Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5751 del 29/01/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 5751 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: GRAZIOSI CHIARA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI
PERUGIA
nei confronti di:
VALENTINI RODOLFO N. IL 02/07/1941
MACCHIA GIULIANO N. IL 12/02/1945
ZANMATTI ALBERTO N. IL 02/07/1932
DEMEGNI FRANCESCO N. IL 17/06/1948
MASTROFORTI GIULIANO MARIA N. IL 22/11/1950
GENTILI PAOLO N. IL 30/09/1956
avverso la sentenza n. 1402/2010 CORTE APPELLO di PERUGIA, del
13/07/2011
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 29/01/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. — 332-1,,o
che ha concluso per—rvc–,c,,:-.3-,,;
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Data Udienza: 29/01/2014

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RITENUTO IN FATTO

-, 1. Con sentenza del 13 luglio 2011 la Corte d’appello di Perugia – a seguito di appello
proposto da Valentini Rodolfo, Macchia Giuliano, Zanmatti Alberto, Demegni Francesco,
Mastroforti Giuliano Maria e Gentili Paolo avverso sentenza dell’8 marzo 2010 con cui il
Tribunale di Spoleto li aveva condannati alla pena di mesi quattro di arresto e C 25.000 di
ammenda ciascuno per i reati di cui agli articoli 110 c.p. e 44, lettera c), d.p.r. 380/2001 (capo
a) e 734 c.p. (capo b), nonché a seguito di appello incidentale del Procuratore della Repubblica

dai reati loro ascritti perché il fatto non sussiste.
2. Ha presentato ricorso il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di
Perugia. Premesso che agli imputati era stato ascritto il capo a) per avere – Valentini quale
amministratore unico della società titolare del permesso di costruire Madonna delle Grazie
S.r.l. e della società appaltatrice Valentini G. e Luconi F. S.r.l.; Demegni quale amministratore
unico di Findem S.r.l., società richiedente del permesso di costruire in quanto proprietaria
dell’area di sedime al tempo della istanza, titolare altresì di singole unità abitative e di posti
auto pertinenziali nel realizzato complesso edilizio per contratto di permuta con Madonna delle
Grazie S.r.l. del 19 aprile 2006, nonché titolare in quest’ultima di partecipazione societaria;
Macchia e Zanmatti in qualità di direttori dei lavori; Mastroforti in qualità di dirigente
responsabile della Direzione Pianificazione Urbanistica del Comune di Spoleto; Gentili in qualità
di responsabile della Unità Tematica-Attività Produttive della Direzione S.U.I.C.del Comune di
Spoleto – realizzato in Spoleto, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, un complesso
edilizio, parte del Comparto di via della Posterna individuato nel Piano Attuativo di
Ristrutturazione Urbanistica (P.A.R.U.) adottato con delibera C.C. del 12 ottobre 1998 n. 135 e
approvato in via definitiva con delibera C.C. del 29 aprile 1999, dalla struttura portante in
cemento armato, di circa metri 80 di lunghezza, costituito da due contigui corpi di fabbrica, di
profondità tra i 21 e i 15 metri e separati da una galleria, di cui uno composto da quattro
elevazioni fuori terra per un’altezza di 13,20 metri e l’altro composto da cinque elevazioni per

presso il Tribunale di Spoleto -, in riforma della sentenza di primo grado assolveva gli imputati

un’altezza di circa 16,30 metri, entrambi dotati di piano scantinato accessibile alle auto, per un
complessivo volume di mc. 14.254 insistente su un’area di mq.2200, in virtù di permesso di
costruire n. 7107 del 28 aprile 2006, illegittimo perché superiore all’indice edificatorio
consentito, e premesso altresì che agli imputati era stato ascritto anche il reato di cui al capo
b) per avere, nelle rispettive qualità e in concorso tra loro, mediante la realizzazione del
suddetto complesso edilizio, distrutto e alterato le bellezze naturali del centro storico di
Spoleto, il ricorrente ha articolato dieci motivi.
2.1 II primo motivo denuncia travisamento del fatto e contraddittorietà tra motivazione e
specifici atti del processo nella ricostruzione dei fatti relativi ai due capi d’imputazione:
adducendo “una versione errata e lacunosa” di “pacifici fatti”, la sentenza impugnata avrebbe

1

.addotto la necessità di riqualificazione sociale della zona in questione, laddove “in nessun atto
si parlò mai di risanare l’intera area”; la sentenza afferma che la gran parte dell’area
interessata al parcheggio era di proprietà privata, laddove più del 50% era già del Comune di
Spoleto quando fu pianificato il parcheggio della Posterna, essendo FINDEM S.r.l. proprietaria
solo del 17,32% della superficie occorrente e non essendo mutata la situazione quando fu
definitivamente approvato il P.A.R.U.; diversamente da quanto scritto in sentenza, poi,
l’accordo bonario fu stretto solo con tale società e non con tutti i privati; non è vero che la
suddetta società, come afferma la corte territoriale, “era proprietaria nella zona di terreni
edificabili per una estensione tale da poter realizzare la volumetria di fatto poi realizzata”, né
che il consenso della Soprintendenza fu rilasciato per notevole riduzione della volumetria, la
differenza rispetto all’edificio dapprima non autorizzato consistendo in meno del 5%.
2.2 I motivi seguenti, tranne l’ultimo, riguardano il capo a). Il secondo motivo, dunque,
lamenta la violazione dell’articolo 44, lettera c), d.p.r. 380/2001 con riferimento all’articolo 7 d
m. 1444/1968 attuativo della I. 765/1967. Dato atto che l’elemento costitutivo dei reati
urbanistici è la difformità della costruzione dai parametri di legalità, la quale sussiste non solo
in caso di assenza del titolo, ma anche quando vi è titolo autorizzativo illegittimo, il ricorrente
osserva che nel caso di specie il permesso di costruire del 28 aprile 2006 è da rapportarsi al
P.A.R.U. e all’allegata bozza di accordo bonario tra il Comune e il privato. Nel PRG di Spoleto
all’epoca vigente (approvato con DPGR 11 aprile 1988 n.204), l’area in cui fu eseguito
l’intervento, all’interno delle mura dei secoli XIII-XIV, era qualificata “Al-Zona di rilevante
importanza storica, artistica, monumentale, ambientale”. In questo tipo di zona l’articolo 7
d.m. 1444/1968 stabilisce che per le nuove costruzioni “la densità fondiaria non deve superare
il 50% della densità fondiaria media della zona e, in nessun caso, i 5 mc/mq”. Per il calcolo
della volumetria assentibilile rileva l’indice di fabbricabilità fondiario, e non quello di
fabbricabilità territoriale (al lordo degli spazi non edificabili) – indice definito dall’articolo 16
NTA del PRG all’epoca vigente secondo la nozione generalmente accolta -, ma la discrezionalità
del Comune nel fissarlo è dunque limitata dal citato articolo 7 d.m. 1444/1968. Il thema
decidendi è l’accertamento della superficie fondiaria, cioè, come da articolo 12 NTA, della
effettiva superficie edificabile disponibile. Come insegna anche la giurisprudenza
amministrativa, occorre riferirsi alla singola area di edificazione, con esclusione delle aree
destinate ad uso pubblico. Ciò è stato violato nel caso di specie “perché si è concentrata, su un
singolo edificio, la volumetria di un’area molto più ampia di quella di sua pertinenza”,
essendosi l’operazione “sostanziata in una assegnazione di densità fondiaria alle aree libere
della zona A, in vista della costruzione di nuovi complessi insediativi che le NTA (art. 33) ed
ancor prima gli artt. 2 e 7 del DM 1444/68 riservano alla zona C ed alla formazione, all’uopo, di
piani di lottizzazione convenzionali”. Il P.A.R.U. sarebbe stato quindi utilizzato “per finalità
tipiche di un Piano di lottizzazione, strumento riservato alle zone di espansione e non
utilizzabile in zona A”. Il nuovo edificio ha dunque violato l’articolo 7 suddetto, anche perché

Q7

.

nella zona Al la possibilità di nuova edificazione è strettamente connessa a “ricucire” il tessuto
storico o al più a rinnovarlo in modo omogeneo a quello esistente. Quindi FINDEM S.r.l. non
avrebbe mai potuto ottenere non solo un edificio di quella volumetria, ma neppure un
intervento edilizio di quel tipo, l’unico intervento non meramente conservativo consentito nella
zona Al ex articoli 31 I. 457/1978 e 27 NTA essendo la ristrutturazione urbanistica, non
realizzabile con un’unica costruzione bensì con un insieme sistematico di interventi edilizi.
Anche qualora fosse poi corretta l’interpretazione della sentenza sulla riferibilità della nozione

comunque computabile l’area del parcheggio, che invece secondo la sentenza – poiché l’articolo
12, comma 1, NTA esclude dalla superficie fondiaria le sole opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, tra cui ex articolo 13 NTA non rientrano i parcheggi – sarebbe stata correttamente
computata, perché come area edificabile esprimeva una volumetria. Ma il d.m. 1444/1968
(articolo 4), stabilendo la necessità di riservare un minimo di “spazi pubblici o riservati ad
attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi da osservare in rapporto agli insediamenti
residenziali”, esclude che l’area destinata a parcheggio sia calcolabile ai fini della costruzione di
edifici, come si evince pure dall’articolo 41quinquies, comma 8, I. 1150/1942. E infatti le opere
pubbliche, in quanto tali, non esprimono una vocazione edificatoria.
Tutto ciò non sarebbe inficiato dalla perizia disposta dalla corte territoriale, cui questa
aderisce senza motivazione, in quanto le conclusioni del perito sono affette da errore di diritto
e contrastano con le stesse prassi riscontrate. Precisando poi che la superficie fondiaria di ogni
singolo intervento edilizio, cui vanno riferiti gli indici massimi di edificabilità, non è l’area di
sedime, bensì il lotto di pertinenza, il ricorrente conclude che la sentenza erra calcolando
l’indice di densità fondiaria in relazione all’intera area del comparto, di mq.13.000, così
violando l’inderogabile articolo 7 d.m. 1444/1968.
Infine costituisce ulteriore profilo di illegittimità del P.A.R.U. e del permesso l’indebito ricorso
alla perequazione urbanistica, consistendo questa nell’attribuzione di un diritto edificatorio
aggiuntivo quale premio per il raggiungimento di obiettivi pubblici, e non ricorrendone nel caso
di specie i presupposti come identificati da Cons. Stato, sez. IV, 13 luglio 2010 n. 4545,
impropriamente richiamata dalla corte territoriale (rispetto del principio di legalità,
predeterminazione nel PRG delle condizioni per l’attivazione delle relative convenzioni,
sussistenza nell’accordo tra privato e Comune dei requisiti di tipicità e nominatività dei
provvedimenti amministrativi che sostituisce, finalizzazione, ex articolo 11 I. 241/1990, a un
interesse pubblico). Quando fu adottato il P.A.R.U. e stipulato l’accordo bonario non vi era
ancora un sostegno normativo che conducesse al rispetto del principio di legalità e il contenuto
dell’accordo non tutelava alcun interesse pubblico, ma solo quello privato; e comunque non è
derogabile il limite dell’indice di densità fondiaria in zona A mediante una tecnica perequativa,
che confliggerebbe con l’esigenza di conservazione del suddetto tipo di zona. In conclusione,

di superficie fondiaria all’intera area interessata dal complessivo intervento, non sarebbe stata

l’indice di densità fondiaria doveva calcolarsi solo sull’area di mq 2200 oggetto della
edificazione privata, quale superficie fondiaria rilevante, senza tener conto di aree destinate
all’opera pubblica, in particolare a parcheggio. Invece l’articolo 7 d.m. 1444 del 1968 è violato
attraverso la concentrazione su tale aria, pari al 13% dell’area complessiva, dell’intera
volumetria dell’area complessiva, anche con utilizzo illegittimo del modello perequativo.
Il terzo motivo denuncia vizio motivazionale per assoluta mancanza di motivazione giuridica

2.3 n quarto motivo, che denuncia violazione degli articoli 42 e 5 c.p. in relazione al reato di
cui all’articolo 44, lettera c), d.p.r. 380/2001 con riferimento all’articolo 7 d.m. 1444/1968, è
presentato insieme al quinto motivo di vizio motivazionale in riferimento a dette norme nonché
agli articoli 192 e 546 c.p.p. I due motivi censurano la sentenza laddove nega l’esistenza
dell’elemento soggettivo per il reato di cui al capo a), richiamando i criteri sulla scusabilità
dell’errore di diritto evincibili dalle sentenze 364/1988 e 322/2007 della Corte Costituzionale,
esaminando le diverse posizioni soggettive degli imputati sulla base di essi ed evidenziando la
competenza in materia dei funzionari Mastroforti e Gentili nonché degli altri imputati, da tempo
tutti operatori del settore. Il ricorrente nega poi che l’affidamento degli imputati possa
supportarsi sul parere favorevole della Sovrintendenza, attinente al vincolo paesaggistico e
comunque negato due volte, la terza per una riduzione della volumetria inferiore al 5%. Non vi
sarebbe pertanto una evidente buona fede degli imputati.
2.4 n sesto e il settimo motivo sono anch’essi presentati congiuntamente. Il sesto motivo
denuncia violazione degli articoli 603, commi 1 e 3, c.p.p. con riferimento agli articoli 44,
lettera c), d.p.r. 380/2001 e 7 d.m. 1444/1968, nonché violazione degli articoli 42 e 5 c.p. e
degli articoli 192 e 546 c.p.p. Il settimo denuncia mancanza di motivazione rispetto a tali
norme. Entrambi i motivi riguardano l’ordinanza con cui la corte territoriale ha ordinato la
rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e disposto perizia. La rinnovazione – evidenzia il
sesto motivo – dovrebbe essere eccezionale mentre nel caso di specie l’accertamento avrebbe
dovuto apparire alla corte irrilevante, non incidendo come “venga calcolata” la volumetria

sulle tematiche trattate nel secondo motivo.

bensì come “doveva” essere calcolata; non vi erano poi agli atti elementi nel senso di una
prassi in Umbria analoga a quella adottata nel caso di specie, essendo questa una mera
allegazione difensiva; comunque la prassi, anche se accertata, non incide sulla decisione, non
sussistendo ipotesi di errore scusabile e non avendo le prassi rilevanza sulla prova della
inevitabile ignoranza della legge, tanto più ove, come nel caso di specie, le norme sono chiare.
Il settimo motivo lamenta che la corte non abbia motivato sulle ragioni per cui fosse
impossibile decidere allo stato degli atti e quindi necessitasse la perizia, pur essendo stata tale
motivazione sollecitata dal pm con apposita memoria.
2.5 n ricorrente presenta congiuntamente anche l’ottavo e il nono motivo, relativi al
recepimento delle conclusioni della perizia da parte della corte territoriale, l’ottavo come vizio

.1

m
– otivazionale e il nono come vizio motivazionale e violazione degli articoli 44, lettera c), d.p.r.
380/2001 e 7 d.m. 1444 del 1968. La corte si pone in contrasto pure con le conclusioni del
. perito (che non avrebbe indicato come la volumetria debba determinarsi, ma come a suo
avviso è determinata in Umbria) e comunque non motiva sull’adesione a esse, non confutando
le osservazioni del pm; conclusioni, queste, comunque erronee perché basate su una nozione
di superficie fondiaria diversa da quella accolta dalla costante giurisprudenza e dalle NTA del
Comune di Spoleto.

meno per l’insussistenza del reato di cui al capo a). La corte stessa comunque ha ritenuto non
preclusivo questo argomento, definendo poi le valutazioni della sentenza di primo grado
“generiche e tautologiche, espressioni di un soggettivo apprezzamento del giudicante, avulse
da qualsiasi parametro oggettivo e contraddette dall’assenso al progetto rilasciato dalla
Sovrintendenza e dalla assenza di giudizi negativi e di rilevanti proteste da parte di visitatori e
di cittadini”, in tal modo contraddicendone il reale contenuto. La sentenza del Tribunale, infatti,
aveva ancorato il proprio giudizio a due riferimenti oggettivi: l’imponente volumetria in un
contesto di particolare pregio storico, paesaggistico e architettonico, e il duplice annullamento
del progetto da parte della Sovrintendenza, che lo aveva infine approvato con motivazione
apparente. Pertanto il giudice d’appello non svolge una “critica ragionata ed analitica delle
argomentazioni” del primo giudice limitandosi ad una enunciazione apodittica e quindi illogica,
così creando vizio motivazionale. Ricostruisce poi il ricorrente la vicenda degli interventi della
Sovrintendenza, e sottolinea che la valutazione del giudice penale non è vincolata dalla
valutazione della P.A., altresì adducendo che una vasta opinione pubblica avrebbe criticato
l’edificio e ribadendo quindi la sussistenza del reato.
In data 17 ottobre 2012 la difesa degli imputati Valentini, Macchia, Zanmatti e Demegni ha
depositato memoria che chiede il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è fondato.
3.1 Deve preliminarmente rilevarsi che non è accoglibile la conclusione in tesi del PG che ha
chiesto la rimessione alle Sezioni Unite di questa Suprema Corte affinché queste si pronuncino
in ordine alla possibilità di annullamento senza rinvio qualora sussistano i presupposti per
l’annullamento con rinvio ma la estinzione del reato per prescrizione sia assolutamente
imminente. Nel caso in esame, infatti, la estinzione per prescrizione non può definirsi tale, in
quanto risulta dagli atti che, per adesione dell’avvocato Paolo Feliziani, codifensore
dell’imputato Gentili, all’astensione dalle udienze civili e penali indetta dall’O.U.A. per il giorno
23 ottobre 2012, all’udienza appunto del 23 ottobre 2012 il presente ricorso è stato rinviato a
nuovo ruolo con sospensione dei termini di prescrizione, e in seguito quindi fissato per

e-7

2.6 n decimo motivo riguarda il reato di cui al capo b), anzitutto contestando che venga

l’udienza del 18 giugno 2013. Al termine prescrizionale addotto dal PG come maturato in data
19 marzo 2014 deve pertanto assommarsi la suddetta sospensione di quasi otto mesi, onde
l’éstinzione del reato per prescrizione non è qualificabile come imminente.
3.2 Passando dunque al vaglio dei motivi del ricorso, si osserva che il primo concerne
questioni fattuali che lo stesso ricorrente definisce fatti pacifici: si tratta, a ben guardare, di
alcune estrapolazioni dall’illustrazione dei fatti nella sentenza impugnata, che non hanno
incidenza decisiva (l’esistenza o meno di necessità di riqualificazione sociale di tutta la zona;

proprietario della maggior parte dell’area; la stipulazione dell’accordo bonario, oltre che con il
proprietario dell’area su cui è stato poi costruito l’edificio di cui si tratta, anche con altri
soggetti non coinvolti in detta costruzione; la definizione della riduzione della volumetria come
notevole o meno in rapporto al consenso della Sovrintendenza), per cui il motivo non è
riconducibile alla fattispecie del travisamento rilevante, anche qualora quanto esposto dalla
corte territoriale fosse da intendersi come erroneo nel modo che prospetta il ricorrente. Il
motivo è pertanto infondato.
3.3 Il secondo motivo attiene invece alla questione di diritto centrale quanto al

thema

decidendum relativo al reato di cui al capo a). Per meglio comprenderlo, è opportuno prendere
le mosse proprio dal contenuto della sentenza impugnata al riguardo.
3.3.1 La sentenza, infatti, dopo avere qualificato “agevole pervenire ad una assoluzione per
difetto dell’elemento psicologico dei reati contestati” (motivazione, pagina 22), afferma che gli
imputati hanno comunque diritto ad essere assolti con la forma più ampia perché il fatto non
sussiste (motivazione, pagina 27). Premesso allora che “l’ambito del giudizio è delimitato dalla
contestazione” ex articolo 521 c.p.p., la corte territoriale rileva che dalla lettura del capo di
imputazione per il reato edilizio risulta che la realizzazione del complesso edilizio è stata
ritenuta illegittima – e parimenti è stato ritenuto illegittimo il permesso di costruire cui è
conforme – perché ha violato gli standard urbanistici di cui al d.m. 1444/1968 sotto il profilo
volumetrico, onde è stato contestato come unico profilo di illegittimità “soltanto l’eccesso di
volumetria” che, secondo il PM e il primo giudice, supera l’indice di edificabilità: questo indice,
secondo la prospettazione accusatoria, avrebbe infatti dovuto determinare la volumetria in
rapporto alla superficie di mq 2200 del sedime del complesso edilizio destinato ad abitazioni;
secondo la tesi difensiva, invece, non vi sarebbe stato alcun illegittimo superamento perché
occorre moltiplicare il medesimo indice per la superficie di tutta l’area del comparto oggetto del
complesso intervento edilizio costituito dal parcheggio interrato e dall’edificio destinato ad
abitazioni (mq 13.498), di modo che la volumetria risulta di mc 39.414 anche se quella
assentita è stata poi ridotta a mc 16.600. Osserva la Corte d’appello che la determinazione
della volumetria rispetto alla superficie dell’intera area interessata dall’intervento e non solo
rispetto alla superficie di sedime dell’edificio è stata chiaramente affermata dal perito nominato

c__,

l’identificazione del soggetto che prima della pianificazione del parcheggio nel comparto fosse

dalla
corte stessa. Anche i consulenti del PM, a ben guardare, afferma ancora la sentenza
_
impugnata, “non hanno mai affermato che il rispetto dell’indice debba essere valutato con
riferimento all’area di sedime piuttosto che a tutta l’area oggetto di intervento” in quanto “il
riferimento alla superficie di sedime è stato operato soltanto perché nel caso in esame tale
superficie coincideva – secondo la tesi del P.M. fatta sostanzialmente propria dal Tribunale con l’area complessiva dell’intervento, quella ottenuta scorporando dalla superficie di tutto il
comparto previsto nel PARU quella concernente il parcheggio, le aree pertinenziali e quelle
destinate ad attività commerciali, coincidente dunque con la sola superficie di sedime del
complesso edilizio destinato ad abitazione”. Ritiene il giudice d’appello che quindi “il nodo
centrale” sia stabilire la legittimità o meno della previsione del comparto della Posterna come
area unitaria, sul punto rilevando che “nessuna norma vieta al Comune di predisporre un piano
attuativo di ristrutturazione urbanistica articolato in una opera pubblica ed in opere di edilizia
privata” e che il PM e il Tribunale hanno escluso il ricorso alla tecnica perequativa di
distribuzione ed accorpamento di volumetria tra opera pubblica ed opera privata, “ma il
problema è mal posto”. La perequazione urbanistica concerne le aree prima della loro
edificazione, per cui non vi è cessione di volumetria dal pubblico al privato “dal momento che
prima della attività di edificazione i terreni, anche quelli interessati dalla realizzazione
dell’opera pubblica, risultano per lo più appartenere a privati”; sarebbe inoltre assurdo
“consentire, tramite la perequazione, la realizzazione di una determinata volumetria se il
comparto prevede la realizzazione di sole opere di edilizia privata, laddove al contrario non
sarebbe consentito a fronte di opere di edilizia privata e pubblica”. Scopo della perequazione è
consentire la realizzazione di opere pubbliche senza gravosi procedimenti espropriativi, bensì
mediante la cessione da parte dei privati delle aree su cui realizzarle. Non è pertanto
condivisibile quella che sarebbe la base dell’accusa, vale a dire “non essere consentita la
predisposizione di un comparto che preveda la compresenza di un’opera pubblica e di edilizia
privata”. Non vi sarebbe alcuna norma ostativa all’inclusione in un unico comparto di opere
pubbliche e private e la società privata in questione era “proprietaria nella zona di terreni
edificabili per una estensione tale da poter realizzare la volumetria di fatto poi realizzata”. Se,
anziché prevedere un’opera pubblica, il Comune avesse previsto solo opere di edilizia privata
“la volumetria realizzata sarebbe risultata del tutto lecita”. E poiché il parcheggio interrato è
opera pubblica si configura “la possibilità di concentrare la volumetria consentita dalla
estensione di tutto il reparto (per la precisione 14.254 mc. dei 16.600 assentiti) sui 2200 mq
che rappresentano l’area di sedime dell’edificio destinato ad abitazioni”. Conclude pertanto il
giudice d’appello che, essendo legittima la compresenza in un comparto del PARU di opere
pubbliche e private, “il rispetto dell’indice di edificabilità va accertato con riferimento a tutta la
superficie del comparto e non soltanto con riferimento all’area di sedime dell’edificio destinato
ad abitazioni: donde nel caso concreto il totale rispetto dell’indice suddetto e, dunque, la
insussistenza del reato”.

$01

.

-

3.3.2 Questa sintesi del ragionamento della sentenza impugnata evidenzia la sua
fondamentale impostazione omissiva. La sentenza invero, anziché accertare quale sia la
Corretta interpretazione degli standard urbanistici di cui al d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 a
proposito dell’indice di edificabilità, si arrocca su un piano assertivo che fa riferimento soltanto
agli esiti della perizia disposta dalla corte territoriale (i quali sarebbero poi coincidenti, secondo
la corte stessa, con le valutazioni dei consulenti del PM: il che, si rileva per inciso, renderebbe

quanto meno illogica/ultronea la disposizione della perizia), come se al perito fosse stata
deputata – e potesse esserlo, mediante una sorta di delega giurisdizionale – la risoluzione di
una questione evidentemente di diritto (“Che la volumetria consentita debba essere
determinata con riferimento alla superficie dell’intera area interessata dall’intervento e non
soltanto con riferimento alla superficie di sedime…lo ha chiaramente affermato il perito
nominato da questa Corte”: motivazione, pagine 28-29). L’unico riferimento al decreto
interministeriale suddetto è nel senso che il “calcolo dell’indice di densità edilizia” secondo il
decreto esclude le soprastrutture di epoca recente: ciò significa che “considerando
evidentemente la superficie di sedime delle stesse al fine proprio di abbassare l’indice di
edificabilità su tutta l’area, è evidente che l’indice rappresenta il peso complessivo dell’edificato
che grava su tutta l’area e non solo su quella di sedime” (motivazione, pagina 29). Questa
argomentazione non appare perspicua, e comunque non sostiene l’asserto mutuato dalla
perizia. Quanto appena riportato come contenuto della sentenza sulla questione in esame,
comunque, convalida la doglianza del ricorrente nel senso che la corte territoriale non ha
inquadrato né sul piano normativo né su quello giurisprudenziale il

thema decidendum

attinente all’indice di edificabilità.
Il d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 – “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
tra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai
fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi
dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967 n. 765” – è stato emesso su delega prevista nell’articolo
41 quinquies della legge 18 agosto 1942 n. 1150, ed essendo stato quest’ultimo inserito
proprio dall’articolo 17 della legge 6 agosto 1967 n. 765 gli è stata riconosciuta efficacia di
legge dello Stato, per cui gli strumenti urbanistici non possono discostarsene, prevalendo il
decreto anche sui regolamenti locali nella determinazione appunto degli standard urbanistici
(cfr. da ultimo Cass. sez. III, 12 gennaio 2012 n. 10431; Cass. sez. III, 24 novembre 2011-17
febbraio 2012 n. 6599; Cass. sez. III, 22 settembre 2011 n. 36104; Cass.civ. sez. IL 11
febbraio 2008 n. 3199; S.U. civ. 7 luglio 2011 n. 14953; e cfr. altresì Cons. Stato sez. IV, 22
gennaio 2013 n. 354 nonché Corte Costituzionale 232/2005). All’articolo 7, rubricato come
“Limiti di densità edilizia”, il decreto stabilisce che i “limiti inderogabili di densità edilizia per le
diverse zone territoriali omogenee” si conformano per le zone A nel senso che “per le eventuali
nuove costruzioni ammesse, la densità fondiaria non deve superare il 50% della densità

fondiaria
media della zona e, in nessun caso, 5 mc/mq”. L’interpretazione dottrinale e
_
giurisprudenziale ha peraltro evidenziato che nel decreto “la densità edilizia si distingue tra
térritoriale e fondiaria. La “densità edilizia territoriale” è riferita a ciascuna zona omogenea e
definisce il carico complessivo di edificazione che può gravare sull’intera zona; viceversa, la
“densità edilizia fondiaria” è riferita alla singola area e definisce il volume massimo su di essa
edificabile. La differenza consiste nel fatto che la densità edilizia territoriale, riferendosi a
ciascuna zona omogenea dello strumento di pianificazione, definisce il complessivo carico di
edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa, per cui il relativo indice è rapportato
all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità,
ecc.;” viceversa, la densità edilizia fondiaria, “concernendo la singola area e definendo il
volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva
superficie suscettibile di edificazione” (così, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV 8 gennaio 2013 n.
32; e v. altresì Cons. Stato sez. IV, 6 settembre 1999 n. 1402, Cons. Stato sez. IV, 16 marzo
1998 n.443, Cons. Stato, sez.V, 13 agosto 1996 n. 918, Cons. Stato, sez. IV, 22 marzo 1993
n. 182; Tar Campania sez. Napoli, 6 luglio 2000 n. 2676; Tar Lombardia, sez. Brescia, 1
giugno 1998 n. 448; Tar Piemonte 5 giugno 1996 n. 448). Negli standard di edificabilità la
densità fondiaria e la densità territoriale integrano dunque due concetti nettamente distinti.
Mentre la densità territoriale attiene al comparto, al lordo di strade e altri spazi pubblici, la
densità fondiaria attiene al singolo lotto o fondo identificato al netto delle aree asservite a
standard urbanistici: vale a dire, la corrispondente superficie fondiaria è identificabile nella
superficie del lotto edificabile al netto delle superfici destinate ad opere di urbanizzazione
primaria e secondaria. L’indice di fabbricabilità fondiaria, pertanto, risulta essere lo strumento
di misura del massimo volume edificabile su ciascuna unità di superficie fondiaria. Confondere,
allora, ai fini di determinare la volumetria assentibile, la superficie edificabile di mq 2200 con la
superficie dell’intero comparto equivale a pretermettere la distinzione che giuridicamente
secerne l’area edificabile dalla zona omogenea in cui si inserisce, id est equivale a elidere i
limiti di edificabilità perché questi, in tal modo, costituirebbero una percentuale della zona
omogenea anziché una percentuale dell’area interessata direttamente dalla edificabilità stessa.
E così confonde, in effetti, la corte territoriale, applicando il criterio della densità edilizia
territoriale in luogo di quello della densità edilizia fondiaria, in contrasto con la giurisprudenza
amministrativa, consolidata e che non vi è motivo alcuno (come già si evince dall’ampia
citazione sopra trascritta) per contraddire.
3.3.3 Le successive considerazioni che la corte territoriale svolge in ordine al fatto che in un
comparto possano trovarsi sia opere pubbliche sia opere private non sono pertinenti, per
quanto appena osservato, poiché non incidono sulla imperatività della norma di cui all’articolo
7 d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, che si avvince nella determinazione dell’indice in questione,
come si è appena visto, all’area su cui costruire, indipendentemente dal fatto che questa sia
inserita o meno in un comparto in cui opere pubbliche in concreto si affianchino ad opere

.

private. Quanto poi alla tematica della perequazione, a prescindere da talune osservazioni del
giudice d’appello non esenti da una certa connotazione apodittica e/o incongrua (come quella
Or cui “non vi è alcuna cessione di volumetria dal pubblico al privato, dal momento che prima
della attività di edificazione i terreni, anche quelli interessati dalla realizzazione dell’opera
pubblica, risultano per lo più appartenere a privati”: motivazione, pagine 30-31), e a
prescindere altresì da quel che adduce il ricorrente in ordine alla normativa vigente all’epoca
dell’accordo bonario (ovvero che la bozza di questo era allegata al PARU e che l’accordo

statale non conferiva alla P.A. la facoltà di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti,
introdotta per la prima volta in via generale dalla I. 15/2005 modificando gli articoli 1, comma
1 bis, e 11 I. 241/1990), è sufficiente rilevare che qualunque accordo stipulato dalla P.A. jure

privatorum in luogo di esercitare attività jure imperii – cioè nel caso di specie allo scopo di
supplire un provvedimento espropriativo – non può comunque assumere un contenuto contra

legem, poiché trattasi esclusivamente di realizzazione in forma diversa di un pubblico scopo, e
non di una deroga alle norme imperative, che, in quanto tali, circoscrivono l’autonomia delle
parti in ogni negozio giuridico. La P.A., poi, quando agisce

jure privatorum,

ovvero

convenzionalmente con il privato, si giova di una facoltà di opzione relativa al quomodo della
sua attività, facoltà che non reca peraltro alcuna incidenza sul contenuto dell’attività stessa,
non spostando sul piano della discrezionalità quel che, invece, è inderogabilmente
predeterminato dal legislatore con norma non meramente dispositiva bensì imperativa, e che è
pertanto direttamente sussumibile nel parametro della legittimità che governa l’attività
amministrativa nel suo complesso. Anche l’accordo bonario, allora, non poteva consentire il
superamento dell’inderogabile limite di densità edilizia per nuove costruzioni in zona A, limite
dettato quantomeno dall’articolo 7 d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 con valenza di legge statale; e
ciò assorbe ogni altro profilo, inclusi quelli della possibilità di coesistenza in un comparto di
opere pubbliche e di opere private e della qualificazione dell’area destinata a parcheggio.
In conclusione, risulta fondato il secondo motivo, essendo la corte territoriale effettivamente
incorsa nell’errore di diritto che questo ha denunciato.
3.4 La fondatezza del secondo motivo rende superfluo il vaglio del terzo. Meramente ad

abundantiam, quindi, si rileva che, poiché questo riguarda non solo il vizio motivazionale ex
art. 606, primo comma, lettera e), c.p.p. ma pure una pretesa assoluta mancanza di
motivazione della sentenza impugnata in ordine alle questioni denunciate nel secondo motivo,
il ricorrente, con un asserto chiaramente non corrispondente al reale contenuto della sentenza
(non sussiste assoluta carenza di motivazione, come risulta da quanto sin qui esaminato, bensì
non sono condivisibili gli argomenti con cui l’ha intessuta il giudice d’appello), ha tentato
invano di schivare ex articolo 606, primo comma, lettera c), c.p.p. l’inammissibilità che deriva
dall’essere il vizio motivazionale rilevante ai fini dell’articolo 606, primo comma, lettera e),
c.p.p. esclusivamente se attiene alla motivazione in punto di fatto, per quella di diritto non

bonario fu stipulato il 23 novembre 2000 tra Comune e FINDEM, cioè quando la legislazione

incidendo le modalità del ragionamento bensì il suo risultato (p.es. Cass. sez. II, 20 maggio
2010 n. 19696: “Il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello

attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacché ove queste ultime, anche se in
maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque
esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza”; conformi Cass. sez. II,
21 gennaio 2009 n. 3706; Cass. sez. V, 22 febbraio 1994 n. 4173; Cass. sez. IV, 7 marzo
1988 n. 6243; trattasi peraltro di principio generale che governa l’ambito della giurisdizione di

civ. sez. III, 14 febbraio 2012 n. 2107).
3.5 Seguono nel ricorso il quarto e il quinto motivo, riguardanti, sotto il profilo della
violazione di legge e del vizio motivazionale, la pretesa mancanza di elemento soggettivo. La
corte territoriale ha infatti conformato la motivazione su un doppio binario: solo dopo avere
specificamente illustrato perché, a suo avviso, sarebbe “agevole” ritenere che il fatto non
costituisce reato per entrambi i reati contestati (motivazione, pagine 22-27), come già si è
visto, affronta la questione della sussistenza del fatto reato quanto alla contestazione di cui al
capo a), giungendo agli esiti appena constatati come non condivisibili.
3.5.1 Quanto all’elemento soggettivo, allora, adduce il giudice d’appello che occorre
guardarsi dal trasformare, negandone il rilievo pur allo scopo di tutelare il territorio e l’assetto
urbanistico, “la responsabilità degli imputati in una responsabilità obiettiva, che non tiene
conto in alcun modo del ragionevole affidamento da loro riposto nella legittimità degli atti
amministrativi che l’hanno preceduta” (motivazione, pagina 22). Anche se questi possono
essere – senza che ne occorra la disapplicazione – ritenuti illegittimi dal giudice penale
nell’accertamento diretto della sussistenza degli elementi costitutivi del reato, non può venir
meno, infatti, “ai fini dell’accertamento dell’elemento psicologico, la rilevanza della presenza di
atti amministrativi ritenuti legittimi”, che la corte territoriale identifica nel PARU – cui è
correlato l’accordo bonario del 23 novembre 2000 – e nel permesso di costruire anche con il
parere favorevole della Sovrintendenza quanto al rispetto del vincolo paesaggistico. Secondo la

legittimità, e investe pertanto anche il ricorso ex articolo 360 n.5 c.p.c.: cfr. da ultimo Cass.

corte il fatto che il sequestro preventivo sia stato poi disposto solo ad opera ormai finita, il 21
marzo 2009, il numero delle persone intervenute nel procedimento amministrativo, così alto da
escludere l’ipotesi di una collusione che partirebbe fin dall’adozione del PARU, il fatto che non
sia stata esercitata l’azione penale, e per reati più gravi, nei confronti delle persone coinvolte
nel procedimento amministrativo, nonché “il sospetto (perché di questo ovviamente soltanto si
tratta) che siano stati interessi economici rilevanti ad animare i vari protagonisti”, tutto questo
“non può essere assunto ad indice rivelatore della sussistenza del reato urbanistico ben
potendo accadere che un permesso di costruire, benché rilasciato in un contesto di collusione e
corruttela, sia tuttavia del tutto legittimo”. Dunque l’elemento psicologico dei reati contestati
non potrebbe essere altro che colpa: e avendo il primo giudice ritenuto che non fosse
ascrivibile alcuna colpa ad alcuni coimputati che ha pertanto assolti e ritenuto invece che gli

C-7

à- ttuali appellanti “fossero in grado di rendersi conto della illiceità della propria condotta” per la
.

“pacifica macroscopicità della violazione edilizia” nonostante “complesse questioni giuridiche ad

. essa sottese”, il secondo giudice ritiene tale impostazione non condivisibile. La violazione della
normativa non poteva essere macroscopica proprio per la complessità delle questioni
giuridiche; l’impegnativo iter seguito per l’approvazione del PARU e “gli annullamenti disposti
dalla Sovrintendenza prima di rilasciare il consenso a fronte di una notevole riduzione della
volumetria potevano indurre ragionevolmente gli interessati a confidare nella legittimità del

d’appello accertava che in Umbria dal 1985 fino alla sentenza impugnata l’indice di edificabilità
era stato sempre calcolato nel modo contestato e che la natura non macroscopica della
violazione sarebbe dimostrata dal fatto che né l’autorità amministrativa né l’autorità giudiziaria
durante tutta l’esecuzione dei lavori ne avevano disposto la sospensione o il sequestro.
3.5.2 n ricorrente fonda il suo quarto motivo sulla pretermissione da parte del giudice
d’appello dei criteri dettati dalla Corte Costituzionale nella sentenza 364/1988 (poi ribaditi nella
sentenza 322/2007) per individuare in termini di scusabilità/inevitabilità l’errore ex articolo 5
c.p., criteri seguiti dalla giurisprudenza di legittimità. È condivisibile la doglianza del ricorrente
che la corte territoriale ignora i consolidati parametri ermeneutici relativi all’errore di diritto
scusabile, errore che in questo caso consisterebbe, in effetti, nell’avere ritenuto legittimi il
PARU e – o quanto meno – il permesso di costruire in rapporto all’articolo 7 d.m. 2 aprile 1968
n. 1444. Va anzitutto premesso che l’errore su una norma extrapenale che integra la norma
penale è assorbito dalla disciplina dell’errore su quest’ultima ex articolo 5 c.p. (da ultimo Cass.
sez. IV, 18 gennaio 2012 n. 6405). Ciò posto, è sufficiente ricordare il chiaro insegnamento
della prima sentenza del giudice delle leggi che pose un confine alla generalità dell’articolo 5
c.p. consentendo, peraltro entro limiti rigorosi e nettamente determinati, l’adeguamento della
fattispecie alla sua concretezza oggettiva e soggettiva. La sentenza 364/1988 ha indicato la
necessità, per qualificare inevitabile l’errore di diritto, del vaglio della fattispecie mediante
criteri oggettivi, c.d. puri o misti (quali l’obiettiva oscurità del testo normativo, l’esistenza di
gravi contrasti interpretativi giurisprudenziali, il ricevimento di “assicurazioni erronee” ecc.) da
coordinare con il parametro soggettivo delle particolari condizioni e conoscenze del singolo, tali
da renderne l’ignoranza inescusabile. Una compatta giurisprudenza di questa Suprema Corte
ha raccolto l’insegnamento della Consulta, in particolare – per quanto qui rileva – affermando
che l’errore sulla legge penale non è inevitabile “quando l’agente svolge una attività in uno
specifico settore rispetto alla quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa
esistente” (così Cass. sez. V, 26 febbraio 2008 n. 22205, v. pure Cass. sez. VI, 21 giugno 2007
n. 35813 e Cass. sez. VI, 22 marzo 2000 n. 6776). Sotto tale profilo la corte territoriale non ha
esaminato la condizione degli imputati, tutti operatori del settore, alcuni quali funzionari
pubblici altri nell’esercizio delle proprie attività professionali e imprenditoriali; né tanto meno spostandosi sul piano oggettivo – ha considerato che il profilo volumetrico dell’edificio non

PARU e del permesso di costruire”. A ciò si aggiunga che il perito incaricato dal giudice

. poteva, appunto per degli operatori del settore, sfuggire all’articolo 7 d.m. 2 aprile 1968 n.
1444, sulla cui interpretazione, come sopra si è visto, si era sviluppata una giurisprudenza del
t’utto chiara (sull’effetto ostativo di un pacifico orientamento giurisprudenziale rispetto alla
qualificazione dell’errore di diritto come scusabile da ultimo Cass. sez. VI, 25 gennaio 2011 n.
6991). Gli indici che la corte territoriale ha invece posto in luogo di quelli indicati dalla
giurisprudenza della Corte Costituzionale e di questa Suprema Corte non sono riconducibili alla
corretta interpretazione dell’articolo 5 c.p., perché, come si è visto, sono caratterizzati dalla
non pertinenza rispetto alla posizione del singolo imputato (in tal senso deve qualificarsi
l’indicazione dell’alto numero di persone come coinvolte nel lungo procedimento
amministrativo, l’esclusione di una collusione di rilievo penale nell’ambito di tale procedimento
o comunque la mancata azione penale per altri reati, nonché la tardività nella disposizione del
sequestro dell’edificio) e rispetto alle conoscenze che sempre il singolo imputato avrebbe
dovuto avere quale operatore del settore, o quanto meno rispetto al dovere d’informazione che
semmai gli sarebbe disceso da tale sua condizione professionale per consentirgli di esercitarla
con diligenza e perizia (tali sono l’evidenziazione della lunghezza temporale dell’iter
procedimentale e la qualificazione di complessità delle questioni giuridiche laddove, in relazione
a quanto la stessa corte territoriale ha riconosciuto essere stato contestato nel capo
d’imputazione, il tutto si identificava nella questione della volumetria, come già osservato
oggetto di pluridecennale giurisprudenza; il che, da ultimo, rende irrilevante l’ulteriore
elemento del risultato della perizia disposta dal giudice d’appello).
In conclusione, risulta fondato il quarto motivo del ricorso, laddove, per il quinto, non si può
non richiamare quanto sopra esposto a proposito del terzo motivo: non vi è carenza di
motivazione, bensì la motivazione di diritto della corte territoriale ha condotto ad un esito
erroneo, il quale di per sé soltanto rileva, come lo stesso ricorrente lo ha fatto rilevare nel
quarto motivo.
3.6 Quanto si è sopra esposto in ordine al secondo e al quarto motivo assorbe
evidentemente gli ulteriori profili oggetto di doglianza relativa al capo a), ovvero i motivi sesto
e settimo sull’ammissione della perizia in rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e i motivi
ottavo e nono sugli esiti della perizia, che non occorre pertanto vagliare.
3.7 Il decimo motivo, dedicato al reato ex articolo 734 c.p., denuncia anzitutto la violazione
di legge rappresentata dall’avere ritenuto la corte territoriale che l’insussistenza del reato di cui
al capo a) comporti l’insussistenza anche di quello di cui al capo b). La fondatezza della
doglianza è più che evidente, dal momento che si tratta di reati posti a presidio di beni giuridici
diversi, per cui non può sussistere alcuna consequenzialità come prospettato dalla sentenza
impugnata nell’incipit dell’esame del gravame attinente all’articolo 734 c.p. Peraltro, su ciò non
vi è luogo a ulteriore indugio dal momento che la stessa corte territoriale manifesta una sorta
di “resipiscenza” esaminando comunque (motivazione, pagine 34ss.) l’imputazione de q

…\.,7

genza vincolarla all’imputazione precedente. La vera ragione che supporta l’assoluzione in
appello perché il fatto non sussiste è identificabile, quindi, nella censura delle modalità di
o
accertamento, e della loro correlata illustrazione motivazionale, che si riscontrano, ad avviso
del secondo giudice, nella sentenza del primo: il Tribunale “attribuisce alle dimensioni del
complesso edilizio ed al suo aspetto moderno l’effetto di turbare il godimento estetico dei
visitatori del luogo a causa di un negativo impatto del complesso sull’assetto preesistente” ma
lo fa mediante espressioni che, “nella loro genericità e tautologia, sembrano rappresentare più

sarebbe “prova di rilevanti proteste”), laddove l’assenso al progetto rilasciato dalla
Sovrintendenza, cioè dall’ “autorità preposta alla tutela proprio di quei beni ed interessi
richiamati dal Giudice”, avrebbe dovuto indurre quest’ultimo “a procedere con cautela
nell’asserire che un complesso edilizio di nuova costruzione, soltanto perché di determinate
dimensioni ed aspetto moderno, non possa armonizzarsi con l’ambiente circostante sì da
consentire di considerarlo anch’esso, una volta superato il senso di stupore che sempre si
prova dinanzi al nuovo, un elemento caratterizzante un particolare luogo ed una particolare
comunità”, essendo poi “tendenza attuale dell’architettura…inserire il moderno nel contesto
antico”. Erroneamente, dunque, il primo giudice avrebbe fondato la decisione sul suo “senso
estetico soggettivo” anziché avvalersi di quello che il secondo giudice ritiene il parametro più
oggettivo possibile, cioè l’assenso della Sovrintendenza, che avrebbe potuto essere superata
nel senso della sussistenza del reato solo mediante “elementi obiettivi di prova molto più
concreti e rilevanti” come una perizia collegiale sui “profili richiamati genericamente dal
Tribunale”.
Questa sintesi della motivazione dispiegata dalla corte territoriale in ordine all’assoluzione
dal reato di cui all’articolo 734 c.p. dimostra la fondatezza della doglianza del ricorrente,
perché travisa il contenuto della motivazione del Tribunale. Questo, infatti, non ha esaminato il
secondo capo di imputazione sulla base di una propria ottica soggettiva – di cui invece, si
osserva incidenter, si è visto non far risparmio il giudice d’appello, laddove asserisce che
qualunque novità produce (non interesse ma addirittura) stupore e che la tendenza

una considerazione del Giudice piuttosto che quello (sic) dei visitatori del luogo” (non vi

architettonica odierna consisterebbe nel creare netti contrasti nel contesto antico -, bensì ha
proceduto secondo una attenta impostazione razionale e oggettiva. Anzitutto ha rilevato, in
punto di diritto, quel che, pur non contestandolo apertis verbis, pone in discussione la corte
territoriale: il giudice penale non è condizionato dalle valutazioni della P.A. ai fini
dell’accertamento della sussistenza o meno del reato di cui all’articolo 734 c.p. Ciò corrisponde
all’insegnamento di questa Suprema Corte, che ravvisa nel provvedimento amministrativo
incidenza soltanto sull’elemento soggettivo del reato o sulla sua gravità (Cass. sez. III, 17
giugno 2010 n.34205; Cass. sez. IV, 29 marzo 2004 n. 32125; Cass. sez. III, 3 marzo 2004 n.
15299; Cass. sez. III, 1 ottobre 1998 n. 11773; cfr. altresì Cass. sez. III, 29 settembre 2011
n. 42065). Successivamente, il Tribunale ha effettuato l’accertamento sulla base di oggettivi

G-1.,

.

elementi fattuali a sua disposizione, identificati nell’importante entità della volumetria e nella
•realizzazione di un edificio di tale entità volumetrica e di aspetto moderno in una zona

vincolata. Infine, ha motivato (cfr. S.U. 21 ottobre 1992-12 gennaio 1993 n. 248) in ordine
agli interventi della Sovrintendenza, oltre che sull’elemento soggettivo del reato, così
pervenendo all’accertamento della sua sussistenza. Risulta pertanto evidente la fondatezza del
motivo, avendo la corte territoriale non solo – sia pure implicitamente – ritenuto in modo
erroneo che sussista una subordinazione del giudice penale rispetto alla valutazione della

collegio peritale, laddove la giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte (d’altronde in
coerenza con il generale principio del giudicante

peritus peritorum)

tale subordinazione

esclude, ma altresì avendo travisato il giudice d’appello le chiaramente corrette modalità di
accertamento adottate dal giudice di primo grado.
In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte d’appello di
Firenze.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Firenze.

Così deciso in Roma il 29 gennaio 2014

Il Consigliere Estensore

Il 1

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dente

pubblica amministrazione superabile solo mediante il deferimento della valutazione stessa a un

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