanza di custodia cautelare abbia richiesto
copia dei files audio, il giudice del controllo in materia cautelare non può
decidere unicamente sulla base delle trascrizioni sintetiche (quali i c.d.
“brogliacci di ascolto”) delle conversazioni intercettate poste a base della misura
custodiale», dal momento che «la conoscenza degli atti di investigazione si pone
come presupposto essenziale e indefettibile dell’esercizio del diritto di difesa».
Nel caso in esame, peraltro, la difesa evidenzia di avere accertato – al momento
della consultazione degli atti in vista dell’udienza da tenersi dinanzi al Tribunale
di Milano – «non solo la effettiva mancanza dei files delle conversazioni nella
loro interezza tra gli atti depositati ex art. 293 cod. proc. pen., ma anche la
mancata trasmissione dei files in discorso all’organo del riesame», con la
conseguenza della irrimediabile ablazione dei diritti della difesa di ascoltare le
registrazioni, valutarne la corrispondenza rispetto a quanto riportato nel
provvedimento restrittivo ed eventualmente confutare il contenuto dell’ordinanza
di custodia cautelare in parte qua:

diritti, del resto, ai quali farebbero

necessariamente da contraltare specifici doveri di verifica in capo al Tribunale del
riesame.
I difensori argomentano che «consistendo l’interesse costituzionalmente
protetto nel conoscere direttamente le registrazioni poste a base del
provvedimento eseguito e non trasmesse con la richiesta cautelare, il risultato è
stato assicurato dalla Corte Costituzionale con l’esplicito riconoscimento del
diritto incondizionato dei difensori di accedere, su loro istanza, alle registrazioni

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detta istanza era stata respinta dallo stesso P.M. giacché di quelle intercettazioni

(limitatamente a quelle poste a base della richiesta di misura cautelare)
custodite dal P.M. e di ottenere una traccia fonica mediante trasposizione su
nastro magnetico».
Sostengono quindi che «nella vicenda di che trattasi non conta tanto il
difetto logico-argomentativo della motivazione del provvedimento cautelare,
bensì la carenza di ostensione alla difesa ed al Tribunale della libertà delle
registrazioni delle conversazioni conosciute soltanto attraverso il parziale ed
unilaterale filtro della polizia giudiziaria», il che avrebbe dovuto imporre «una

rebus sic sta ntibus

demolitoria degli esiti delle intercettazioni

telefoniche, stante la nullità scaturente dalla mancanza (comunque imputabile
all’ufficio del P.M. procedente) protrattasi oltre i termini indicati dall’art. 309,
comma 5, cod. proc. pen.»; rilevano altresì l’assoluta irragionevolezza
dell’affermazione compiuta dal Tribunale di Milano circa la sufficienza del
compendio indiziario anche a prescindere dai risultati delle predette
intercettazioni, visto che il contenuto di queste ultime appare riportato a più
riprese nella motivazione dell’ordinanza, «quale elemento autonomo di prova dei
fatti contestati ovvero quale necessario complemento interpretativo dei diversi
dati poi acquisiti».
2.2 Con il secondo motivo, i difensori del Corallo censurano il provvedimento
impugnato per carenza di motivazione, lamentando come il Tribunale del riesame
abbia eluso l’obbligo di dare contezza delle ragioni della decisione adottata
limitandosi a riportare per relationem il contenuto dell’ordinanza del G.i.p.: in
proposito, la difesa richiama plurimi arresti della giurisprudenza di legittimità
secondo cui la mera riproduzione degli argomenti utilizzati dal giudice di prime
cure, in presenza di specifiche doglianze avanzate con la richiesta di riesame,
vanifica la garanzia del doppio grado di giurisdizione. Nella fattispecie, il
Tribunale avrebbe peraltro trascurato di esaminare una pluralità di elementi
offerti dalla difesa, aventi connotazione di novità rispetto al quadro delle
acquisizioni istruttorie valutate dal G.i.p., relativi in particolare alle produzioni
documentali afferenti:
– il rapporto intercorso fra la Banca Popolare di Milano e le società del gruppo
Atlantis-BPlus, da cui emergeva (a differenza da quanto ritenuto dagli inquirenti
sulla base di una lettura parziale della relazione ispettiva curata dalla Banca
d’Italia) l’impossibilità di ravvisarvi anomalie di sorta, come del resto confermato
anche da un elaborato curato dalla società di revisione Price Waterhouse Coopers
s.p.a. su incarico della stessa B.P.M. in epoca recente, secondo il quale
«dall’esame dei fascicoli relativi alle istruttorie per i fidi accordati al “gruppo
Atlantis” era emerso il puntuale rispetto delle procedure interne adottate

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pronuncia

dall’istituto bancario […] nonché l’integrale perfezionamento delle garanzie
offerte»;
la facilità della BPlus nell’accedere al credito bancario, con affidamenti
dell’ordine di decine di milioni di euro e regolare adempimento delle obbligazioni
contratte, rendendo del tutto isolata la determinazione di un unico istituto
(Intesa San Paolo) di non finanziare detta società e sconfessando il presupposto
stesso delle ipotesi di reato formulate, consistenti nell’avere il Corallo dato o
promesso utilità a chi operava all’interno della Banca Popolare di Milano per far sì

– l’intervenuta, integrale restituzione delle somme di cui al finanziamento
ottenuto nel 2010 dalla società facente capo all’indagato;
– l’avere la BPlus onorato gli impegni assunti in ragione del finanziamento del
2009, per cui residuerebbero circa 30 milioni di euro da restituire su una
erogazione iniziale di 105 milioni, ed a fronte di garanzie per oltre 250.
2.3 Con il terzo motivo si deduce erronea applicazione della legge penale,
con riferimento all’individuazione del precetto disegnato dall’art. 2635 cod. civ.
ed alla verifica dei presupposti per la configurabilità dell’attenuante ex art. 62, n.
4, cod. pen.
Premesso che il reato di cui al ricordato art. 2635 è strutturato sulla falsariga
della corruzione propria, con l’ulteriore previsione della produzione di un
nocumento per l’ente nel cui ambito operi il soggetto attivo, i difensori del
Corallo ritengono che detto requisito «debba riferirsi non già alla mera condotta
di accettazione della promessa o della dazione di utilità (in tal caso, infatti, la
specificazione normativa non avrebbe avuto alcuna ragion d’essere), bensì
all’atto compiuto in violazione ai doveri di ufficio, con la conseguenza che non
potrà ritenersi verificato l’evento a seguito del mero discredito derivato all’ente
dallo strepitus fori conseguente al disvelamento della sleale attività dell’organo
apicale»; inoltre, pur ammettendo in ipotesi che la nozione di nocumento possa
essere più ampia di quella di danno (patrimoniale o meno), dovrebbe pur sempre
ritenersi necessario che la lesione degli interessi dell’ente sia giuridicamente
apprezzabile e comunque dimostrata in concreto.
Ne deriva, secondo la tesi esposta in ricorso, che non sarebbe possibile
confondere un mero danno reputazionale, nei termini utilizzati dal Tribunale
quale “lesione dell’immagine della società”, con il nocumento richiesto dalla
norma incriminatrice, anche tenendo conto della circostanza che un danno
all’immagine dovrebbe considerarsi sempre ravvisabile, in presenza di condotte
poste in essere da figure di rilievo all’interno di un ente, con violazione dei doveri
inerenti la loro posizione. Ad avviso della difesa, pertanto, «l’evento
“nocumento” non può assolutamente prescindere da una sua connotazione di

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che venissero superate presunte difficoltà altrimenti non sormontabili;

patrimonialità», come del resto dovrebbe evincersi sia dagli stessi lavori
preparatori relativi al d.igs. n. 61 del 2002, sia dalla necessità di allineare la
previsione di cui all’art. 2635 cod. civ. con la diversa fattispecie di infedeltà
patrimoniale contemplata dall’articolo precedente.
Aggiungono i difensori che, già quanto alle figure criminose previste dal
codice penale dove rileva una nozione di nocumento (i reati di cui agli artt. 621 e
380), l’interpretazione giurisprudenziale «del contenuto di un tale evento è
proprio nel senso di adeguarlo e parametrarlo alla “offesa” inerente la specifica
danno che subiscono gli interessi tutelati dalla stessa norma; e non v’è dubbio
che, nella specie, la norma penale societaria tutela il patrimonio e l’economia
dell’ente».
In sostanza, secondo la difesa l’interesse protetto non potrebbe che
riguardare l’assetto patrimoniale della società, od al più quello al corretto
esercizio delle cariche sociali, ma nel senso di una gestione finalizzata ad evitare
ricadute negative sul patrimonio: ricostruzione, questa, che trova conferma nei
successivi interventi del legislatore in materia di diritto penale societario, laddove
ad esempio la legge n. 262 del 2005, nel riconoscere quale circostanza
aggravante una ipotesi di nocumento conseguente a condotte rilevanti ex art.
2622 cod. civ., ha comunque voluto che si trattasse di “grave nocumento ai
risparmiatori” (ed il riferimento alla figura del risparmiatore non potrebbe che
implicare una connotazione chiaramente patrimoniale del pregiudizio al cui
verificarsi consegue la sanzione penale).
Venendo quindi alla disamina della effettiva applicazione della norma di cui
all’art. 2635 cod. civ. nei confronti del Corallo, la difesa rappresenta che il
Tribunale di Milano – pur avendo corretto l’erronea affermazione del G.i.p.
secondo la quale il finanziamento del 2010 non avrebbe rispettato i dettami della
legge di stabilità di quell’anno (la legge in questione, n. 220, non era ancora
stata emanata all’epoca dell’erogazione) – ha ritenuto di confermare la censura
di irregolarità del finanziamento in questione, in quanto la legge n. 220/2010
faceva obbligo alle società concessionarie di non avere sede legale fuori dello
spazio economico europeo, limitandosi a riprodurre una previsione normativa già
In vigore per effetto della legge n. 88/2009: censura in ogni caso infondata,
secondo la tesi difensiva, atteso che la società finanziata era la BPlus Gioco-

legale ltd., con sede legale in Inghilterra e sede secondaria in Roma, dovendosi
altresì precisare che la legge di stabilità del 2010 si riferiva alle società
controllanti, mentre la normativa dell’anno precedenti alle società concessionarie
come tali.

fattispecie; e dunque – in una dimensione di offensività – a ritenerlo come il

I difensori riproducono quindi analiticamente le ragioni di fatto – su cui non
vi sarebbe stata risposta da parte del Tribunale di Milano – secondo le quali era
da escludere che la società facente capo al Corallo non avesse merito creditizio,
richiamando la documentazione a riprova della molteplicità di affidamenti goduti
e della regolarità nell’onorare i ratei di mutuo dei finanziamenti bancari; rilevano
inoltre che non sarebbe comunque emersa prova della presunta violazione degli
obblighi di ufficio da parte del Ponzellini, il quale si limitò ad esprimere parere
favorevole nel corso di istruttorie svoltesi secondo le regole in atto presso la
assai rilevanti, tanto che l’istituto – pur dopo la notizia dell’adozione delle
ordinanze di custodia cautelare – non aveva affatto interrotto il rapporto con il
gruppo BPlus, né modificato le condizioni contrattuali).
A quest’ultimo riguardo, vista la sicura non configurabilità di un danno
patrimoniale, ma trattandosi di un reato comunque offensivo del patrimonio,
avrebbe dovuto ritenersi che la ipotizzata infedeltà del Ponzellini od altri fosse
stata produttiva quanto meno di un danno di speciale tenuità, ai sensi e per gli
effetti di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen.: norma di cui sarebbe stato doveroso
tenere conto anche in vista della scelta della misura cautelare applicabile al caso
di specie, ovvero della possibilità di applicare misure tout court, in quanto
richiamata dall’art. 278 del codice di rito.
Nell’interesse del Corallo si sostiene altresì che del reato di cui all’art. 2635
cod. civ. manchi, nella fattispecie concreta, la condotta tipica, che secondo la
lettera della norma consiste nel compiere od omettere atti in violazione degli
obblighi inerenti l’ufficio dei soggetti attivi: nel caso in esame, invece, chi
avrebbe ricevuto le presunte utilità (secondo l’ipotesi accusatoria, il Ponzellini) si
limitò a partecipare a deliberazioni di organi collegiali, senza dunque il
compimento di atti autonomi e tipici della sua funzione. Né potrebbe, a tal fine,
valere il richiamo operato dalla prima ordinanza del G.i.p. all’avere l’intraneus
«coltivato e sovrapposto interessi personali confliggenti con quelli dell’ente
amministrato», giacché tale connotazione della condotta sembra attagliarsi
semmai all’ipotesi di illecito penale prevista dall’art. 2634 cod. civ., figura
criminosa dove peraltro è contemplata anche la condotta tipica del “concorrere a
deliberare” atti di disposizione di beni sociali.
Venendo infine alle offerte o dazioni di utilità che sarebbero intervenute,
secondo l’ipotesi accusatoria, in favore del Ponzellini e del Cannalire, la difesa del
ricorrente contesta che possano assumere rilevanza gli elementi evidenziati dai
giudici di merito: il documento rinvenuto in duplice copia, vergato a mano e
dattiloscritto, anche presso l’ufficio del Ponzellini, non avrebbe potuto sottendere
alcunché di illecito, essendo stato conservato dallo stesso Ponzellini in palese

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Banca Popolare di Milano (e senza procurare nocumenti di sorta, ma anzi utili

evidenza, mentre il finanziamento per un milione di euro della BPlus alla M2
Pictures s.r.l. (di cui il Cannalire risulta socio al 10%) aveva comunque un
fondamento contrattuale, e risultava certamente impiegato per le finalità proprie
della finanziata, senza quindi alcuna destinazione in favore del coindagato.
2.4 Con il quarto motivo, i difensori del Corallo lamentano ancora erronea
applicazione della legge penale, in relazione all’art. 416 cod. pen. e con riguardo
alta ritenuta sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico del ricorrente
quale compartecipe di una presunta associazione per delinquere.
sodalizio criminoso risulterebbe incomprensibile, atteso che l’associazione
sarebbe stata costituita ed organizzata (fra il Ponzellini, il Cannalire ed il Chiesa,
nelle loro vesti formali o di fatto all’interno della B.P.M.) in vista del generico
programma di commettere vari reati comunque mirati a garantire una serie di
Illeciti profitti per gli stessi promotori, da realizzare attraverso finanziamenti che
la banca avrebbe dovuto erogare a soggetti indeterminati, talora presentati da
persone – come il Milanese – immanenti al mondo della politica, soggetti che
non avrebbero avuto altrimenti titolo ad ottenere quelle somme o quegli
affidamenti: il tutto con l’ulteriore apporto del Rubbi, incaricato di occultare,
riciclare o reimpiegare le utilità elargite dai finanziati (in particolare al Ponzellini),
garantendo così il conseguimento degli anzidetti profitti. Il Corallo, allora, non
potrebbe atteggiarsi se non a semplice corruttore: e non si comprenderebbe
come mai egli dovrebbe intendersi interessato ad ottenere le linee di fido per
questa o quella società del gruppo a lui facente capo, ed al contempo
cointeressato a garantire la stabilità del sistema complessivo che garantiva
profitti al gruppo dei corrotti, ove quei profitti derivino da somme corrisposte
dallo stesso Corallo ma anche da altri corruttori a lui del tutto estranei, e nei
riguardi dei quali non risulti alcun elemento aggregante o parvenza di a ffectio
societatis.

In sostanza, ad avviso dei difensori impugnanti non sarebbe dato ravvisare,
nelle decisioni dei giudici di merito, «alcun riferimento all’effettivo contributo,
anche solamente morale, che Corallo avrebbe fornito alla vigenza del sodalizio ed
al perseguimento delle sue illecite finalità, se non quello consistito nelle ritenute
promesse o dazioni di utilità a favore del Ponzellini, condotta questa che si
esaurisce nella pretesa violazione dell’art. 2635 cod. civ.»; rimarrebbe perciò
priva di risposta la domanda su quale dovrebbe intendersi «la condotta di
partecipazione del ricorrente, diversa ed ulteriore da quella riconducibile al
delitto di “corruzione privata”», tanto più che il Corallo avrebbe limitato il suo
apporto al sodalizio solamente attraverso due specifici episodi di concessione di
linee di credito. E, per quanto fosse dimostrato che il ricorrente abbia ottenuto

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Rappresenta la difesa che il ruolo del Corallo all’interno dell’ipotizzato

finanziamenti non dovuti in conseguenza di illecite promesse o dazioni di denaro
al Ponzellini, sia pure tramite la segnalazione di politici od altri intermediari, dalle
acquisizioni istruttorie non vi sarebbe comunque traccia di elementi da cui
inferire che il Corallo fosse consapevole dell’esistenza di una stabile struttura
organizzativa, demandata a presiedere non solo a quella ma anche ad altre
vicende di presunta infedeltà, rilevanti ex art. 2635 cod. civ.
Ergo, la tesi difensiva è che nel caso in esame potrebbe al più ravvisarsi «un

classico esempio di reato continuato plurisoggettivo a concorso necessario, ove i
associativo. Questo perché il “perimetro” di cui all’art. 416 cod. pen. deve
necessariamente andare oltre e superare quello della corruzione privata
continuata: il combinato disposto degli artt. 2635 cod. civ. e 81 cod. pen.
assorbe infatti in sé la “normale” ipotesi di soggetti (corrotto e corruttore) che
decidono – anche reiteratamente – in esecuzione di un medesimo disegno
criminoso, di dar vita ad una pluralità di corruzioni […]. Se così non fosse, e
quindi se non fosse necessaria (almeno) la consapevolezza di partecipare al
programma che riguarda gli altri reati e gli altri soggetti, si avrebbe la
paradossale situazione di un elemento essenziale (il dolo di partecipazione nel
reato associativo) molto “al di sotto” del dolo richiesto per il concorso esterno
nello stesso reato associativo; infatti quest’ultimo, quanto meno, richiederebbe
la consapevolezza di agevolare un sodalizio criminoso, certo conosciuto, pur
senza farne parte, mentre, appunto, la piena responsabilità ex art. 416 cod. pen.
non richiederebbe neppure la conoscenza degli altri sodali e la consapevolezza
dei reali fini dell’associazione».

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Seguendo l’ordine delle questioni proposte dalla difesa, occorre valutare
innanzi tutto la fondatezza della doglianza che riguarda il mancato rilascio di
copia dei supporti contenenti le conversazioni intercettate, ed al contempo
l’omessa trasmissione al Tribunale del riesame degli stessi files audio.
Sembra opportuno riportare, per meglio affrontare la problematica
sottoposta all’attenzione di questa Corte, il passo della pronuncia di legittimità
(Cass., Sez. VI, n. 37014 del 23/09/2010, Della Giovampaola) su cui il Tribunale
di Milano ha incentrato la propria decisione, e che muove dall’affermazione del
principio di diritto – ricavato anche dal contenuto della sentenza n. 336/2008
della Corte Costituzionale e dalla sentenza La Sala delle Sezioni Unite, più volte
menzionate nel ricorso oggi in esame – secondo cui «non vi è alcun obbligo di

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concorrenti non possono anche essere i soggetti attivi di un diverso reato

trasmissione da parte del P.M., anche in esito a richiesta della difesa, dei
brogliacci o dei files audio; né vi è alcun obbligo generale e generico del
Tribunale per il riesame di acquisire tali atti e di ascolto dei files audio. La Corte
Costituzionale ha infatti affermato il diverso diritto del difensore ad ottenere la
trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o
comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento
cautelare, anche se non depositate; e la sentenza delle Sezioni Unite ha inteso
affrontare le problematiche concrete poste dall’affermazione di quel principio,

files audio e non li abbia ottenuti, senza una spiegazione del P.M. la cui
fondatezza è esaminabile dal giudice del riesame, quest’ultimo, in conseguenza
della nullità generale a regime intermedio intervenuta nel procedimento di
acquisizione della prova, non può utilizzare per la decisione le conversazioni
intercettate i cui files audio erano stati richiesti».
Or bene, alla luce del principio di diritto appena ribadito, da questa Corte
ritenuto assolutamente condivisibile e meritevole di applicazione anche nella
fattispecie concreta, discende un duplice ordine di considerazioni: il vizio che il
ricorrente lamenta è certamente non configurabile quanto alla mancata
trasmissione dei supporti al Tribunale del riesame (pur essendo questo, in base
al tenore del ricorso, l’aspetto che la difesa pare intendere di maggior rilievo);
potrebbe esservi invece inutilizzabilità delle intercettazioni, nel senso che verrà
Immediatamente chiarito, laddove la parte interessata abbia avanzato richiesta
al P.M. dei files audio e quella istanza sia rimasta senza esito. Stando alla
sentenza Della Giovampaola, peraltro, è necessario che detta istanza abbia il
carattere della tempestività: dimensione cronologica che è logico riferire alla
prospettiva di svolgimento dell’udienza camerale dinanzi al Tribunale del
riesame, atteso che le uniche intercettazioni suscettibili di acquisizione nelle
forme appena indicate debbono intendersi quelle «utilizzate ai fini dell’adozione
del provvedimento cautelare, anche se non depositate». A quel punto, della
“spiegazione” offerta dal P.M. nel vietare alla parte l’accesso alle registrazioni
(come pure, ovviamente, dell’assenza di spiegazioni tout court) il Tribunale del
riesame potrà valutare la fondatezza, e – in caso di valutazione negativa ritenere allo stato non utilizzabili le intercettazioni de quibus.
Nell’ordinanza oggi impugnata, la delibazione del Tribunale sulla richiesta
difensiva deve intendersi essere stata risolta in senso adesivo al diniego opposto
dal P.M., anche se il collegio sembra essersi limitato a riportare una mera
scansione degli atti intervenuti, laddove sì legge: «occorre evidenziare che la
difesa inoltrava una “generica” richiesta L.] in data 06/07/2012, che veniva
rigettata in quanto era stato autorizzato il ritardato deposito». L’aver

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risolvendole nel senso che ove la parte abbia tempestivamente richiesto al P.M. i

virgolettato l’aggettivo “generica”, in uno con la sottolineatura – nella pagina
successiva – del diritto del difensore ad acquisire i supporti delle sole
intercettazioni rilevanti ai fini dell’adozione dell’ordinanza restrittiva, fa ritenere
che secondo il Tribunale di Milano la difesa del Corallo non avrebbe dovuto
chiedere il rilascio di copia di tutte le registrazioni, ma solo di quelle fondanti la
piattaforma di gravità indiziaria: ad un’istanza generica era perciò stato opposto
un fondato diniego.
Per ancor meglio comprendere i termini della tematica in esame, va altresì
(sentenza n. 32571 del 24/06/2010, Vinci), aveva più diffusamente precisato che
«la Corte Costituzionale ha affermato il diritto del difensore ad ottenere la
trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o
comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento
cautelare, anche se non depositate. Le Sezioni Unite hanno affrontato alcuni
problemi interpretativi creatisi per la concretizzazione del principio affermato
dalla Corte Costituzionale, in particolare quello relativo al tipo di patologia
conseguente alla violazione del diritto riconosciuto dalla sentenza 335/2008,
risolvendolo non nel senso […] di una sopravvenuta inefficacia della misura
cautelare originaria, bensì con la previsione di una sorta di effetto da
“inutilizzabilità pro tempore a richiesta” delle conversazioni de quibus, fino al
momento in cui la difesa abbia acquisito la materiale disponibilità dei files audio
richiesti. Sul punto, più precisamente, le Sezioni Unite hanno affermato
sussistere una nullità generale a regime intermedio nel procedimento di
acquisizione della prova, con la conseguenza pratica di innestare un meccanismo
procedimentale che, muovendo – nel caso di rilievo del vizio solo in Cassazione da un annullamento con rinvio per ottenere la motivazione sulla “resistenza”
dell’ordinanza originaria senza le conversazioni oggetto della richiesta di
trasposizione difensiva – ove mancante nel provvedimento del riesame -, tuttavia
è suscettibile di determinare invece una nuova integrale rivalutazione del
materiale probatorio, anche comprendente le conversazioni intercettate, nel caso
in cui nel frattempo i files audio richiesti siano stati messi a disposizione. Tra i
problemi affrontati vi è in particolare quello della “distribuzione dell’onere di
diligenza” tra il Pubblico Ministero (autorità giudiziaria cui va rivolta la richiesta e
cui compete l’adempimento) ed il difensore (unico soggetto legittimato alla
richiesta), in relazione al tema della tempestività della richiesta […]. Le Sezioni
Unite hanno in definitiva, per ora, affermato sul punto solo due principi
concorrenti. Da un lato, sussiste l’obbligo del Pubblico Ministero di assicurare
l’esercizio di tale diritto “incondizionato” in tempo utile per l’efficacia
dell’esercizio medesimo, anche prevedendo un “opportuno intervento

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ricordato che la stessa Sezione Sesta, in un intervento appena precedente

organizzativo”, che consenta alla parte pubblica di attrezzarsi al pronto rilascio
fin dal momento della formulazione della propria richiesta cautelare. Dall’altro,
premesso che il diritto del difensore ad ottenere la trasposizione delle
conversazione sorge fin dal deposito del provvedimento cautelare, “è del pari
necessario” che la richiesta venga proposta “in tempo utile rispetto alle cadenze
temporali indicate dalle norme processuali […], tenuto conto della complessità o
meno delle operazioni di duplicazione delle intercettazioni” (numero,
estrapolabilità soggettiva ed oggettiva, ecc.). Si tratta di tematica certamente
corretto adempimento dell’onere di specificità, per la parte privata, specialmente
nel caso di pluralità di sottoposti alle indagini e di pluralità e complessità di
imputazioni provvisorie, considerando soprattutto che il diritto si esercita solo nei
confronti delle conversazioni che riguardano la propria posizione procedimentale
(ancorché possano rilevare tutte quelle tra altri soggetti che tuttavia hanno
un’implicazione probatoria diretta o indiretta sul singolo). Ma anche perché la
materia si presta al rischio di condotte strumentali delle parti, volte
rispettivamente alla vanificazione (anche solo di fatto) del tempestivo esercizio di
un peculiare diritto di difesa ovvero alla artificiosa e strumentale creazione di una
causa di nullità. Non stupisce quindi che le Sezioni Unite si siano per ora
fermate all’enunciazione dei due principi, indicando nell’esigenza che il Pubblico
Ministero motivi specificamente in ordine all’eventuale impossibilità di pronta
messa a disposizione del materiale, e nella successiva verifica da parte del
giudice, un primo essenziale punto di equilibrio. Epperò appare indubbio che
siano opportuni ulteriori criteri interpretativi, che valorizzino da un lato il dovere
di lealtà che incombe alle parti del processo e dall’altro gli aspetti oggettivi,
specifici del singolo caso, utili ad indirizzare correttamente nell’individuazione
della contingente effettiva giustificazione della mancata ottemperanza (pur in
relazione a misure ottimali di organizzazione di personale e risorse) ovvero della
palese tardività della richiesta».
Tornando ancora una volta a verificare le implicazioni dei principi appena
richiamati nella valutazione del caso oggi sub judice, si è detto che secondo il
Tribunale di Milano – rectius, secondo quando implicitamente si può desumere
dal contenuto dell’ordinanza impugnata – la difesa del Corallo avrebbe dovuto
indicare specificamente le conversazioni del cui supporto aveva interesse ad
ottenere copia, quando invece il tenore dello scritto difensivo del 06/07/2012,
indirizzato al Procuratore della Repubblica, era il seguente: (il difensore) «rivolge
istanza affinché la S.V. autorizzi l’acquisizione mediante duplicazione dei supporti
informatici contenenti le intercettazioni telefoniche e ambientali disposte
nell’ambito del proc. pen. 38500/2011 N.R.». Il provvedimento conseguente,

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delicata, innanzitutto per le ricadute organizzative, per la parte pubblica, o per il

adottato il 09/07/2012, recita: «il P.M., considerato che non è ancora stato
disposto il deposito delle intercettazioni, del quale è stato anzi autorizzato il
ritardo, rigetta la richiesta».
Nulla quaestio in punto di tempestività, atteso che la richiesta precedeva di
ben 19 giorni l’udienza dinanzi al Tribunale del riesame (merita di essere
segnalato che, nella fattispecie concreta di cui alla sentenza Vinci, la Sezione
Sesta di questa Corte aveva valutato obiettivamente tardiva un’istanza
presentata dalla difesa appena 48 ore prima dell’udienza): ma si può
accedere a tutte le conversazioni intercettate, indifferentemente, piuttosto che a
quelle poste a fondamento dell’ordinanza restrittiva ? E, in ogni caso, di fronte
a un diritto “incondizionato” (purché esercitato tempestivamente) della difesa di
accedere a queste ultime, sarebbe stato comunque doveroso per il P.M.,
consentire detto accesso, pur rigettando in parte un’istanza di taglio “generico” ?
In ordine al primo quesito, vero è che la lettera della richiesta formulata dal
difensore del Corallo non esprimeva limitazioni di sorta, ma logica vuole che essendo l’istanza di pochi giorni successiva alla notizia dell’emissione
dell’ordinanza restrittiva, avverso la quale era già stato interposto gravame ex
art. 309 cod. proc. pen. – il senso dell’iniziativa fosse quello di accedere alle
specifiche conversazioni ritenute rilevanti per disporre la limitazione della libertà
personale dell’indagato, vale a dire le uniche in vista delle quali (in ragione
dell’incidente cautelare di prossima discussione) la difesa aveva concreto ed
attuale interesse.
D’altro canto, così venendo al secondo degli interrogativi dianzi prospettati,
sarebbe irragionevole ritenere che il pieno diritto della parte ad acquisire copia
del supporto contenente le registrazioni di un numero comunque determinato di
conversazioni intercettate (dieci, cento o mille che fossero) trovi vanificazione
qualora la parte medesima chieda la copia di tutto: l’istanza potrà essere
semmai rigettata – anche prendendo spunto da provvedimenti di autorizzazione
al ritardato deposito, ai sensi dell’art. 268, comma 5, cod. proc. peri. – con
riguardo alle registrazioni eccedenti quel numero determinato, ma meriterà
doveroso accoglimento parziale.
Né, su un piano di lealtà processuale, si potrebbe ritenere che una richiesta
“generica” ponga sempre ed inevitabilmente il Pubblico Ministero in condizione di
non discernere quali siano le conversazioni ostensibili: al di là della possibile
predisposizione di adeguati accorgimenti organizzativi da parte dell’ufficio
inquirente (ad esempio, come suggerito nella sentenza Vinci, archiviando
preventivamente le intercettazioni rilevanti in modo tale da consentire la
duplicazione di quei soli files in un supporto unitario), va considerato che il

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concretamente ritenere che il difensore del Corallo avesse davvero chiesto di

discrimine in base al quale distinguere le intercettazioni cui la difesa possa avere
accesso non è nella disponibilità della parte richiedente, bensì dello stesso P.M.
Non è infatti il difensore a poter dire quali siano le intercettazioni «utilizzate
ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare», ma – appunto – l’autorità
giudiziaria procedente: la difesa potrà al massimo valutare che l’una o l’altra di
quelle, una volta oggetto della doverosa discovery, abbiano minore significatività
o non ne abbia affatto, come pure avrà interesse a sottolineare il rilievo in
antitesi di conversazioni ulteriori, non menzionate nell’ordinanza custodiale (ed è
depositate, non certo a quelle cui il P.M. prima ed il G.i.p. poi abbiano attribuito
valenza decisiva per l’emissione del provvedimento de libertate).

Peraltro, se è

vero che nel caso di pluralità di indagati e contestazioni potrebbe non essere
agevole inquadrare preventivamente la rilevanza di una conversazione
intercettata solo nei confronti di taluno dei soggetti destinatari dell’ordinanza
restrittiva (come avvertito dalla più volte ricordata sentenza Vinci), rimane pur
sempre vero che non compete alla difesa operare distinzioni: tanto più che, nella
fattispecie concreta oggi in esame, la pur delicata problematica appena
accennata perde di consistenza, ove si consideri che uno degli addebiti mossi al
Corallo concerne un’ipotesi di reato associativo, con la conseguente, immediata
rilevanza – per la difesa di ciascuno dei presunti sodali – di tutte le
conversazioni intercettate richiamate nell’ordinanza, anche se intervenute fra
soggetti diversi.
Ed è allora innegabile che, dinanzi ad un’istanza volta ad acquisire copia del
supporto di cui alle intercettazioni poste a base della misura cautelare, il
Procuratore della Repubblica ed il Tribunale di Milano non avrebbero potuto
obiettare alcunché, rivelando tuttavia la fallacia dell’argomentazione utilizzata in
quanto anche un’istanza siffatta sarebbe stata – all’evidenza – “generica”.
Ne deriva, in base alle indicazioni delle Sezioni Unite, che nei confronti del
Corallo la decisione adottata dal Tribunale del riesame ex art. 309 cod. proc.
pen. non avrebbe potuto tenere conto dei risultati delle anzidette intercettazioni,
il che riverbera immediati effetti sulla valutazione operata dallo stesso Tribunale
in punto di gravi indizi di colpevolezza quanto al presunto reato associativo;
mentre, infatti, gli elementi raccolti in ordine alla diversa ipotesi criminosa
prevista dall’art. 2635 cod. civ. non sembrano basarsi sul contenuto delle
conversazioni intercettate, non altrettanto è a dirsi per l’ulteriore contestazione
che riguarda il ricorrente. Come opportunamente rilevato dal P.g. presso questa
Corte, in adesione al motivo di ricorso prospettato dalla difesa, il Tribunale di
Milano ha del resto segnalato che la soglia della gravità indiziaria sarebbe stata
comunque raggiunta anche prescindendo dai risultati delle intercettazioni

18

de

a queste che, in ipotesi, non potrà avere immediato accesso se non ancora

quibus, salvo poi richiamarle ugualmente e così smentendo la significatività
dell’annunciata prova di resistenza.
2. Manifestamente infondato è il secondo motivo, con riguardo alle presunte
carenze motivazionali del provvedimento impugnato.
E’ indiscutibile che, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte, «se
l’onere di motivazione del G.i.p. è assolto anche per relationem, mediante la
riproposizione delle argomentazioni formulate dal Pubblico Ministero, diverso è
fare riferimento a quanto indicato in altri provvedimenti, evitando la semplice
ripetitività di elementi già conosciuti dalle parti, ma tale motivazione

per

relationem diviene insufficiente se il giudice del riesame non ha dato risposta […]
a specifiche censure formulate. In tal caso il mero appiattimento del giudice del
riesame su valutazioni emergenti da altro provvedimento, privo di qualsivoglia
apporto critico può essere ritenuto carente di valutazione in ordine alla bontà o
meno delle censure rivolte al provvedimento oggetto della procedura,
concretando il vizio di mancanza della motivazione di cui all’art. 606 cod. proc.
pen., comma 1, lett. e)» (Cass., Sez. IL n. 44378 del 25/11/2010, Schiavulli);
ma non è questa la situazione nel caso concreto.
Innanzi tutto, il Tribunale ha dato atto che il contenuto dell’ordinanza del
G.i.p. doveva intendersi richiamata, palesando così di aderire al percorso
argomentativo compiuto dal giudice di prime cure, ma non si è affatto limitato a
riportarsi a quella motivazione, al contrario sviluppandola con numerose ed
ulteriori considerazioni sia in fatto che in diritto. In secondo luogo, le censure
difensive che secondo il ricorrente sarebbero rimaste prive di analisi debbono
evidentemente valutarsi alla luce di quelle considerazioni, rivelandosi così
ultronee e non bisognevoli di compiuta disamina giacché – quand’anche
condivise – non avrebbero potuto comportare alcuna incidenza sulle conclusioni
raggiunte.
In concreto, prendere atto che uno studio commissionato da B.P.M. (nella
gestione post Ponzellini) aveva fatto emergere la correttezza formale delle
procedure seguite per la concessione degli affidamenti al gruppo Atlantis, o che
lo stesso gruppo godeva di ottima reputazione presso altre banche, non poteva
comunque considerarsi dirimente per escludere la fondatezza dell’ipotesi
accusatoria, a fronte del presupposto che durante quell’istruttoria formalmente
ineccepibile non vi erano state informazioni esaurienti su ciò che un altro istituto
– seppure incorrendo in una topica e perdendo un’occasione per fare utili, stando
alla difesa – aveva rilevato poco tempo prima. Analogamente, registrare la
prova che la B.P.M. non aveva subito pregiudizi patrimoniali a seguito del

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l’onere di motivazione dell’ordinanza del Tribunale del riesame che può anche

rapporto con la Atlantis non avrebbe avuto alcun significato per escludere il
nocumento richiesto dall’art. 2635 cod. civ., come inteso dal Tribunale.
3. Venendo al tema della configurabilità del reato previsto dall’art. 2635 cod.
civ., la difesa del ricorrente contesta che possano sussistere gravi indizi di
colpevolezza quanto a presunte infedeltà ai sensi della norma appena ricordata,
giacché nel caso di specie:
a) mancherebbe la condotta tipica prevista dal legislatore, consistente nel
Cannalire, in violazione di doveri di ufficio, e non risulterebbe comunque essere
stata realizzata alcuna inosservanza di detti doveri;
b) non vi sarebbero elementi dotati di sufficiente concretezza per ritenere che gli
appunti sulla “società inglese” sequestrati in più copie e forme, come pure i
finanziamenti erogati in favore della M2 Pictures s.r.I., documentino altrettante
erogazioni di utilità in favore degli stessi Ponzellini e Cannalire;
c) non sarebbe possibile riconoscere rilievo a un nocumento, quale evento in
ipotesi riconducibile alle condotte dei soggetti attivi delle presunte infedeltà, che
non involga gli interessi patrimoniali della Banca Popolare di Milano.
I motivi di ricorso, come appena sintetizzati e per le ragioni appresso
evidenziate, debbono tuttavia ritenersi infondati.
3.a] Il primo profilo di doglianza riguarda gli stessi termini della fattispecie
astratta disegnata dal legislatore: secondo il ricorrente, il delitto di cui all’art.
2635 cod. civ. richiede che la dazione o la promessa delle utilità sia strumentale
a far sì che l’intraneus compia od ometta atti tipici del suo ufficio, a differenza da
quanto accaduto nella vicenda in esame (dove il Ponzellini si sarebbe limitato ad
esprimere pareri, ovvero a partecipare con il proprio voto a delibere di organi
collegiali). Né sarebbe corretto ritenere sufficiente, come si legge invece
nell’ordinanza del G.i.p. e senza che il provvedimento del Tribunale del riesame
abbia ritenuto di analizzare il problema, una generica sovrapposizione di interessi
personali in conflitto con quelli della B.P.M., che rileverebbe invece ai fini della
ben diversa figura delittuosa prevista dal precedente art. 2634 cod. civ., guarda
caso norma in cui la condotta tipica può anche assumere la modalità del
“concorrere a deliberare”, oltre a quella del “compiere”.
In vero, stando alla struttura della fattispecie incriminatrice ex art. 2634
cod. civ., la cui rubrica recita – e sul punto si dovrà tornare – “infedeltà
patrimoniale”, possono commettere detto reato gli amministratori, i direttori
generali e i liquidatori che “compiono” o “concorrono a deliberare” atti, quando si
trovino ad avere un interesse in conflitto con quello della società di
appartenenza; l’art. 2635 cod. civ. attribuisce invece rilievo penale alla condotta

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compimento o nell’omissione di atti correlati alla veste del Ponzellini o del

di amministratori, direttori generali e liquidatori (ma, come si vedrà tra breve,
anche di numerosi altri soggetti) che “compiono” od “omettono” atti, quando ciò
avvenga in violazione dei doveri di ufficio che essi avrebbero dovuto osservare
ed a seguito di una dazione o promessa di utilità.
A ben guardare, tuttavia, la peculiarità della prima ipotesi criminosa non sta
tanto nell’individuare una apparentemente esclusiva possibilità di rilievo penale
per la condotta di chi concorra alla formazione della volontà di un organo
collegiale, bensì nella natura esclusivamente patrimoniale degli interessi sottesi

condotta consegua un danno, appunto, patrimoniale (e non un più generico
nocumento, come richiede invece l’art. 2635): soggetti attivi del reato, infatti,
possono essere solo coloro – amministratori, direttori generali e liquidatori – che
abbiano un effettivo potere di gestione del patrimonio della società, e perché si
realizzi un’infedeltà patrimoniale

ex art. 2634 cod. civ. occorre che l’atto

compiuto in forma monosoggettiva o collegiale sia non già un qualunque atto di
amministrazione o indirizzo, bensì (come testualmente richiede la norma) un
atto di disposizione di beni sociali.
E’ dunque in ragione della categorizzazione della tipologia di atto rilevante
che, in ossequio a doverose esigenze di tassatività, il legislatore ha ritenuto
necessario contemplare come modalità della condotta anche il “concorrere a
deliberare”; risolvendosi il precetto nel divieto dell’adozione di atti dispositivi di
beni sociali, a fronte di un presupposto conflitto di interessi, una fattispecie
astratta che si limitasse a sanzionarne il compimento non consentirebbe di
perseguire situazioni in cui all’amministratore, direttore o liquidatore, potenziale
soggetto attivo, sarebbe impossibile ascrivere di avere “compiuto” atti, riservati
invece alla competenza di organi diversi (pur se, in ipotesi, organi collegiali di cui
egli faccia parte).
Analoga esigenza, invece, non vi era quanto al reato di cui all’articolo
seguente, per concretizzare il quale non è necessario che l’atto abbia una
particolare connotazione: è anzi oltremodo significativo, così anticipando una
delle tematiche che verranno approfondite in seguito in tema di bene giuridico
tutelato dalla fattispecie incriminatrice ex art. 2635 cod. civ., prendere atto che
qui possono rilevare anche le condotte omissive, non contemplate invece dall’art.
2634. Se dunque per un’infedeltà patrimoniale può escludersi la rilevanza di
condotte omissive o di mera organizzazione, coerentemente alla necessità che si
produca un danno patrimoniale (al più, una condotta negativa potrebbe
determinare ipotesi di lucro cessante), non altrettanto è a dirsi, in linea di
principio, per i casi di infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità, dove la
sanzione penale è apprestata per il compimento o l’omissione di qualunque atto,

alla fattispecie, come chiaramente confermato dalla necessità che a quella

e non soltanto per quelli dispositivi di beni sociali.

Non a caso, come già

avvertito, tra le peculiari figure che possono essere chiamate a rispondere del
reato proprio di cui all’art. 2635 non vi sono soltanto i titolari del potere gestorio,
ma anche i sindaci, i responsabili della revisione e – a far data dall’entrata in
vigore della legge n. 262 del 2005 – i dirigenti preposti alla redazione dei
documenti contabili societari.
Soggetti che, all’evidenza, possono trovarsi a compiere (od omettere) una
vasta ed assolutamente generica categoria di atti, anche di mera organizzazione
società presso cui svolgano il loro ufficio. Deve perciò ritenersi, contrariamente
alla tesi difensiva, che “atto”, nella nozione dettata dall’art. 2635 cod. civ. ed ai
fini che qui interessano, sia anche un parere versato nell’istruttoria di una pratica
di finanziamento o per l’apertura di una linea di credito, come pure l’espressione
di voto manifestata ai fini della formazione di una delibera collegiale.
A proposito della violazione dei doveri di ufficio, la difesa obietta che le
pratiche relative ai finanziamenti oggetto di contestazione – intervenuti il
27/10/2009 ed il 09/11/2010 – furono regolari, senza che si registrassero
deviazioni di sorta dalle normali procedure adottate presso la B.P.M.: circostanza
che sarebbe stata anche confermata da verifiche effettuate dalla stessa banca
dopo la cessazione dalla carica da parte del Ponzellini e la notizia dell’iscrizione
del procedimento penale, come del resto dalla constatazione empirica che
l’istituto, anche successivamente all’adozione delle ordinanze di custodia
cautelare nei confronti del Ponzellini e del Cannalire, non risulta avere rivisto i
termini del rapporto contrattuale con la società finanziata (tema che investe
anche la problematica della configurabilità di un danno o nocumento).
Tuttavia, il rilievo che sul piano formale l’istruttoria abbia rispettato un certo
standard di requisiti nulla suggerisce in ordine alla completezza della medesima:

sul punto, muovendo dalla premessa che le motivazioni del G.i.p. e del Tribunale
di Milano (anche attraverso l’espresso richiamo da parte della seconda ordinanza
alle argomentazioni utilizzate nella prima) vengono a fondarsi in un compendio
unitario, si deve prendere atto che secondo la relazione ispettiva della Banca
d’Italia, riportata nel provvedimento del giudice di prime cure, le decisioni su
erogazioni o affidamenti risultavano da una quasi acritica adesione a quanto
proponeva il management, con il corredo di informative spesso non esaurienti.
Sia il G.i.p. che il Tribunale del riesame richiamano quindi le dichiarazioni dei
dirigenti Piero Lonardi e Luigi Lucca sull’impegno personale ed assai determinato
del Ponzellini nel far sì che la pratica Atlantis fosse definita favorevolmente alle
istanze della richiedente, suggerendo a questo o quel funzionario di “lasciar
perdere” le note di altre direzioni dell’istituto, e senza che nel corso

e senza alcuna incidenza diretta sugli interessi strettamente patrimoniali della

dell’istruttoria venisse dato il dovuto risalto ad accertamenti fiscali e prospettive
di sanzione in danno della società da finanziare, per quanto poi nettamente
ridotte come segnalato dagli stessi giudici di merito; risalto negato pure alla
circostanza che – si legge nell’ordinanza oggi impugnata – «Intesa San Paolo nel
settembre 2010 comunicava che non sussistevano neanche le premesse per
procedere ad un’istruttoria formale di affidamento, non procedendo neanche
all’apertura dei conto corrente (Atlantis-BPlus presentava infatti, all’epoca,
secondo le analisi eseguite da Intesa San Paolo, “un rilevante indebitamento
concessione AAMS in scadenza”, “rilevanti impegni di pagamento in scadenza
assunti senza aver pianificato adeguatamente idonea copertura finanziaria”)».
Il ricorrente obietta che Intesa San Paolo sarebbe stato l’unico istituto ad
avere assunto un atteggiamento di chiusura, giacché molte altre banche, alcune
addirittura fiutando un lucroso affare nel cercare occasioni di inserimento nel
settore del gioco legalizzato, sarebbero state disposte a concedere credito alle
società del gruppo Atlantis-BPlus: fatto sta che, in ogni caso, la situazione
all’epoca del finanziamento era quella, e così avrebbe dovuto essere
rappresentata agli organi chiamati a deliberarlo, sia pure dandosi atto che il
rischio di sanzioni in sede tributaria era da ridimensionare, e che forse l’altro
Istituto aveva compiuto valutazioni inesatte o addirittura controproducenti,
lasciandosi sfuggire un cliente affidabile e di eccezionale rilevanza. Inoltre, non
era certamente stato dato rilievo al problema della collocazione off-shore della
controllante, su cui il Tribunale di Milano evidenzia correttamente la successione
tra le leggi nn. 88 del 2009 e 220 del 2010: vero è che la legge di stabilità del
2010 non era ancora vigente, e dettava quindi obblighi in vista di adempimenti
cui gli interessati avrebbero avuto tempo di adeguarsi, ma va considerato che
con la normativa del 2009 si imponeva già alle concessionarie – nel settore
dell’esercizio e della raccolta a distanza di giochi legalizzati – di avere sede
legale od operativa in uno degli Stati dello spazio economico europeo, e che la
legge dell’anno 2010 estendeva quella prescrizione anche alle società
controllanti.
E’ dunque indiscusso, ma ancora una volta sul piano meramente formale,
che la società concessionaria richiedente il finanziamento (BPlus Giocolegale ltd.)
avesse sede legale in Inghilterra e sede secondaria a Roma già nel 2009,
rispettando così l’obbligo allora vigente: ma è altrettanto evidente che fosse e
dovesse essere avvertita – ivi compreso dai soggetti operanti nel settore
dell’erogazione del credito – l’esigenza di un rispetto non elusivo delle reali
finalità della legge comunitaria, il che poteva certamente accadere in presenza di

finanziario”, “dubbi sulla continuità aziendale” per “aleatorietà del rinnovo

una concessionaria europea, controllata però da altra società (o rete di società)
di chissà dove.
Non a caso, le previsioni della legge 7 luglio 2009, n. 88, erano
espressamente dettate “al fine di contrastare in Italia la diffusione del gioco
Irregolare ed illegale, nonché di perseguire la tutela dei consumatori e dell’ordine
pubblico, la tutela dei minori e la lotta al gioco minorile ed alle infiltrazioni della
criminalità organizzata nel settore dei giochi”, finalità letteralmente identiche a
quelle con cui l’art. 77 della legge 13 dicembre 2010, n. 220, giungeva l’anno
stessi requisiti.
Alla data di entrambi i finanziamenti, fermo restando che le ipotizzate
dazioni o promesse di utilità in favore del Ponzellini e del Cannalire sarebbero
comunque antecedenti soltanto al secondo, la situazione della BPlus Giocolegale
era perciò quella fotografata, ai ben più limitati fini della gestione di carte di
credito e non già di finanziamenti per decine di milioni di euro, da American
Express Service Europe ltd., che – in una segnalazione di operazione sospetta
riportata sia nell’ordinanza del G.i.p. che in quella del Tribunale – avvertiva
come «la struttura della BPlus Giocolegale appare […] piuttosto complessa
perché costituita da una complessa gerarchia di società con sede in paesi
caraibici. Infatti se il 5% della società è composta da soci italiani identificabili, il
restante 95% è controllato attraverso una lunga catena di società off-shore con
sede nelle Antille Olandesi»; ne derivava una valutazione di «società ad alto
rischio in considerazione dell’attività che svolge e della struttura complessa e
poco trasparente, che riporta a paesi come le Antille Olandesi, considerati ad alto
rischio da un punto di vista di riciclaggio».
3.b] Sul problema delle promesse o dazioni di utilità, che involge valutazioni
esclusivamente confinate al merito della vicenda, questa Corte non può che
prendere atto della estrema significatività delle annotazioni su compensi che il
Ponzellini avrebbe in parte percepito, in ragione di un indefinito rapporto
contrattuale con la Atlantis secondo la normativa inglese, nonché del
finanziamento senza interessi erogato dalla BPlus ad una società operante in
tutt’altro settore, parte delle cui quote appartengono al Cannalire.
Dovendosi qui discutere dì standard sufficiente a concretizzare la gravità
indiziaria richiesta dall’art. 273 cod. proc. pen., appare evidente che dagli
elementi ora ricordati si desume con ragionevole certezza che quelle erogazioni
si spiegano in virtù dei rapporti intessuti dal Corallo con i coindagati, per effetto
e nello stesso contesto temporale delle istanze di finanziamento che le società
del primo avevano avanzato alla B.P.M.

24

dopo ad imporre anche alle società controllanti le concessionarie di godere degli

Del resto, oltre alla pacifica valenza indiziaria dell’inusuale comportamento
del presidente di una banca che, accompagnato da un collaboratore diretto,
abbia incontri pressoché clandestini con un cliente fuori dall’istituto,
l’interpretazione del contenuto del documento intitolato “Atlantis contratto: nome
società inglese”, come offerta nelle decisioni dei giudici di merito, appare
plausibile e logica. Su quell’appunto, il G.i.p. segnala che «il testo riproduce i
contenuti di massima di un accordo che dovrebbe fare capo ad una società
inglese della quale non si indica il nome. Segue un riepilogo di somme da
una somma di 130.000,00 euro già ricevuta e di altra somma pari a 300.000,00
euro definita “nuovo versamento”, con scadenza febbraio 2011. Il resto del
testo è posto sotto il titolo “proposta” e fa riferimento ad un contratto triennale
da 100.000 sterline britanniche al mese fino al 2013, per un totale di 3.500.000
sterline. Vi è una parte dedicata ai contenuti del contratto. La chiusura fa
riferimento alla legislazione vigente in Inghilterra, quale scelta delle parti. Dagli
elementi contenuti nel testo, Io stesso può ragionevolmente datarsi ottobrenovembre 2010, quindi in perfetta corrispondenza cronologica con i passaggi di
denaro realizzati da BPlus in favore della M2 Pictures s.r.l. di Antonio Cannalire.
Se ne desume che la somma di 900.000,00 euro da avere entro l’ottobre del
2010 sia stata corrisposta […]. Non possono […] esservi dubbi sul fatto che tale
documento rappresenti la formalizzazione di un accordo per la dazione di denaro
da parte di Atlantis a Ponzellini: denaro il cui ammontare è puntigliosamente
determinato e tale da potersi definire certamente dovuto o comunque promesso
da Atlantis alla controparte».
Nell’ordinanza oggetto dell’odierno di ricorso, il Tribunale di Milano attesta
più precisamente che l’appunto «contiene una dettagliata elencazione di somme
da “avere”, pari a 900.000,00 euro riferite ad ottobre 2010, ovvero “ricevute”
per gli importi di C 125.000,00 + 40.000,00 in riferimento al dicembre 2010, con
“resto” di C 735.000,00»; quindi evidenzia che «appare chiara in questo caso
l’antecedenza della promessa corruttiva (900.000,00 euro nell’ottobre 2010) alla
deliberazione del finanziamento (09/11/2010), promessa poi parzialmente
concretizzatasi nella dazione di 165.000,00 euro nel dicembre 2010, con
previsione di parte del residuo pagamento di 300.000,00 euro nel febbraio 2011
(indicato nel manoscritto come “nuovo versamento”)».
Ricostruzioni, come detto, senz’altro plausibili e che la difesa ha cercato di
sconfessare limitandosi a rappresentare che l’appunto non poteva documentare
accordi illeciti, essendo stato conservato senza alcuna cautela nell’ufficio del
Ponzellini: osservazione di mero fatto e peraltro destituita di concreto

25

“avere” pari a 900.000,00 euro riferite all’anno 2010, nel quale si dà conto di

fondamento, atteso che lo scritto non era comunque accessibile a chicchessia,
bensì riposto all’interno di una cartellina intestata alla “Atlantis”.
Altrettanto indicativo, a sostegno dell’impianto accusatorio, è il contratto di
associazione in partecipazione apparentemente datato 19/10/2010, in virtù del
quale la BPlus sarebbe stata interessata a finanziare, senza interessi, la M2
Pictures s.r.l. per 1.000.000,00 di euro, da rimborsarsi entro il 2015. In
relazione a quel contratto, il Tribunale di Milano segnala l’acquisito riscontro
documentale a due bonifici da 500.000,00 euro ciascuno, effettuati in data 26
non ha nulla a che vedere con la cinematografia, settore di interesse della M2
Pictures, di cui Antonio Cannalire risulta socio al 10%.
In una prospettiva di verifica del raggiungimento della soglia dei gravi indizi
di colpevolezza ai sensi dell’art. 273 cod. proc. pen., è allo stato priva di
concretezza l’obiezione difensiva secondo la quale non sarebbe provata l’effettiva
destinazione data a quelle somme presso la società finanziata, così come non è
dato sapere se ed in quale misura la BPlus abbia avuto modo di partecipare agli
utili della M2 Pictures, qualora ve ne siano stati; l’entità del finanziamento, senza
un serio corrispettivo economico, fa dunque ritenere che le osservazioni dei
giudici di merito siano dotate di adeguata coerenza argomentativa. Già
nell’ordinanza del G.i.p., infatti, si osservava che quel negozio doveva intendersi
ragionevolmente simulato, anche perché «la forma contrattuale dell’associazione
in partecipazione, finalizzata a schermare la vicenda illecita sottostante, appare
essa stessa incongrua. In vero, posto che tale contratto comporta che
l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua
impresa, o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto
(artt. 2549 e segg. cod. civ.), è qui evidente la deviazione fra la causa
contrattuale tipica e l’oggetto effettivo delle prestazioni, ovvero il finanziamento
senza interessi da parte di BPlus in favore di una società cui la finanziatrice non è
apparentata né per oggetto né soggettivamente».
3.c] In ordine alla configurabilità del delitto di cui all’art. 2635 cod. civ., il
tema più delicato e di maggior spessore sul piano giuridico, fra quelli proposti dal
ricorrente, riguarda senza dubbio l’interpretazione della nozione di “nocumento”
contenuta nel precetto normativo.
Già distinguendo le peculiarità della fattispecie in esame rispetto a quella
4

disegnata dal precedente art. 2634, era peraltro apparso evidente che la
criminalizzazione delle condotte di infedeltà può essere intesa da un lato come
manifestazione della tutela del patrimonio dell’ente nel cui ambito si colloca
l’intraneus, in una chiave eminentemente privatistica, ovvero – dall’altro ispirarsi ad un modello lealistico (come risulta con maggiore chiarezza nell’a

ottobre e 24 novembre 2010; ed è da rilevare che l’oggetto sociale della BPlus

legislazione di altri paesi, ad esempio nell’art. L. 152-6 del Code du travail
francese), laddove si intenda soprattutto sanzionare la violazione del rapporto di
fiducia che lega il “corrotto” all’ente: in questa seconda prospettiva, può
assumere dunque rilievo l’abuso di un potere che l’intraneus sia chiamato ad
esercitare in funzione di interessi altrui, non solo di natura strettamente
patrimoniale, e che svolga invece alterando i processi decisionali che lo vedono
coinvolto.
Un primo punto di partenza, nella disamina della fattispecie concreta, può

legislatore italiano al momento dell’introduzione della rilevanza penale delle
condotte di infedeltà: or bene, nella relazione al d.lgs. n. 61 del 2002 si legge
che venne tenuta presente l’esigenza di «repressione dei fatti di infedeltà
commessi dai soggetti qualificati a seguito della dazione o promessa di utilità,
nella quale tuttavia, conformemente alla legge delega, si orienta la tutela in
chiave di protezione del patrimonio sociale, piuttosto che di salvaguardia del solo
dovere di fedeltà degli amministratori, trasformando la fattispecie da reato di
pericolo a reato di danno e subordinando la procedibilità alla presentazione della
querela».
Ad una prima e sommaria analisi, limitata alla presa d’atto del contenuto
della relazione appena virgolettata, l’opzione sembra dunque essere stata rivolta
verso la già descritta chiave privatistica, piuttosto che a fornire una dimensione
lealistica del rapporto fiduciario tra l’amministratore e la società: la necessità di
una sanzione penale della condotta di infedeltà per gli amministratori che
abbiano ricevuto promesse o dazioni di utilità risponderebbe, in definitiva, alle
stesse ragioni sottese alla tutela dell’ente da condotte di infedeltà patrimoniale.
Ci si deve però chiedere, a questo punto, quale senso ragionevole abbia la
previsione, nell’art. 2635, di un evento qualificato come “nocumento”, concetto
evidentemente di genere, piuttosto che come “danno patrimoniale”, concetto di
specie già immediatamente prima sussunto nella fattispecie prevista dall’art.
2634 cod. civ.: se la tutela viene apprestata al patrimonio della società, nell’una
e nell’altra ipotesi, non si vede perché l’evento conseguente ad un atto
dispositivo di beni sociali in costanza di conflitto di interessi (in un caso) e quello
derivato dal compimento o dall’omissione di un atto da parte di chi abbia
ricevuto la dazione o la promessa di un’utilità (nell’altro caso) debba assumere
.ax

connotazioni differenti.
Non sembra condivisibile, in proposito, l’assunto difensivo secondo cui una
lettura necessariamente patrimoniale del concetto di nocumento dovrebbe
appunto derivare da una prospettiva di allineamento della previsione ex art.
2635 cod. civ. con la diversa ipotesi di infedeltà sanzionata dall’art. 2634: per

senz’altro consistere nella verifica di quale sia stata l’opzione esercitata dal

allineare e coordinare le due fattispecie, sarebbe stato oltremodo agevole e
immediato fare ricorso alle stesse scelte terminologiche, che invece appaiono
distinte fin dalle rispettive rubriche, laddove l’infedeltà è espressamente da
intendersi “patrimoniale” solo nell’art. 2634, vale a dire nella stessa norma dove
si richiede un evento che sia altrettanto espressamente connotato da
patrimonialità.
Va allora ribadito, come già avvertito pagine addietro, che le due norme
disegnano fattispecie astratte sensibilmente differenti, richiedendosi l’adozione di
assumere rilievo anche condotte di mera omissione di atti dovuti: diversi sono i
potenziali soggetti attivi, limitati per l’infedeltà patrimoniale soltanto a coloro che
abbiano poteri di gestione diretta dei beni della società, ed estesi nell’art. 2635
cod. civ. fino a comprendere sindaci, responsabili della revisione e dirigenti
preposti alla redazione dei documenti contabili societari.
Per una migliore comprensione dei termini del problema, è dunque
opportuno verificare quale significato sia stato attribuito dalla giurisprudenza di
questa Corte al termine “nocumento” nelle altre occasioni in cui si è reso
necessario chiarirne la portata, avuto riguardo alle (affatto diverse ed
eterogenee) ipotesi criminose dove quella nozione risulti richiamata.
In tema di patrocinio infedele, è stato affermato che «l’evento di danno, e
quindi il nocumento agli interessi della parte difesa, assistita o rappresentata
dinanzi all’autorità giudiziaria, non va inteso nel senso civilistico e quindi non è
necessario che si verifichi un pregiudizio patrimoniale, ben potendo consistere
anche soltanto nell’adozione di comportamenti imprudenti in conseguenza della
comunicazione di una falsa notizia circa l’esito di un procedimento civile di
rilevante importo economico» (Cass., Sez. IL n. 22702 del 20/05/2008, Fichera,
Rv 240417). Nella motivazione di una più recente pronuncia (Cass., Sez. VI, n.
29653 del 26/05/2011, Boari) si è precisato che l’art. 380 cod. pen. descrive «un
reato di evento, in cui si richiede che alla condotta del patrocinatore consegua,
appunto, un nocumento, che non deve essere inteso soltanto come un vero e
proprio danno patrimoniale, ma anche riferito al mancato conseguimento di
benefici di natura morale che la parte avrebbe tratto qualora il patrocinatore si
fosse comportato lealmente». Perciò, con riguardo ad una fattispecie concreta in
cui era stato contestato ad un legale di essersi reso irreperibile per il proprio
assistito, così realizzando una dolosa astensione dall’attività processuale, si è
rilevato che «l’astensione deve pur sempre essere causa di un nocumento per la
parte, altrimenti non potrebbe configurarsi la fattispecie delineata nell’art. 380
cod. pen., che, come si è detto, è reato di evento. L’astensione può essere
considerata condotta infedele quando produce conseguenza negative per la

atti dispositivi di beni sociali solo nella prima, mentre nella seconda possono

parte, ad esempio nel caso in cui il difensore ometta di produrre mezzi di prova,
ovvero trascuri la scadenza di un termine o ometta di costituirsi in giudizio, cioè
ogni qual volta si traduca in una omissione dolosa della difesa», non potendosi
invece «ritenere che il nocumento sia consistito nella sostituzione del difensore e quindi nel pagamento della relativa parcella – in mancanza della dimostrazione
che lo “stallo difensivo” abbia compromesso il conseguimento di benefici, anche
solo morali, alla parte offesa».
In tema di rivelazione del contenuto di documenti segreti, si è altresì
reato ex art. 621 cod. pen. – deve intendersi quale «pregiudizio giuridicamente
rilevante di qualsiasi natura» (Cass., Sez. V, n. 17744 del 16/01/2009, Paciello).
A proposito del reato di trattamento illecito di dati personali, sanzionato
dall’art. 167 d.lgs. n. 196 del 2003, una recentissima pronuncia (Cass., Sez. III,
n. 23798 del 24/05/2012, Casalini) osserva: «considerato che, per “danno”
(anche in senso lessicale) si deve intendere ogni fatto circostanza o azione che
“nuoce”, sia materialmente che moralmente, e che la parola “nocumento” altro
non significa (nella lingua italiana, con chiara derivazione latina) che “atto, o
effetto, del nuocere”, la quasi sovrapponibilità dei significati di tali parole deve
indurre a cercare il senso retrostante della parola in esame nella rado posta alla
base del suo inserimento nella fattispecie criminosa di cui si discute. In tale
prospettiva, la soluzione è agevolmente rinvenibile una volta che si rifletta sul
fatto che […] la introduzione del “nocumento” nella novella legislativa che ha
interessato il d.lgs. n. 196 del 1993, art. 167, sembra finalizzata ad evitare che
la disposizione trovi un’applicazione eccessivamente formale e, quindi, anche a
dare “effettività” alla tutela della riservatezza dei dati personali. In altri termini,
non appare inesatto ritenere che il legislatore, con la valorizzazione del fattore
“nocumento” abbia inteso richiamare l’attenzione sulla concreta offensività della
condotta. A ben vedere, non vi è molta differenza con quanto avviene in altre
disposizioni normative nelle quali si usa, analogamente, la stessa parola, come
ad esempio, nell’art. 380 cod. pen. (che sanziona il patrocinio infedele). Anche
in quel caso, come questa S.C. ha avuto modo di affermare LI pur quando sia
accertata la dolosa astensione del difensore dall’attività processuale per la quale
aveva ricevuto il mandato, non si può ritenere raggiunta la prova della
colpevolezza, se non vi è anche quella del nocumento, per gli interessi della
parte, che da quella condotta sia derivato. Coglie nel segno, pertanto, la
pronuncia del primo giudice – confermata anche sul punto dalla Corte d’appello,
quando richiama l’attenzione sul fatto che il “nocumento” non coincide con il
“danno”, bensì con la effettività ed incidenza dell’evento lesivo causato da
quest’ultimo. In altri termini, si può dire che, ai fini della disposizione dell’art.

affermato che il nocumento – costituente condizione oggettiva di punibilità del

167 in esame, il richiamo al nocumento evoca ed istituzionalizza il principio di
offensività. Il concetto, del resto, è stato già espresso da questa stessa S.C.
(Sez. III, n. 30134 del 28/05/2004, Barone, Rv 229472) […]. In quel caso,
infatti, si era sostenuto che la tipizzazione del “nocumento” comportava la non
punibilità di violazione alla tutela dei dati personali colà contestata perché aveva
prodotto “un vulnus minimo all’identità personale del soggetto passivo ed alla
sua privacy”. In quella decisione, si soggiungeva come ulteriore connotazione del
vulnus, che esso dovesse essere tale da determinare un danno patrimoniale

restrittiva e dissonante con il concetto – pacifico – che il danno (ed, a fortiori, il
nocumento) possa essere anche diverso da quello patrimoniale. Ciò è tanto vero
che, in altra recente pronuncia (Sez. III, n. 17215 del 17/02/2011, L., Rv
249991), questa S.C. ha ravvisato la tutelabilità degli interessi, sicuramente non
strettamente economici, dei familiari di una persona, deceduta, la cui immagine
in stato morente era stata illecitamente diffusa. A tale stregua, considerata la
molteplicità di forme di manifestazione del “nocumento” che può conseguire ad
un illecito trattamento dei dati personali, sembra possibile concludere che, con
l’inserimento della condizione obiettiva di punibilità di cui trattasi, il legislatore
abbia inteso, in qualche modo, arretrare la soglia dell’intervento penale anche
alla semplice esposizione al pericolo di una lesione dell’unico bene protetto dal
d.lgs. n. 196 del 1993 (vale a dire il diritto dell’interessato al controllo sulla
circolazione delle sue informazioni personali) formulando la norma come se si
fosse al cospetto di un reato di pericolo concreto con dolo di danno. In altri
termini, il reato è perfetto quando la condotta si sostanzia in un trattamento dei
dati personali, in violazione di precise disposizioni di legge, effettuato con il fine
precipuo di trame un profitto per sé o per altri o di recare ad altri un danno ma
la sua punibilità discende dalla ricorrenza di un effettivo “nocumento” (nel senso,
cioè, che il profitto conseguito o il danno causato siano apprezzabili sotto più
punti di vista). Si è, in altri termini, al cospetto di un reato di pericolo effettivo e
non meramente presunto […], con il risultato che la illecita utilizzazione dei dati
personali è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre
nocumento (cosa che, ovviamente, deve essere valutata caso per caso) alla
persona dell’interessato e/o al suo patrimonio».
L’excursus

giurisprudenziale appena tratteggiato dà la misura della

comunemente diffusa e distinta accezione della nozione di “nocumento” rispetto
a quella di “danno”, ed ancor più rispetto a quella di “danno patrimoniale”: e pur
laddove si è voluto sottolineare la rilevanza dell’opzione terminologica del
legislatore nel senso di una compiuta descrizione dell’offensività della condotta,
non sembra possibile sostenere che il termine “nocumento” divenga sic et

30

apprezzabile ma, a ben vedere, si tratta di puntualizzazione eccessivamente

simpliciter sinonimo di “danno patrimoniale” in tutti i casi nei quali si debba
ritenere che la norma incriminatrice presa in esame tuteli solo prevalentemente,
ma non già esclusivamente, interessi di natura patrimoniale.
Anche l’argomento utilizzato dal ricorrente, secondo cui l’introduzione della
circostanza aggravante del “grave nocumento ai risparmiatori” nelle ipotesi di
false comunicazioni sociali, ai sensi della legge n. 262 del 2005, confermerebbe il
carattere patrimoniale della lesione che, ove realizzatasi in concreto, determina
l’intervento sanzionatorio penale, non può intendersi decisivo. Che il danno (o il

esame da quella norma sia soltanto quello patrimoniale, infatti, non deriva dalla
presa d’atto che l’intero diritto penale societario sia posto a tutela di interessi di
quella natura, come il riferimento ai risparmiatori sembrerebbe imporre: è l’art.
2622 cod. civ., al pari dell’art. 2634 ma non invece dell’art. 2635, a richiedere
già per la fattispecie non aggravata un evento che consista nel “danno
patrimoniale alla società, ai soci o ai creditori”; ed è altrettanto evidente che, ai
fini indicati da quella norma e senza alcuna implicazione di carattere generale,
sempre patrimoniale sarà il pregiudizio potenzialmente verificatosi per un
risparmiatore, soggetto da intendersi portatore di interessi ben più limitati
rispetto a quelli della società per cui abbia operato l’autore delle false
comunicazioni.
Proseguendo sulla medesima falsa riga, sarà allora inevitabile la doverosa
natura patrimoniale del “danno ai creditori” rilevante ai fini della realizzazione dei
reati previsti dagli artt. 2629 e 2633 cod. civ., vista la peculiarità dei soggetti
(titolari di situazioni giuridiche di esclusiva natura economico-patrimoniale,
relative alle ragioni di credito vantate) su cui parametrare la lesione; mentre ben
potranno avere altra natura il “danno ai soci” conseguente a condotte di impedito
controllo ex art. 2625 cod. civ., come pure i “danni alla società o a terzi” che
derivino dalla violazione del dovere di comunicare situazioni di conflitto
d’interessi, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2629-bis e 2391, primo
comma, cod. civ.
Questa Corte ritiene pertanto che l’uso della locuzione di “nocumento”, nella
fattispecie astratta delineata dal legislatore per le condotte di infedeltà ex art.
2635 cod. civ., consenta di superare i confini di un danno di natura strettamente
patrimoniale, per giungere così ad includere anche pregiudizi differenti (come ad
esempio il danno all’immagine della società, od al corretto svolgimento delle
attività organizzative e di controllo, fisiologiche alla gestione dell’impresa) che
conseguano comunque alla lesione di beni suscettibili sì di valutazione economica
– un danno all’immagine o reputazionale lo è senz’altro – ma non immediata, a
differenza di quanto accade nei casi di diminuzione patrimoniale stricto sensu.

nocumento, nel senso di effetto concretamente conseguente al danno) preso in

In tal modo, l’evento dal cui verificarsi deriva la rilevanza penale delle
condotte di infedeltà ricollegate alla preventiva dazione o promessa di utilità non
viene a perdere di concretezza, essendo pur sempre necessario tenere presente
che la fattispecie criminosa non è disegnata dal legislatore in termini di reato di
pericolo, e che la soluzione interpretativa qui adottata risulta perfettamente in
linea – prima ancora che con il contenuto della relazione al d.lgs. n. 61 del 2002,
riportato all’apertura della presente disamina – con la ricostruzione della ratio
sottesa all’intervento normativo appena ricordato e con le linee evolutive della

Il d.lgs. n. 61, infatti, trovava doverosa ispirazione nella presupposta legge
delega, n. 366 del 2001, il cui art. 11 – nel delineare i caratteri del futuro art.
2635 cod. civ., e subito dopo aver già statuito al punto 12) la necessità che alle
ipotesi di infedeltà patrimoniale dovessero conseguire danni di identica
connotazione – prevedeva al punto 13) di introdurre la figura criminosa di
«comportamento infedele, consistente nel fatto degli amministratori, direttori
generali, sindaci, liquidatori e responsabili della revisione, i quali, a seguito della
dazione o della promessa di utilità, compiono od omettono atti in violazione degli
obblighi inerenti al loro ufficio, se ne deriva nocumento per la società». E’
opportuno ricordare che il testo iniziale del conseguente disegno di legge (il n.
1137, presentato il 03/07/2011) aveva già rinominato la fattispecie – art. 10,
punto 13) – come ipotesi di “corruzione”, ed anticipato la soglia di penale
rilevanza al verificarsi di un “pericolo di nocumento” per la società: il successivo
dibattito avrebbe poi portato all’elaborazione di un testo finale più aderente alla
legge delega, con l’abbandono del riferimento ad un evento di mero pericolo
onde evitare una eccessiva dilatazione nella concreta applicabilità della norma.
Fermo restando, dunque, che ci si trova dinanzi ad un reato di danno, il
legislatore delegante già anticipava la distinzione fra “danno patrimoniale” e
“nocumento” che sarebbe stata poi riprodotta negli artt. 2634 e 2635 cod. civ.;
e, per comprendere ancor meglio quella differente opzione terminologica, è di
estremo ausilio l’analisi della fonte normativa sovranazionale a sua volta
presupposta alla legge delega n. 366 del 2001, da individuarsi nella Azione
comune del 22/12/1998 adottata dal Consiglio dell’Unione Europea sulla base
dell’articolo K.3 del trattato sull’Unione medesima, in tema di corruzione nel
settore privato. La detta Azione comune (n. 98/742/GAI) prevedeva all’art. 2
una definizione di “corruzione passiva nel settore privato”, da registrarsi
«quando una persona nel quadro delle sue attività professionali intenzionalmente
sollecita o riceve, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio
di qualsiasi natura, ovvero accetta la promessa di tale vantaggio per sé o per un
terzo, per compiere o per omettere un atto, in violazione di un dovere»; si aveva

normazione succedutasi nella materia in esame.

corrispondentemente corruzione attiva, ai sensi dell’art. 3, «quando un soggetto
intenzionalmente promette, offre o concede, direttamente o tramite un
intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura ad una persona, per essa
stessa o per un terzo, nel quadro delle attività professionali di tale persona
affinché essa compia o ometta un atto in violazione di un dovere».
Ancor più interessante è rilevare che il secondo comma di entrambi gli
articoli appena ricordati, di contenuto identico, prevedeva: «ciascuno Stato
membro adotta le misure necessarie per assicurare che le condotte di cui al
casi di condotte che comportino o possano comportare distorsione di concorrenza
come minimo nell’ambito del mercato comune e producano o possano produrre
danni economici a terzi attraverso una non corretta aggiudicazione o una non
corretta esecuzione di un contratto».
Il primo parametro di valutazione per affermare la rilevanza penale delle
condotte di infedeltà diverse da quelle di contenuto patrimoniale è dunque ben
diverso dalle esigenze di tutela dell’integrità del patrimonio sociale dell’ente in
cui il “corrotto” presta la propria opera, giacché l’intento del Consiglio dell’Unione
Europea era quello di sanzionare almeno le condotte idonee a provocare una
distorsione dei meccanismi fisiologici di concorrenza, prima ancora o quanto
meno al contempo della possibile produzione di danni economicamente
significativi (comunque nei confronti di terzi). Ed il quadro è ancor più evidente
con l’Azione comune successiva (n. 2003/568/GAI del 22/07/2003, anch’essa in
tema di lotta alla corruzione nel settore privato, recante peraltro all’art. 8
l’abrogazione della precedente) il cui art. 2 recita: «1. Gli Stati membri adottano
le misure necessarie per assicurare che le seguenti condotte intenzionali
costituiscano un illecito penale allorché sono compiute nell’ambito di attività
professionali: a) promettere, offrire o concedere, direttamente o tramite un
intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura ad una persona, per essa
stessa o per un terzo, che svolge funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo
per conto di un’entità del settore privato, affinché essa compia od ometta un atto
in violazione di un dovere; b) sollecitare o ricevere, direttamente o tramite un
intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura, oppure accettare la
promessa di tale vantaggio, per sé o per un terzo, nello svolgimento di funzioni
direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un’entità del settore privato,
per compiere od omettere un atto, in violazione di un dovere (..). 3. Uno Stato
membro può dichiarare di volere limitare l’ambito di applicazione del paragrafo 1
alle condotte che comportano, o potrebbero comportare, distorsioni di
concorrenza riguardo all’acquisizione di beni o servizi commerciali (..)».

33

paragrafo 1 costituiscano un illecito penale. Queste misure si applicano almeno ai

L’ambito di tutela minima sollecitata dalla fonte europea arriva dunque a
prescindere integralmente da qualsivoglia prospettiva di danno patrimoniale:
istanza definitivamente confermata dal nuovo testo dell’art. 2635 cod. civ., come
risultante dalle modifiche introdotte in virtù della legge n. 190 del 2012.
Quest’ultimo, recentissimo intervento del legislatore è giunto finalmente a
conferire alla fattispecie delittuosa in esame il nomen juris di corruzione (tra
privati), comunque disegnando il precetto sanzionato in chiara continuità
normativa rispetto al testo previgente, fatte salve le nuove disposizioni in tema

amministrativa ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001. Al di là di previsioni di
carattere ordinatorio e sistematico (quale la clausola di riserva iniziale, circa
l’evenienza che il fatto costituisca più grave reato), od aventi valore esplicativo
(il rilievo che la dazione o la promessa riguardi utilità in genere, con espressa ma
non indispensabile previsione che possa trattarsi di denaro, ovvero che l’utilità
medesima sia destinata non solo all’intraneus ma anche ad altri), l’innovazione di
maggiore significato sembra consistere nella riconosciuta rilevanza di violazioni oltre che dei doveri di ufficio – anche di obblighi di fedeltà, aprendo così la
strada verso una concezione (quanto meno, ‘anche) lealistica della

ratio

dell’incriminazione. Ciò a conferma delle aperture già esistenti, nella medesima
direzione, attraverso il richiamo alla necessità di un “nocumento” per la società,
scelta lessicale che non a caso il legislatore ha ritenuto di confermare anche con
l’ultima novella del novembre 2012, e che avvalora la tesi secondo cui la norma
in esame mirava già – e sia, a fortiori oggi, strumentale – alla repressione di
forme di mala gestio tali da determinare deviazioni al fisiologico andamento delle
attività della società, prima ancora ed a prescindere da lesioni all’integrità del
patrimonio della stessa.
Un danno all’immagine, in definitiva, ben può rilevare ai fini della
concretizzazione del “nocumento” richiesto dalla norma incriminatrice in esame.
Deve peraltro trattarsi, come avvertito in precedenza, di un danno effettivo e
non meramente ipotizzato, ma nella fattispecie concreta (dovendosi ancora una
volta ribadire che si verte in tema di gravi indizi di colpevolezza per l’adozione di
misure cautelari, e non di prove a sostegno dell’affermazione di responsabilità
penali) gli elementi evidenziati dai giudici di merito – laddove ad esempio il
G.i.p. richiama un «danno reputazionale di straordinario rilievo, derivante dalla
cattiva amministrazione e dalle ricadute di immagine della società» – depongono
nel senso di una lesione già avvenuta. A sostegno della conclusione appena
illustrata, assume certamente gravità indiziaria il contenuto della querela
presentata nell’interesse della B.P.M., oggetto di valutazione da parte del
Tribunale del riesame essendone stata in quella sede eccepita la tardività in

34

di ampliamento del novero dei soggetti attivi, di procedibilità e di responsabilità

ragione di articoli di stampa pregressi ma ulteriormente indicativi di un danno
reputazionale, nonché la missiva a firma del presidente subentrato – indirizzata
ai dipendenti della banca, e prodotta dal P.M. allo stesso Tribunale – nella quale
si segnalava, con riguardo alla amministrazione precedente, che «le condotte di
chi ha gestito, direttamente o indirettamente, stanno avendo ricadute
estremamente negative sull’istituto».
Deve infine essere disatteso anche il profilo di doglianza avanzato dalla
difesa in ordine alla configurabilità nel caso di specie dell’attenuante di cui all’art.
civ. non può intendersi comunque offensivo degli interessi patrimoniali della
società (suscettibili di lesione a seguito della condotta infedele di chi abbia
ricevuto una promessa o dazione di utilità, ma non necessariamente); inoltre, in
tema di reati societari dovrebbe semmai trovare applicazione – per evidenti
ragioni di specialità – la norma prevista dall’art. 2640 cod. civ., non richiamata
dall’art. 278 cod. proc. pen. in punto di determinazione della pena a fini cautelari
e che non disegna un’ipotesi di attenuante ad effetto speciale.
Il richiamo al citato art. 2640 cod. civ. consente anzi di rinvenire un
definitivo riscontro alla correttezza dell’approccio ermeneutico seguito da questa
Corte: in primis, perché qualora il diritto penale societario dovesse realmente
Intendersi orientato alla tutela di esclusivi o comunque imprescindibili interessi di
natura patrimoniale, il legislatore non avrebbe avuto ragione di prevedere
un’attenuante ad hoc, essendo a quel punto già applicabile la circostanza
comune invocata dalla difesa; in secondo luogo, perché nel corpo del medesimo
art. 2640, all’evidente fine di accomunare le varie tipologie di evento
contemplate dalle previsioni sanzionatorie (danno, danno patrimoniale,
nocumento) e così ribadendo la possibilità di un evento penalmente rilevante ma
non incisivo sull’integrità patrimoniale della società, si prendono in esame i fatti
che abbiano cagionato «un’offesa di particolare tenuità».
4. E’ invece fondato il motivo di ricorso che riguarda la sussistenza dei gravi
indizi di colpevolezza quanto all’ipotesi di reato associativo, con la conseguente
necessità di annullare l’ordinanza impugnata sotto tale profilo, con rinvio al
Tribunale di Milano per un nuovo esame in parte qua.
Deve innanzi tutto richiamarsi, in proposito, quanto già osservato sub 1) in

tema di inutilizzabilità, nei confronti del Corallo, dei risultati delle intercettazioni:
inutilizzabilità che, per quanto “pro tempore a richiesta”, come affermato dai
precedenti arresti di questa Corte nel precisare la portata della sentenza La Sala,
avrebbe dovuto comportare l’impossibilità per il Tribunale del riesame – allo

35

62, n. 4, cod. pen., innanzi tutto perché il reato sanzionato dall’art. 2635 cod.

stato – di tenere conto delle conversazioni intercettate per analizzare la
posizione del ricorrente.
Al di là delle considerazioni che il collegio ritiene di svolgere quanto alle
separate posizioni dei coindagati circa la logicità delle valutazioni compiute in
punto di valenza indiziaria delle intercettazioni medesime, considerazioni che
verranno solo in parte richiamate tra breve, non è chi non veda come – a
dispetto di un compendio di gravità indiziaria che, per il reato sub B), risulta
fondato essenzialmente su basi documentali e sulle deposizioni di persone

Milano in ordine al delitto ex art. 416 cod. pen. derivino invece in larga parte
dagli esiti dell’attività captativa.
Se già tale constatazione empirica rende necessario che il Tribunale del
riesame rivaluti la posizione del Corallo, sul punto qui in esame, va altresì
aggiunto che:
a) pure ammettendo l’esistenza di un sodalizio criminoso organizzato da
figure più o meno di vertice all’interno della B.P.M. per fini (anche) di
arricchimento personale, rimane sfuggente il contributo che il Corallo vi
avrebbe dato, ulteriore rispetto alle condotte in ipotesi realizzative dei
reati-fine ex art. 416 cod. pen., in vista dei quali egli era sicuramente
portatore di interessi del tutto autonomi rispetto a quelli dei presunti
sodali;

peraltro, non risulta chiarito (con evidenti riflessi di

contraddittorietà della motivazione del provvedimento impugnato) perché
soltanto uno dei “corruttori” del Ponzellini e/o del Cannalire sarebbe
partecipe dell’associazione, e non anche gli altri soggetti cui facevano
capo le diverse società favorite nell’accesso al credito bancario;
b) i dati che il G.i.p. ed il Tribunale di Milano espongono sugli ulteriori
partecipi dell’associazione, non destinatari di provvedimenti restrittivi
della libertà personale (il Milanese, il Chiesa e il Rubbi) non sembrano
logicamente ed univocamente indicativi della loro appartenenza al
sodalizio.
4.a] Quanto al primo aspetto, è in effetti innegabile che secondo l’ipotesi
accusatoria l’unico cliente di B.P.M. che si reputa partecipe dell’associazione,
oltre che concorrente necessario nelle condotte rilevanti ex art. 2635 cod. civ. e
che lo riguardano come extraneus, è appunto il Corallo (non anche i legali
rappresentanti delle altre società, o comunque coloro che agirono nell’interesse
delle stesse, che avrebbero beneficiato dei comportamenti infedeli del Ponzellini,
del Cannalire o magari del Chiesa, pur non risultando che quest’ultimo abbia mai
ricevuto utilità, né che gliene vennero promesse).

36

Informate sui fatti – gli elementi segnalati prima dal G.i.p. e poi dal Tribunale di

Di peculiarità, nella posizione del Corallo rispetto a quella degli altri ipotizzati
“corruttori privati”, se ne potrebbero in teoria riscontrare due: si tratta del
soggetto che vide riconoscere a società a lui riferibili i finanziamenti di entità
maggiore, ed è pacifico altresì un suo collegamento diretto con il settore – quello
del gioco legalizzato – dove l’associazione criminosa avrebbe operato non
soltanto favorendo indebitamente l’accesso al credito per i sodali che vi fossero
Interessati, ma addirittura incidendo sulle scelte normative e di indirizzo per
regolarne lo svolgimento.
dei finanziamenti ricevuti, il Corallo sarebbe stato anche l’autore – attraverso il
gruppo Atlantis – di corrispondenti versamenti di utilità corruttive in misura più
elevata della media; peraltro, non con le modalità di una sistematica
remunerazione di chi, presso la banca, era in condizione di favorire
raccoglimento delle sue istanze, bensì solo in due occasioni. Perciò, sotto tale
profilo, nulla si registra di ulteriore e diverso rispetto alle già ritenute promesse o
dazioni di utilità, non essendo possibile inferire da quelle condotte la ragionevole
certezza che il Corallo fosse consapevole di beneficiare di un sistema consolidato
che prescindeva dai rapporti da lui singolarmente intessuti con i destinatari delle
utilità
Quanto al secondo aspetto, qui introducendo alcune delle considerazioni che
si svolgeranno sul ruolo dei presunti ulteriori compartecipi, che l’associazione o
comunque il gruppo dei soggetti operanti all’interno della Banca Popolare di
Milano svolgesse una qualche attività (o sapesse che altri la svolgevano) per
condizionare la disciplina di legge od amministrativa in materia di giochi e
scommesse, sembra soltanto un’ipotesi investigativa e nulla più. E’ infatti
ragionevolmente assodato che tra il Ponzellini e l’On. Milanese vi fossero rapporti
diretti e di frequentazione, come riferito ad esempio da Paolo Viscione nelle
dichiarazioni riportate a pag. 25 dell’ordinanza del G.i.p.: ma che fosse stato Io
stesso Milanese a “sponsorizzare” una corsia preferenziale per la pratica della
Atlantis-BPlus in B.P.M. deriva solo da voci imprecisate o da fonti del tipo «mi
venne detto da taluno che non ricordo» (come si legge nella stessa pag. 25,
quanto alla deposizione di Piero Lonardi, di cui fa parola anche il Tribunale del
riesame a pag. 13 della propria ordinanza). Analogamente, l’ipotesi che il
Corallo e il Milanese avessero avuto contatti per un previo accordo su alcuni
aspetti della normativa da emanare nel settore del gioco legalizzato deriva dalle
dichiarazioni di Guido Marino e Raffaele Ferrara, riportate a pag. 24
dell’ordinanza del G.i.p., dove si rinvengono ancor più evidenti illazioni o racconti
incerti de relato (il Ferrara si affida ad un «se non ricordo male» altri gli dissero
di un intervento del Milanese; sul conto del Corallo, il Marino sostiene che «si

37

Tuttavia, la prima connotazione è del tutto neutra: a fronte del maggior peso

dice avesse cercato contatti più efficaci all’interno del Ministero, trovandoli,
sempre per quanto appreso nell’ambiente, nell’On. Marco Milanese», quindi
aggiunge che – dinanzi a paventate modifiche normative favorevoli alle
aspettative della Atlantis – «probabilmente sia io che Ferrara abbiamo posto in
relazione il superamento degli ostacoli politici con un determinante intervento
dell’On. Milanese»).
Ergo, non può che trovare accoglimento la tesi difensiva secondo cui, allo

stato e salva la possibilità per il giudice di merito di sottolineare la rilevanza di
concorso necessario, dove in Ipotesi l’extraneus può avere concordato con i
“corrotti” di dare corso a più condotte infedeli dietro promessa o dazione di
utilità. Ed è anche condivisibile l’assunto secondo cui, ragionando altrimenti, si
giungerebbe alla inaccettabile conclusione di ritenere il dolo di partecipazione ad
un reato associativo connotato da requisiti meno stringenti rispetto ad una
fattispecie di semplice concorso esterno.
4.b] Sul ruolo di altri presunti sodali, si è già detto della difficoltà di
inquadrare il Milanese nell’ambito dell’associazione, non essendo peraltro egli
l’unico uomo politico da cui giungevano “segnalazioni” al management della
B.P.M. su pratiche di finanziamento da perorare; ed è al contempo da rimarcare
che sul Chiesa o sul Rubbi le acquisizioni istruttorie derivano soprattutto dalle
intercettazioni, da ritenere inutilizzabili nei confronti del Corallo.
Sul conto del primo, del resto, a pag. 29 dell’ordinanza del G.i.p. si riportano
le dichiarazioni di Giorgio Benvenuto (richiamate anche a pag. 5 dell’ordinanza
oggi impugnata) secondo cui la pratica Atlantis avrebbe dovuto essere portata
avanti per la determinazione – anche – del direttore generale: il Benvenuto
precisa però che quella determinazione era in prima battuta del presidente, «e
comunque di tutta la struttura», confinando così il contributo del Chiesa a mero
supporto adesivo. Tutti gli altri soggetti escussi a verbale, per quanto si legge
nelle due ordinanze dei giudici di merito, menzionano invece il ruolo e
l’interessamento del solo Cannalire, per quella come per altre pratiche di rilievo.
Per completezza di esposizione, e fermo quanto già dedotto in punto di
utilizzabilità, va peraltro accennato che anche le intercettazioni di cui è
protagonista il Chiesa (o nelle quali si parla di lui) vengono evidenziate dal G.i.p.
e dal Tribunale in termini non del tutto logici e conseguenti: a mero titolo di
esempio, la conversazione in cui il Cannalire dà corso ad una vera e propria
“sfuriata” con il Chiesa sul conto di altri – il Lucca – quanto alla gestione della
pratica Atlantis si risolve in un vero e proprio monologo dello stesso Cannalire,
praticamente senza la partecipazione dell’altro (v. pag. 34 dell’ordinanza del
G.i.p.); ed il fatto che il Chiesa, nei colloquio parimenti riportato a pag. 37 della

38

,0″”

elementi ulteriori, si è dinanzi ad un caso di reato continuato plurisoggettivo a

a

stessa ordinanza, chieda al Ponzellini cosa si debba rispondere presso il consiglio
di amministrazione sul fatto che il Cannalire fosse socio del Dell’Utri, riservandosi
di interpellare lo stesso Cannalire sulla «versione lui vuole che noi diamo»,
dimostra che il Chiesa era certamente all’oscuro delle partecipazioni societarie
del Cannalire – chiedendone notizia al presidente – e che al massimo era
disponibile a fornire una versione addomesticata, per evitare che il Cannalire si
trovasse esposto all’addebito di aver taciuto situazioni di potenziale conflitto di
interessi, senza però lasciar necessariamente intendere che egli fosse complice
Quanto al Rubbi, l’ordinanza impugnata non spiega per quali motivi il suo
contributo (emergente dalla documentazione sequestrata presso il suo studio,
che comunque viene indicato nelle ordinanze dei giudici di merito come “studio
Ponzellini – Rubbi, con quel che ne consegue circa la sicura disponibilità in capo a
quest’ultimo di tutto il carteggio ivi rinvenuto) dovrebbe intendersi indicativo di
una compartecipazione al presunto sodalizio criminoso, piuttosto che di concorso
nei singoli reati ex art. 2635 cod. civ., ovvero di condotte di favoreggiamento
reale: tanto più che le modalità attraverso le quali sarebbe stato garantito al
Ponzellini di ottenere le utilità costituenti il prezzo delle presunte condotte
infedeli sarebbero state volta a volta differenti. Il problema, per quanto la
posizione del Rubbi (non destinatario di provvedimenti restrittivi della libertà)
non dovesse essere necessariamente analizzata in prima battuta, assume
comunque rilievo centrale in una prospettiva di verifica della sussistenza del
numero minimo di compartecipi richiesto dalla legge per ritenere configurabile un
reato associativo.
Ancora a titolo esemplificativo, e sempre tenendo conto dei limiti di
utilizzabilità delle intercettazioni nei confronti del Corallo, la conversazione
registrata tra il Rubbi e il di lui fratello in cui il primo commenta la indagini in
corso dicendo «adesso ci sarà da ridere perché adesso dei soldi non li incassa
mica.. adesso è finita di incassare soldi sulla GM dai vari consulenti» rivela la
consapevolezza dell’indagato circa l’utilizzo strumentale della GM 762 s.r.l. da
parte del Ponzellini, ma non necessariamente il coinvolgimento dello stesso
Rubbi in una associazione criminosa.

4

P. Q. M.

di eventuali reati.


Annulla la impugnata ordinanza, limitatamente alle statuizioni correlate
all’addebito dell’art. 416 cod. pen., e rinvia per nuovo esame sul punto al
Tribunale di Milano.

Così deciso il 13/11/2012.

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