Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5841 del 05/12/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 5841 Anno 2014
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: SETTEMBRE ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MASSA TRUCAT LILIANA N. IL 31/03/1939
nei confronti di:
MASSA TRUCAT GIOVANNA N. IL 26/03/1933
avverso la sentenza n. 5527/2011 CORTE APPELLO di TORINO, del
14/05/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 05/12/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANTONIO SETTEMBRE
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 05/12/2013

- Udito il Procuratore generale della repubblica presso la Corte di Cassazione, dr.
Oscar Cedrangolo, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
– Udito, per la parte civile, l’avv. Roberto Borgogno, che ha chiesto
l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata.
– Udito, per l’imputato, l’avv. Mauro Ronco, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

1. La Corte d’appello di Torino, con sentenza del 14/5/2012, in totale riforma di
quella emessa dal locale Tribunale in composizione monocratica, ha assolto
Massa Trucat Giovanna dall’accusa di aver confezionato il testamento olografo
della propria madre Aimone Mariota Anna (artt. 485, 491, comma 1, 61, n. 2,
cod. pen.) e di truffa in danno della sorella Liliana, a cui avrebbe, col
confezionamento del falso testamento, sottratto parte dei beni ereditari.
La Corte d’appello è pervenuta alla conclusione sopra enunciata dopo aver
esaminato numerosi consulenti di parte pubblica e privata e due testimoni
(l’avv. Pernice, a cui la defunta si era rivolta per consiglio nel 1993, e il notaio
che ricevette e pubblicò il testamento). L’iter argomentativo della Corte d’appello
si è sviluppato sulla base delle seguenti riflessioni:
– l’imputata non aveva alcun rilevante interesse al confezionamento del falso, in
quanto il compendio ereditario non lo giustificava (ammontava a circa 30 mila
euro) e non vi erano prove di una gestione personalistica delle risorse materne
da parte sua (per cui nessun significato particolare poteva attribuirsi alla clausola
di esonero dal rendiconto, contenuta nel testamento, a suo favore);
– l’intenzione di beneficiare maggiormente la figlia Giovanna, che la accudiva, era
stata esternata dalla Aimone all’avv. Pernice ben cinque anni prima della data
contenuta nel testamento de quo e in scritti certamente provenienti dalla
defunta;
– nessun significato poteva attribuirsi all’iniziativa, presa dall’imputata, di
chiedere la pubblicazione del testamento, essendo la sola persona a conoscenza
dell’atto;
– nessuna certezza poteva desumersi dalle consulenze esaminate e acquisite al
processo, in quanto, sebbene fossero state tutte redatte da professionisti di
valore, nessuna di esse forniva argomenti per risolvere il quid del processo,
avendo tutti utilizzato metodi di analisi corretti, ma non idonei a fornire
argomenti decisivi a favore dell’una o dell’altra tesi;
– a favore dell’imputata milita la circostanza che del testamento sono state
redatte due copie, in quanto la duplicazione dell’atto moltiplicava, a suo danno,

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RITENUTO IN FATTO

la possibilità di essere smascherata; e, per lo stesso motivo, la lunghezza del
testamento;
– il contenuto dell’atto è in linea con le volontà altrimenti espresse dalla defunta
e non in contrasto col suo livello di padronanza degli strumenti linguistici.
In conclusione, pur ritenendo che alcune spiegazioni fornite dall’imputata
intorno alle modalità di confezionamento del testamento da parte della Aimone
fossero poco verosimili, la Corte a escluso che il compendio delle prove,

2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell’interesse
della parte civile e ai soli effetti civili, l’avv. Franco Coppi, che censura la
sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione. Sottolinea, innanzitutto,
che la sentenza, dopo aver evidenziato l’esistenza di elementi di giudizio che
militano, in parte, a favore dell’imputata e in parte contro di lei, l’ha poi assolta
con la formula più ampia, ravvisando in ciò un primo motivo di contraddittorietà
della motivazione. Passa poi in esame i passaggi più significativi della
motivazione per affermarne la illogicità e per evidenziare la significatività contra
reum di molte evidenze emerse all’attenzione della Corte territoriale. Lamenta, in
particolare, che il giudice di merito non abbia attribuito sufficiente importanza
all’affermazione dell’imputata, pur giudicata “poco convincente”, di aver visto la
madre redigere il testamento attraverso il vetro smerigliato di una porta; che
abbia ritenuto tutte le consulenze dotate di una loro validità ed abbia poi
svalutato quella del Pubblico Ministero, ritenendola metodologicamente scorretta,
ed abbia trascurato quella della parte civile; che non abbia tenuto conto degli
esiti del confronto dibattimentale tra i consulenti, dal quale sarebbe emersa
l’incertezza argomentativa di quello esaminato a difesa dell’imputata; che abbia
trascurato la debolezza – propria delle consulenze dell’imputata – connessa
all’utilizzo di scritti comparativi non sicuramente provenienti dalla defunta e
prodotti a singhiozzo nel dibattimento (comportamento giudicato “non cristallino”
dalla stessa Corte territoriale).
Lamenta, poi, che la Corte abbia omesso di procedere, pur di fronte ad un
quadro almeno incerto, a perizia d’ufficio, ed abbia svalutato l’interesse
dell’imputata alla falsificazione dell’atto con argomenti poco convincenti, quali la
esiguità del compendio ereditario (che poteva non esser tale per le “tasche”
dell’imputata), e non abbia tenuto conto dell’opposto interesse dell’imputata ad
evitare una rendicontazione imbarazzante. Infine, che non abbia preso in
considerazione l’eventualità che dietro l’incontro tra la defunta e l’avv. Pernice vi
fosse la longa manus dell’imputata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

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tA

complessivamente valutate, deponesse per la falsità dell’atto.

Il ricorso è inammissibile.
Pur denunziando, formalmente, una violazione di legge e il vizio di motivazione
la ricorrente, in realtà, passa in rassegna le emergenze processuali
(testimonianze, perizie, documenti) per proporne una diversa interpretazione e
sollecitare questa Corte al terzo grado di merito, fondato sulla lettura alternativa
delle prove. Trattasi di operazione chiaramente improponibile in questa sede,
giacché compito del giudice di legittimità non è quello di stabilire se la decisione
di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né

giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i principi che
presiedono alla logica dell’argomentare. Sul punto si rileva che: 1) l’illogicità
della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere percepibile “ictu oculi”,
dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica
evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze; 2) per la validità della
decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la
specifica ed esplicita confutazione di ogni passaggio della tesi disattesa, essendo
sufficiente, per escludere la ricorrenza del vizio di motivazione, che la sentenza
evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione
difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa (ex
multis, Cassazione penale, 5 maggio 2009. n. 24847).
Alla stregua di tanto non merita censura, quindi, la sentenza impugnata,
che ha proceduto ad un esame analitico e penetrante delle singole prove,
vagliate dalla Corte di appello con una sequenza motivazionale ampia, analitica e
coerente con i principi della logica, sicché non residuano spazi non indagati, né
emergono contraddizioni di pensiero o travisamenti della prova (peraltro, non
denunciati) che lascino ipotizzare un uso distorto degli strumenti della logica o
una valutazione incompleta (e perciò censurabile) del materiale probatorio. La
sentenza ha preso in considerazione, infatti, tutte le consulenze svolte dalla
parte pubblica e dalle parti private ed è giunta alla conclusione che quella svolta
dall’imputata presenta minori margini di opinabilità e maggiore affidabilità
“scientifica” in considerazione del metodo utilizzato (la “minuziosa analisi del
segno grafico in tutte le sue componenti con l’esame delle caratteristiche
intrinseche di ciascun grafismo”) e della completezza del materiale di indagine
utilizzato; ha esaminato gli scritti – diversi dal testamento – lasciati dalla
testatrice, riscontrando la corrispondenza del loro contenuto con quello proprio
del testamento; ha tenuto conto delle testimonianze acquisite al processo (in
particolare, quella dell’avv. Pernice, che ha confermato l’intenzione della Aimone
di privilegiare, tra le figlie, quella che aveva speso maggiori energie per la sua
cura e la sua assistenza, pur nutrendo uguali sentimenti per entrambe); ha
valutato la condotta dell’imputata in funzione dell’interesse – giudicato
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deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa

motivatamente scarso – alla falsificazione dell’atto, in considerazione della
modestia del compendio ereditario e dell’assenza di prove circa un uso distorto
delle risorse familiari. Né gli elementi di segno contrario, su cui la ricorrente si è
soffermata con particolare attenzione (in sostanza, la produzione a singhiozzo
degli scritti comparativi e le circostanze di confezionamento del testamento),
appaiono tali da mettere in crisi il ragionamento sviluppato nella sentenza
impugnata, trattandosi di elementi obbiettivamente labili e suscettibili di letture
contrastanti. Si tratta, ad ogni modo, di dati comunque analizzati

relativamente negativa, ha ragionevolmente escluso che fossero tali da prevalere
sul corposo compendio probatorio favorevole all’imputata. Non è corretto
affermare, infine, che il giudice di merito abbia trascurato la consulenza di parte
civile, giacché, rilevato il parallelismo tra la consulenza suddetta e quella del
Pubblico Ministero, l’ha presa in considerazione nella complessiva valutazione
delle risultanze peritali, concludendo per la maggiore opinabilità del metodo
“sintetico” utilizzato dai consulenti della pubblica accusa e della parte civile,
fondato sull’insieme visivo del documento e sugli aspetti dinamico-gestuali del
medesimo; metodo che non offre – com’è stato ampiamente argomentato in
sentenza – elementi di giudizio certi e tali da prevalere su quelli desumibili dal
metodo utilizzato dai consulenti dell’imputata. D’altra parte, nemmeno la
ricorrente espone, nel ricorso a questa Corte, gli elementi significativi della
propria consulenza trascurati dal giudicante, idonei ad orientare diversamente il
giudizio, sicché la doglianza – priva di specificità – si risolve nella contestazione
dell’approccio metodologico della Corte territoriale, di cui non è predicabile sotto nessun aspetto – la scorrettezza.
Conclusivamente,

deve rilevarsi che,

escluse palesi

illogicità nel

ragionamento della Corte e accertata la completa disamina, da parte di
quest’ultima, del materiale probatorio, i motivi di ricorso ripropongono le
medesime deduzioni in fatto e in diritto già precedentemente svolte e disattese
dalla Corte territoriale, lamentando, sotto l’apparente deduzione di vizi attinenti
alla violazione di legge e al vizio di motivazione, un’errata ponderazione delle
prove ed introducendo problematiche che esulano dai limiti cognitivi di questa
Corte.
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara
inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere
condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché — ravvisandosi
profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento
a favore della cassa delle ammende della somma di mille euro, così
equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

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w,

approfonditamente dalla Corte territoriale, che, pur giudicandoli in maniera

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000 a favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 5/12/2013

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