Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5796 del 08/11/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 5796 Anno 2014
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto dall’Avvocato Carlo De Stavola, quale difensore di
ColantuoNo Nunzio (n. il 25.01.1963), avverso la sentenza della Corte
d’appello di Napoli, IV sezione penale, in data 25.05.2012.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Aurelio
Galasso, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Udito l’Avvocato Luigi lannettone, quale difensore di Colantuomo Nunzio, il
quale si riporta ai motivi del ricorso e chiede l’annullamento della sentenza
impugnata.

Data Udienza: 08/11/2013

OSSERVA:

Con sentenza del 22.04.2011, il Tribunale di Napoli dichiarò
Colantuomo Nunzio responsabile del reato di estorsione aggravata (ex art. 7
L. 203/91 e 628, III comma n. 1 e 3 c.p.) in concorso e — esclusa la recidiva lo condannò alla pena di anni 8 di reclusione ed Euro 1.600,00 di multa.

di Napoli, con sentenza del 25.05.2012, in riforma dell’impugnata sentenza
rideterminò la pena in quella di anni 7 di reclusione ed € 1.400,00 di multa.
Confermò nel resto la decisione di primo grado.
Ricorre per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo che la
Corte di appello non ha considerato le divergenze nel narrato dei due
collaboratori (Chianese e Cappiello) e, quindi, erroneamente ha sostenuto
che tali dichiarazioni fossero convergenti sul ruolo dell’imputato nella
vicenda. Inoltre la Corte di appello, ai fini della credibilità intrinseca dei due
collaboratori, non ha tenuto conto “del tradimento” dei predetti, che sono
passati al Clan avverso a quello per il quale è stata effettuata l’estorsione
“con tutto il carico di astio e di rancore nei confronti di coloro che in un modo
o nell’altro avessero legami con i loro vecchi sodali”. Il difensore con il

secondo motivo rileva che l’imputato ha svolto un ruolo di intermediario a
favore della P.O. Salatiello (cita giurisprudenza di questa Corte sul punto);
pertanto erroneamente è stato ritenuto responsabile del reato di estorsione.
Rileva, infine, il difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza
dell’aggravante dell’art. 7 L. 203/1991 e al diniego delle attenuanti generiche.
Il difensore del ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.
In data 22.10.2013 gli Avvocati Luigi lannettone e Carlo De Stavola —
difensori del ricorrente – depositano motivi aggiunti con i quali evidenziano
tutte le ragioni a sostegno dell’accoglimento del ricorso; richiamano, anche, i
principi di diritto di questa Suprema Corte che — a loro giudizio – confortano
quanto sostenuto. Insistono, pertanto, per l’annullamento senza o con rinvio
dell’impugnata sentenza.

motivi della decisione

Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame. La Corte d’appello

Il ricorso è inammissibile per violazione dell’ad. 606, comma 1, cod.
proc. pen., perché propone censure attinenti al merito della decisione
impugnata, congruamente giustificata.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione
non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la
migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la

compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass.

Sez. 4 sent. n. 47891 del 28.09.2004 – dep. 10.12.2004 – rv 230568; Cass.
Sez. 5 sent. n. 1004 del 30.11.1999 – dep. 31.1.2000 – rv 215745; Cass.,
Sez. 2 sent. n. 2436 del 21.12.1993 – dep. 25.2.1994 – rv 196955).
Inoltre il ricorso è inammissibile anche per violazione dell’ad. 591 lettera
c) in relazione all’ad. 581 lettera c) cod. proc. pen., perché le doglianze (sono
le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del necessario
contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni,
ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si
palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti, la Corte territoriale
ha, in primo luogo, richiamato e fatta propria la condivisa motivazione del
Giudice di primo grado per quanto riguarda il giudizio di colpevolezza
dell’imputato per il delitto di cui sopra. In proposito si deve osservare che in
tema di motivazione della sentenza di appello, è consentita quella

“per

relationem”, con riferimento alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le

censure formulate a carico della sentenza del primo giudice non contengano,
come nel caso di specie, elementi di novità rispetto a quelli già esaminati e
disattesi dallo stesso: il giudice del gravame non è infatti tenuto a
riesaminare una questione formulata genericamente nei motivi di appello che
sia stata già risolta dal giudice di primo grado con argomentazioni corrette ed
immuni da vizi logici (Sez. 6, Sentenza n. 31080 del 14/06/2004 Cc. – dep.
15/07/2004 – Rv. 229299; Sez. 2, Sentenza n. 16716 del 11/02/2005 Ud. dep. 16/05/2006 – Rv. 234409). In particolare, nella sentenza di primo grado
si evidenziano tutte le prove acquisite: 1) le dichiarazioni testimoniali; 2) le
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Chianese e Cappiello; 3) il
contenuto delle intercettazioni telefoniche. In particolare il Tribunale ha

giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia

evidenziato che con sentenza irrevocabile è stata accertata l’esistenza nel
paese di Qualiano del clan camorristico di Pianese Nicola (si veda pagina 4
della sentenza del Tribunale di Napoli). Alle pagine da 4 a 8 della sentenza il
Giudice di primo grado affronta, correttamente e approfonditamente, la
problematica relativa alla valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia con richiami di pertinenti e consolidati principi di diritto fissati da
questa Suprema Corte sul punto. Alle pagine 7 e 8 della sentenza il

Tribunale affronta nello stesso esaustivo modo la questione dei necessari
riscontri esterni, per poi sottolineare come nel caso di specie si è in presenza
di vere e proprie chiamate in correità (si veda l’approfondita motivazione alle
pagine da 8 a 10), che i dichiaranti sono attendibili e credibili (si vedano le
pagine da 9 a 12 della sentenza di primo grado). Si deve in proposito rilevare
come il Tribunale abbia ben affrontato e risolto: la questione (riproposta
genericamente nel ricorso) del coinvolgimento del Cappiello da parte del
Chianese (si veda pagina 10 della sentenza di primo grado); il perché
sussistono minime discrasie tra il narrato del Chianese e quello del Cappiello
e perché tali discrasie non incidano sulla attendibilità e credibilità dei
propalanti (si veda pagina 10 della sentenza di primo grado); quali erano i
rapporti del ricorrente con i collaboratori e con il clan Pianese (si veda pagina
9 della sentenza di primo grado per quanto riguarda le dichiarazioni di
Chianese e pagina 10 per quanto riguarda le dichiarazioni di Cappiello).
Inoltre il Tribunale evidenzia correttamente i riscontri alle dichiarazioni dei
collaboratori (alle pagine da 12 a 14 le dichiarazioni testimoniali, da 14 a 16 il
contenuto delle intercettazioni). Infine, nelle pagine da 16 a 18 il Tribunale,
dopo aver richiamato il contenuto delle dichiarazioni del ricorrente, evidenzia
esattamente: perché lo stesso debba rispondere del reato di estorsione
aggravata anche dall’art. 7 L. 203/1991; perché non si possa parlare di una
partecipazione del Colantuomo di minima importanza.
In punto di diritto occorre, allora, rilevare che la sentenza di primo grado
e quella di appello, quando non vi è difformità sulle conclusioni raggiunte, si
integrano vicendevolmente, formando un tutt’uno organico ed inscindibile,
una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre fare riferimento per
giudicare della congruità della motivazione. Pertanto, il giudice di appello, in
caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per
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relationem a quest’ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non
oggetto di specifiche censure (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4827 del 28/4/1994
– ud. 18/3/1994 – Rv. 198613; Sez. 6, Sentenza n. 11421 del 25/11/1995 – ud.
29/9/1995 – Rv. 203073). Inoltre, la giurisprudenza di questa Suprema Corte
ritiene che non possano giustificare l’annullamento minime incongruenze
argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione che, ad

sempreché tali elementi non siano muniti di un chiaro e inequivocabile
carattere di decisività e non risultino, di per sè, obiettivamente e
intrinsecamente idonei a determinare una diversa decisione. In argomento, si
è spiegato che non costituisce vizio della motivazione qualsiasi omissione
concernente l’analisi di determinati elementi probatori, in quanto la rilevanza
dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto in cui
essi sono inseriti, ma devono essere posti a confronto con il complesso
probatorio, dal momento che soltanto una valutazione globale e una visione
di insieme permettono di verificare se essi rivestano realmente consistenza
decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza logica
dell’impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest’ultimo caso,
implicitamente confutati. (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3751 del 23/3/2000 ud. 15/2/2000 – Rv. 215722; Sez. 5, Sentenza n. 3980 del 15/10/2003 – Ud.
23/9/2003) Rv.226230, Fabrizi; Sez. 5, Sentenza n. 7572 del 11/6/1999 (ud.
22/4/1999 – Rv. 213643). Le posizioni della giurisprudenza di legittimità
rivelano, dunque, che non è considerata automatica causa di annullamento
la motivazione incompleta nè quella implicita quando l’apparato logico
relativo agli elementi probatori ritenuti rilevanti costituisca diretta ed
inequivoca confutazione degli elementi non menzionati, a meno che questi
presentino determinante efficienza e concludenza probatoria, tanto da
giustificare, di per sè, una differente ricostruzione del fatto e da ribaltare gli
esiti della valutazione delle prove.
In applicazione di tali principi, può osservarsi che la sentenza di
secondo grado recepisce in modo critico e valutativo la sentenza di primo
grado, correttamente limitandosi a ripercorrere e ad approfondire alcuni
aspetti del complesso probatorio oggetto di contestazione da parte della
difesa, omettendo, in modo del tutto legittimo in applicazione dei principi

avviso della parte, avrebbero potuto dar luogo ad una diversa decisione,

sopra enunciati, di esaminare quelle doglianze dell’atto di appello che
avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice.
Invero, la Corte territoriale ha con esaustiva, logica e non contraddittoria
motivazione, evidenziato tutte le ragioni dalle quali desume la responsabilità
dell’imputato per il reato di cui sopra (dichiarazioni collaboratori, dichiarazioni
testi e intercettazioni telefoniche). Non incide, certo, su quanto sopra la
critica sulla presunta mancata valutazione della Corte di appello del

cosiddetto “tradimento” di Chianese e Cappiello, che avrebbero deciso di
collaborare solo dopo essere passati ad altro clan. Infatti, non solo quanto
già esposto dal Tribunale sul punto spiega in modo incensurabile come ciò
non abbia alcuna rilevanza sull’attendibilità e credibilità dei collaboratori (si
veda sul punto, ad esempio, pagina 10 della sentenza di primo grado). Inoltre
si deve rilevare che i collaboratori si sono autoaccusati del fatto e hanno
accusato anche il coimputato Bove che ha, poi, rinunziato ai motivi di appello
inerenti alla sua penale responsabilità; per quanto riguarda, infine, il presunto
astio che potrebbe aver spinto i collaboratori ad accusare il ricorrente — a
prescindere dal fatto che tale circostanza è una mera congettura del
difensore del ricorrente, priva di qualsiasi supporto probatorio – lo stesso
imputato ha affermato che non faceva parte di nessun gruppo camorristico e
quindi era un estraneo anche al clan Pianese (quello che secondo la
definizione del difensore del ricorrente sarebbe stato tradito dai collaboratori
che da tale gruppo sono passati al clan Paride-De Rosa; la circostanza di
non appartenenza del Colantuomo è stata confermata anche dai collaboratori
ad ulteriore dimostrazione che hanno riferito le cose come effettivamente
erano senza alcun astio). Non si devono, infine, dimenticare anche tutti gli
altri elementi probatori acquisiti e ben valutati da entrambi i giudici di merito.
Non vi è poi alcun dubbio sul ruolo dell’imputato e se anche si volesse
ritenere semplice intermediario — anche quest’affermazione è stata
apoditticamente sostenuta dal difensore dell’imputato – la stessa
giurisprudenza citata nel ricorso conferma la responsabilità dell’intermediario
per il reato di estorsione; del tutto apodittica — e in contrasto con tutti gli
elementi probatori acquisiti – è l’affermazione che il Colantuomo abbia agito a
favore della P.O. (non viene neppure specificato in cosa si sia concretizzata
tale aiuto). La motivazione sulla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7

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della 203/1991 è incensurabile; in particolare i giudici di merito ben
evidenziano perché ritengano il ricorrente pienamente consapevole di agire
con metodo mafioso e al fine di agevolare la predetta associazione
camorristica (si vedano in proposito: pagina 16 e 17 della sentenza di primo
grado e pagine 5 e 6 dell’impugnata sentenza). Peraltro per la configurabilità
dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7 cit.

un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la
minaccia assumano, come nella specie, veste tipicamente mafiosa e la
circostanza può essere applicata ai concorrenti nel delitto, secondo il
disposto dell’art. 59 c.p., anche quando essi non siano consapevoli (e non è
certo questo il caso per quanto esposto dai giudici di merito sulla
consapevolezza del ricorrente) della finalizzazione dell’azione delittuosa a
vantaggio di un’associazione di stampo mafioso, ma versino in una
situazione di ignoranza colpevole (Sez. 2, Sentenza n. 3428 del 20/12/2012
Cc. – dep. 23/01/2013 – Rv. 254776). Si deve, inoltre, ricordare che la
circostanza aggravante prevista dall’art. 7 legge 12 luglio 1991, n. 203, è
integrata dall’approfittamento delle condizioni di cui all’art. 416 bis cod. pen. e
la modalità mafiosa della condotta prescinde dall’appartenenza mafiosa del
suo autore, che configura la diversa aggravante di cui all’art. 628, terzo
comma, n. 3 cod. pen. (Sez. 2, Sentenza n. 510 del 07/12/2011 Ud. – dep.
12/01/2012 – Rv. 251769). Ancora sul punto questa Suprema Corte ha
affermato che la circostanza aggravante di cui all’art. 7 L.203/1991, qualifica
l’uso del metodo mafioso, fondato sull’esistenza in una data zona di
associazioni mafiose, anche con riguardo alla condotta di un soggetto non
appartenente a dette associazioni (Sez. 1, Sentenza n. 4898 del 26/11/2008
Cc. – dep. 04/02/2009 – Rv. 243346). Infine, per la configurabilità
dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7 L.
203/1991, non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza
di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la
minaccia assumano veste tipicamente mafiosa (Sez. 1, Sentenza n. 5881 del
04/11/2011 Ud. – dep. 15/02/2012 – Rv. 251830). Si deve, infine, rilevare che
le considerazioni di entrambi i Giudici di merito sulla sussistenza
dell’aggravante de qua sono tutt’altro che illogiche ed inconferenti, rispetto

non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di

alle quali le critiche del ricorrente finiscono per porsi come valutazioni di
merito e, come tali, non esaminabili in questa sede. Questa Corte ha, infatti,
più volte affermato, anche a Sezioni Unite, che l’indagine di legittimità sul
discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il
sindacato demandato alla corte di Cassazione essere limitato – per espressa
volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato

verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il Giudice di merito si è
avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle
acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di Cassazione
quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al Giudice di merito,
senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una
diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze
processuali”. (Sez. U, Sentenza n. 2110 del 23/11/1995 Ud. – dep.
23/02/1996 – Rv. 203767; Sez. U, Sentenza n. 16 del 19/06/1996 Cc. – dep.
22/10/1996 Rv. 205621; Sez. U, Sentenza n. 6402 del 30/04/1997 Ud. – dep.
02/07/1997 – Rv. 207945; Sez. 1, Sentenza n. 2884 del 20/01/2000 Ud. dep. 09/03/2000 – Rv. 215504; Sez. 1, Sentenza n. 8738 del 23/01/2003 Ud.
– dep. 21/02/2003 – Rv. 223572). Incensurabile è anche la motivazione sul
diniego delle attenuanti generiche (si veda pagina 6 dell’impugnata sentenza)
e sulla congruità della pena (tra l’altro diminuita rispetto a quella di primo
grado; si vedano pagine 6 e 7 dell’impugnata sentenza). Rilevato ciò, si
possono ricordare alcuni consolidati principi di questa Corte, la quale ha più
volte affermato che: ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti
generiche di cui all’ad. 62 bis cod. pen., il Giudice deve riferirsi ai parametri
di cui all’ad. 133 del codice penale, ma non è necessario, a tale fine, che li
esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare
riferimento (nel caso di specie l’assenza di elementi utili ai fini del
riconoscimento di tali attenuanti e la gravità del fatto; si veda sul punto ad
esempio Sez. 2, Sentenza n. 2285 del 11/10/2004 Ud. – dep. 25/01/2005 Rv. 230691); la determinazione della misura della pena tra il minimo e il
massimo edittale rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito,
il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato globalmente gli

argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di

elementi indicati nell’art. 133 cod. pen. (quelli di cui sopra; Sez. 4, Sentenza
n. 41702 del 20/09/2004 Ud. – dep. 26/10/2004 – Rv. 230278); la specifica e
dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in
relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se
la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale,
potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui

“congruo aumento”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla
capacità a delinquere (Sez. 2, Sentenza n. 36245 del 26/06/2009 Ud. – dep.
18/09/2009 – Rv. 245596).
A fronte di ciò il ricorrente contrappone, quindi, solo generiche
contestazioni in fatto, con le quali, in realtà, si propone solo una non
consentita — in questa sede di legittimità — diversa lettura del materiale
probatorio raccolto e senza evidenziare alcuna manifesta illogicità o
contraddizione della motivazione. Inoltre, le censure del ricorrente non
tengono conto delle argomentazioni della Corte di appello (e del contenuto
della richiamata sentenza di primo grado). In proposito questa Corte
Suprema ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono
inammissibili i motivi di ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione
della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e
quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le
affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di
aspecificità, che conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen.
all’inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del
30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).
Uniformandosi a tale orientamento, che il Collegio condivide, va
dichiarata inammissibile l’impugnazione.
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in
favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

PQM

all’art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa
delle ammende.

Così deliberato in camera di consiglio, 1’08.11.2013.

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