Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5797 del 08/11/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 5797 Anno 2014
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto dall’Avvocato Giovanni Bianco, quale difensore di
Naclerio Camillo (n. il 19.01.1984), avverso la sentenza della Corte d’appello
di Napoli, V sezione penale, in data 04.06.2012.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Aurelio
Galasso, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Udito l’Avvocato Catello Di Capua – quale difensore di Naclerio Camillo e
sostituto processuale del codifensore Giovanni Bianco – il quale ha concluso
chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Data Udienza: 08/11/2013

OSSERVA:

Con sentenza del 14.04.2011, il G.U.P. del Tribunale di Torre
Annunziata dichiarò Naclerio Camillo responsabile dei reati di rapina
aggravata e di lesioni personali aggravate e — ritenuta la continuazione e con
la riduzione per la scelta del rito – lo condannò alla pena di anni 3 e mesi 4 di

reclusione ed Euro 1.800,00 di multa.
Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame ma la Corte
d’appello di Napoli, con sentenza del 04/06/2012, confermò la decisione di
primo grado.
Ricorre per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo la
mancanza, la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione che si
fonda esclusivamente sulle dichiarazioni della P.O. (costituitasi P.C.) senza
che le sue dichiarazioni — che non sono lineari come ritenuto dai due giudici
di merito – fossero riscontrate. Sul punto evidenzia gli elementi dai quali si
rileverebbe la poca coerenza delle dichiarazioni della P.O.; sottolinea, inoltre,
che l’aver rinvenuto una giacca a vento nera (come quella descritta dalla
P.O.) nella casa dell’imputato non costituisce riscontro in quanto la predetta
giacca è un indumento comune e senza alcun segno caratteristico. Si
sofferma, infine, sulla balbuzie dell’imputato ritenuta dal primo giudice ed
esclusa dalla Corte di appello. Si duole, infine, per la mancata assunzione di
prove decisive richieste con i motivi aggiunti all’appello (escussione della
teste Viesti Annamaria a conferma dell’alibi fornito dall’imputato e
acquisizione dell’attestato di vendita di un telefonino nel quale sarebbe stato
inserito un programma che sarebbe stato scaricato da un computer proprio
nelle ore in cui veniva commessa la rapina).
Il difensore del ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.

motivi della decisione

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Il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606, comma 1, cod.
proc. pen., perché propone censure attinenti al merito della decisione
impugnata, congruamente giustificata.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione
non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la
migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la

compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass.
Sez. 4″ sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass.
Sez. 5″ sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez.
2″ sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).
Inoltre il ricorso è inammissibile anche per violazione dell’art. 591 lettera
c) in relazione all’art. 581 lettera c) cod. proc. pen., perché le doglianze (sono
le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del necessario
contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni,
ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si
palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti la Corte di merito ha
— dopo un corretto richiamo per relationem alla sentenza di primo grado – con
esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le
ragioni per le quali ritiene la responsabilità del ricorrente per il reato di cui
sopra (le dichiarazioni della P.O. e gli altri elementi probatori acquisiti che, tra
l’altro, supportano le dichiarazioni della stessa P.O. quali ad esempio: il
rinvenimento da parte della P.G. – nella casa del ricorrente – della giacca a
vento descritta dalla P.O. come l’indumento indossato dal rapinatore,
indumento poi riconosciuto dalla stessa P.O. per essere quello effettivamente
indossato dall’autore della rapina; il falso alibi creato dall’imputato che avanti
al G.I.P. si è finto balbuziente per smentire la P.O. che non aveva
evidenziato tale difetto nella descrizione dell’autore della rapina). La Corte di
appello ha, poi, ben motivato sulla credibilità della Persona Offesa,
conducendo un’attenta e accurata indagine sulla sua credibilità soggettiva ed
oggettiva. Si deve sottolineare che sul punto questa Suprema Corte ha più
volte affermato il principio — condiviso dal Collegio – secondo il quale la
testimonianza della persona offesa, ove ritenuta intrinsecamente attendibile,

giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia

costituisce una vera e propria fonte di prova, purchè la relativa valutazione
sia sorretta da un’adeguata motivazione, che dia conto dei criteri adottati e
dei risultati acquisiti (Sez. 3, Sentenza n. 22848 del 27/03/2003 Ud. – dep.
23/05/2003 – Rv. 225232; Sez. 6, Sentenza n. 27322 del 14/04/2008 Ud. dep. 04/07/2008 – Rv. 240524). Persona offesa che è teste e non chiamante
in correità; pertanto non sono certo necessari, per le sue dichiarazioni, i

correttamente evidenziati – richiesti dall’articolo 192, III comma, c.p.p.; quindi
è necessario solo accertare — come è avvenuto nell’impugnata sentenza – la
credibilità della persona offesa (si veda, fra le tante, Sez. 4, Sentenza n.
30422 del 21/06/2005 Ud. – dep. 10/08/2005 – Rv. 232018). In proposito si
deve rilevare che il ricorrente (si veda pagina 5 del ricorso) cita una sentenza
di questa Suprema Corte (del 2010 n. 4443) che, in realtà, conferma proprio
quanto sopra sottolineato. Infatti, in tale sentenza e in molte altre si afferma
che la deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola,
come prova della responsabilità dell’imputato, purché sia sottoposta a vaglio
positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole
probatorie di cui all’art. 192, commi terzo e quarto, cod. proc. pen., che
richiedono la presenza di riscontri esterni; tuttavia, qualora la persona offesa
si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese
economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a
quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e
può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri
elementi (Sez. 1, Sentenza n. 29372 del 24/06/2010 Ud. – dep. 27/07/2010 Rv. 248016). Principio questo confermato anche dalle Sezioni Unite di
questa Corte che hanno ribadito che le regole dettate dall’art. 192 comma
terzo cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa,
le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento
dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica,
corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e
dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso
essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le
dichiarazioni di qualsiasi testimone (in motivazione la Corte ha altresì
precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia altresì costituita parte

riscontri esterni — che comunque nel caso di specie ci sono e sono stati

civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con
altri elementi; Sez. U, Sentenza n. 41461 del 19/07/2012 Ud. – dep.
24/10/2012 – Rv. 253214). Principi ai quali, come già rilevato, entrambi i
Giudici di merito si sono attenuti. Infine, si deve rilevare che in tema di prove,
la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una
questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio
motivazionale fornito dal giudice e che non può essere rivalutata in sede di

legittimità, a meno che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni
(che, come detto, non si riscontrano nel caso di specie; Sez. 3, Sentenza n.
8382 del 22/01/2008 Ud. – dep. 25/02/2008 – Rv. 239342). Infine, la Corte di
appello alle pagine 7 e 8 evidenzia che l’imputato avanti al G.I.P. ha finto di
essere balbuziente e in sede di convalida del fermo ha, addirittura dichiarato:
“per quanto riguarda la dichiarazione della signora secondo cui mi avrebbe
riconosciuto dalla voce, faccio presente che balbetto e dunque, se mi avesse
riconosciuto dalla voce, avrebbe fatto presente questa circostanza”. La Corte

territoriale sottolinea come questa circostanza abbia tratto in inganno il G.I.P.
che nella sua motivazione — nonostante la P.O. non abbia mai detto che il
rapinatore fosse balbuziente — afferma: “il Naclerio ha palesato un chiaro
difetto di pronuncia (balbuzie) il che rende ben possibile a chiunque lo
conosca l’identificazione anche in base a tale particolare”.

Di tutto ciò

approfitta l’imputato che cambia difensore e nell’appello pone in evidenza
che la motivazione del G.I.P. si fonda su un difetto (balbuzie) che l’imputato
non ha, come rimarca nel corso delle dichiarazioni avanti alla Corte di
appello. La Corte di merito osserva sul punto che l’essersi l’imputato “finto in
un primo momento balbuziente rappresenta un puerile espediente per
precostituirsi un alibi”. Quindi il ricorrente ha cercato, con l’espediente di cui

sopra, di sottrarsi all’accertamento della verità tentando con una falsa
scusante di incrinare la credibilità della P.O. che fin dall’inizio ha detto di aver
riconosciuto il rapinatore perché lo conosceva da molto tempo essendo suo
vicino di casa. Questa Suprema Corte ha in proposito affermato che l’alibi
falso costituisce un indizio di reità che confluisce, unitamente a tutti gli altri,
nella valutazione globale, e senza che occorra un più intenso livello di
persuasività, nel senso che esso non necessita di una gravità aggiuntiva
allorché difetti la prova diretta di una specifica responsabilità dell’indagato,
5

essendo sufficiente che converga, insieme con gli altri, a costituire un quadro
di gravità indiziaria seria e univoca (Sez. 1, Sentenza n. 17261 del
01/04/2008 Cc. – dep. 24/04/2008 – Rv. 239624). Inoltre, in tema di
valutazione della prova, l’alibi falso, in quanto sintomatico, a differenza di
quello non provato, del tentativo dell’imputato di sottrarsi all’accertamento
della verità, deve essere considerato come un indizio a carico il quale, pur di
per sé inidoneo, in applicazione della regola dell’art. 192 cod. proc. pen., a

fondare il giudizio di colpevolezza, costituisce tuttavia un riscontro munito di
elevata valenza dimostrativa dell’attendibilità delle dichiarazioni del
chiamante in correità, ai sensi del terzo comma dell’art. 192 cod. proc. pen.
(Sez. 2, Sentenza n. 5060 del 15/12/2005 Ud. – dep. 09/02/2006 – Rv.
233230).
Per quanto riguarda la doglianza relativa alla rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale, appare opportuno, infine, ricordare che questa
Suprema Corte ha più volte affermato il principio — condiviso dal Collegio che atteso il carattere eccezionale della rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale in appello, il mancato accoglimento della richiesta volta ad
ottenere detta rinnovazione in tanto può essere censurato in sede di
legittimità in quanto risulti dimostrata, indipendentemente dall’esistenza o
meno di una specifica motivazione sul punto nella decisione impugnata, la
oggettiva necessità dell’adempimento in questione e, quindi, l’erroneità di
quanto esplicitamente o implicitamente ritenuto dal giudice di merito circa la
possibilità di “decidere allo stato degli atti”, come previsto dall’art. 603,
comma 1, del codice di procedura penale. Ciò significa che deve dimostrarsi
l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione
impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo
provvedimento o da altri atti specificamente indicati (come previsto dall’art.
606, comma 1, lett. E, c.p.p.) e concernenti punti di decisiva rilevanza, le
quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora fosse stato
provveduto, come richiesto, all’assunzione o alla riassunzione di determinate
prove in sede di appello. (Si vedano: Sez. 1, Sentenza n. 9151 del
28/06/1999 Ud. – dep. 16/07/1999 – Rv. 213923; Sez. 5, Sentenza n. 12443
del 20/01/2005 Ud. – dep. 04/04/2005 – Rv. 231682). Invece, come già detto,
l’imputato si è limitato a generiche contestazioni a quanto rilevato dalla Corte
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territoriale. Quanto sopra evidenzia ulteriormente l’inammissibilità del ricorso,
sul punto, trattandosi, con evidenza, di giudizio di merito sottratto all’esame
di questa Corte di legittimità se ben sorretto — come è nel nostro caso — da
un’adeguata motivazione (in proposito si veda la motivazione a pagina 8
dell’impugnata sentenza). Senza contare, poi, che non è deducibile come
motivo di ricorso per Cassazione la mancata assunzione di una prova

del 05/02/2013 Ud. – dep. 26/06/2013 – Rv. 255566).
Appare quindi evidente che tutte le critiche del ricorrente finiscono per
porsi come valutazioni di merito e, come tali, non esaminabili in questa sede.
Questa Corte ha, infatti, più volte affermato, anche a Sezioni Unite, che
l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un
orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla corte di
Cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a
riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della
decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle
argomentazioni di cui il Giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo
convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula,
infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in
via esclusiva, riservata al Giudice di merito, senza che possa integrare il vizio
di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più
adeguata, valutazione delle risultanze processuali”. (Sez. U, Sentenza n.
2110 del 23/11/1995 Ud. – dep. 23/02/1996 – Rv. 203767; Sez. U, Sentenza
n. 16 del 19/06/1996 Cc. – dep. 22/10/1996 Rv. 205621; Sez. U, Sentenza n.
6402 del 30/04/1997 Ud. – dep. 02/07/1997 – Rv. 207945; Sez. 1, Sentenza
n. 2884 del 20/01/2000 Ud. – dep. 09/03/2000 – Rv. 215504; Sez. 1,
Sentenza n. 8738 del 23/01/2003 Ud. – dep. 21/02/2003 – Rv. 223572).
A ciò si aggiunga che il difensore dell’imputato contrappone, come già
rilevato, solo generiche contestazioni in fatto, che non tengono conto delle
argomentazioni della Corte di appello. In particolare non evidenzia alcuna
illogicità o contraddizione nella motivazione della Corte territoriale allorchè
conferma la decisione del Tribunale. In proposito questa Corte Suprema ha
più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono inammissibili i

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decisiva nel giudizio abbreviato non condizionato (Sez. 5, Sentenza n. 27985

motivi di ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della
correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle
poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le
affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di
aspecificità, che conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen.
all’inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del

l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere
percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a
rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze
(che tra l’altro nel caso di specie non si ravvisano).
Uniformandosi a tali orientamenti, che il Collegio condivide, va
dichiarata inammissibile l’impugnazione.
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in
favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa
delle ammende.

Così deliberato in camera di consiglio, 1’08.11.2013.

30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634). Infine, si deve osservare che

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