Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5702 del 07/01/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 5702 Anno 2014
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

BRIGANTI UMBERTO, n. 5/01/1956 a FRANCOFONTE

BRIGANTI GESUALDO, n. 24/10/1956 a FRANCOFONTE

avverso la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di CATANIA in data
21/05/2013;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. Pietro Gaeta, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi;
udite le conclusioni degli avvocati Sebastiano Sferrazzo per Briganti Gesualdo e
Santi Terranova per Briganti Umberto, entrambi del Foro di Siracusa, che hanno
chiesto l’accoglimento dei rispettivi ricorsi;

Data Udienza: 07/01/2014

RITENUTO IN FATTO

1.

BRIGANTI UMBERTO e GESUALDO hanno proposto separati e tempestivi

ricorsi avverso la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di CATANIA in data
21/05/2013, depositata in data 10/06/2013, con cui, in parziale riforma della

pronunciata l’assoluzione di BRIGANTI UMBERTO dal delitto di omicidio
volontario riconosciuta la scriminante della legittima difesa (capo a); b)
pronunciata l’assoluzione di BRIGANTI GESUALDO dai reati di porto abusivo ed
alterazione di armi (capi b) e c) della rubrica) per non aver commesso il fatto; c)
confermata la condanna di BRIGANTI GESUALDO alla pena di anni sei di
reclusione ed C 30.000,00 di multa per il reato di cui all’art. 110 c.p., 73, comma
1-bis, d.P.R. n. 309/1990 (illecita coltivazione all’interno di un agrumeto sito in
territorio di Francofonte, in concorso con BRIGANTI UMBERTO, di una
piantagione di marijuana: capo d); d) rideterminata la pena irrogata a BRIGANTI
UMBERTO per i reati di porto abusivo ed alterazione di armi (capi b) e c) della
rubrica) in anni due, mesi quattro di reclusione ed C 450,00 di multa; fatti
commessi in Francofonte il 7 luglio 2006.

2. Ricorrono avverso la predetta sentenza ambedue gli imputati, a mezzo dei
rispettivi difensori – procuratori speciali cassazionisti r deducendo BRIGANTI
UMBERTO due motivi di ricorso e BRIGANTI GESUALDO quattro motivi di ricorso,
di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art.
173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, il BRIGANTI UMBERTO, con un primo motivo, vizio di motivazione
ex art. 606, lett. e), c.p.p. in relazione all’art. 530, comma 3, c.p.p. per
mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ed
incongruenza della formula assolutoria; in sintesi, si duole il ricorrente per averlo
la Corte territoriale assolto dal delitto di omicidio volontario di Salvatore
Benvenuto ritenendo sussistente la scriminante di cui all’art. 52 cod. pen. ai
sensi dell’art. 530, comma 3, c.p.p., ossia in presenza del ragionevole dubbio
sulla sussistenza dei presupposti per il suo riconoscimento; diversamente,
sostiene il ricorrente, tale semiplena probatio non si concilia con i passaggi logico
argomentativi della sentenza che, sotto tale profilo, appare manifestamente
affetta da illogicità e contraddittorietà; deduce, in particolare, l’esistenza
dell’interesse all’impugnazione ex art. 607 c.p.p. in quanto la formula utilizzata,
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sentenza 19/10/2011 emessa dalla Corte d’Assise di SIRACUSA, veniva: a)

esternando un dubbio, potrebbe esporlo ad azioni risarcitorie in sede civile e,
comunque, sussisterebbe un interesse generale volto a rimuovere ai sensi della
lett. e) dell’art. 606 c.p.p. i vizi motivazionali della decisione, agevolmente
rilevabili dal testo dell’impugnata sentenza.

2.2. Deduce, il BRIGANTI UMBERTO, con il secondo motivo, vizio di motivazione
ex art. 606, lett. e), c.p.p. con riferimento all’art. 62-bis c.p. e 133 c.p.; in

sintesi, si duole il ricorrente per non aver la Corte territoriale motivato in ordine
alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche nella loro
massima estensione, come invece richiesto nei motivi d’appello.

3. Deduce, il BRIGANTI GESUALDO, con un primo motivo, la violazione dell’art.
606, lett. b) ed e), c.p.p. in relazione agli artt. 125, comma 3, 192 c.p.p. e 110
c.p., art. 73 d.P.R. n. 309/1990 (capo d) ovvero la carenza e manifesta illogicità
della motivazione con riferimento all’art. 110 c.p. nonché travisamento del fatto;
si duole, in sintesi, il ricorrente dell’illogicità ed inadeguatezza della motivazione
attraverso la quale la Corte territoriale ha ritenuto di dover confermare la
sentenza del primo giudice; in altri termini, la Corte etnea avrebbe confermato il
giudizio di responsabilità del ricorrente sulla base di un percorso motivazionale
non ispirato a canoni di logicità e di rigore argomentativo, ritenendo provata la
partecipazione all’attività di illecita coltivazione “quasi in via automatica” sulla
base di considerazioni di ordine logico – tutt’altro che inoppugnabili – innestate
su dati oggettivi, perfettamente in grado per la Corte di merito di assurgere a
valenza di indizi gravi, precisi e concordanti.

3.1. Deduce, il BRIGANTI GESUALDO, con un secondo motivo, la violazione del
principio della personalità della responsabilità penale ex l’art. 43, comma 1, c.p.
nonché dei canoni di cui all’art. 110 c.p.; si duole, in sintesi, il ricorrente per
aver la decisione impugnata utilizzato argomenti di natura logico – deduttiva al
fine di ritenere provata la partecipazione o consapevolezza nella coltivazione
della marijuana, senza tuttavia verificare la sussistenza imprescindibile, al di là
di ogni ragionevole dubbio, della prova della “forma della partecipazione” (se
materiale o psicologica) o, se invece, si trattasse di una mera conoscenza magari
postuma della piantagione quando la stessa era stata ormai ultimata dallo zio
Umberto (che si era assunto tutte le responsabilità in ordine alla coltivazione),
donde anche la violazione dei principi giurisprudenziali in tema di concorso di
persone nel reato, atteso che la conoscenza postuma esclude il contributo
partecipativo al reato, e comunque la natura apodittica ed illogica della
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i,

conclusione di responsabilità fondata sull’assunto che il ricorrente “non poteva
non accorgersi dell’esistenza della coltivazione delle piante di marijuana”.

3.2. Deduce, il BRIGANTI GESUALDO, con un terzo motivo, la violazione dell’art.
606, lett. e), c.p.p. per travisamento del fatto che si traduce in travisamento
della prova, avendo utilizzato la sentenza impugnata, con valore decisivo, ai fini
della censurata condanna, un elemento inesistente e non evidenziato nella

sentenza di primo grado, come risulta dagli atti processuali allegati; in sintesi, si
duole il ricorrente per aver la Corte travisato un dato processuale costituito
dall’aver confuso il terreno su cui insisteva la piantagione di proprietà del
ricorrente, con altro terreno relativamente al quale vi sarebbe stata una lite con
tale Drago (ciò che, secondo la Corte avrebbe denotato l’interesse alla
piantagione anche del ricorrente); in altri termini, dalla documentazione allegata
al ricorso si rileverebbe come le piantine di marijuana si trovavano nel terreno di
proprietà del ricorrente e non in quello della lite, come erroneamente ritenuto
dall’impugnata sentenza che non si sarebbe soffermata ad individuare su quale
terreno insistesse la piantagione; analogamente, la Corte territoriale avrebbe
erroneamente valorizzato un altro elemento, costituito dal fatto che in quel fondo
esistesse una casa che il ricorrente abitava saltuariamente e che, pertanto “non
poteva non accorgersi” delle piantine di marijuana, diverse da quelle di agrumi;
pertanto, l’aver introdotto elementi estranei alla realtà processuale ed argomenti
definiti di “natura logica” che, tuttavia, si traducono in mere asserzioni e
presunzioni del tutto sganciate da elementi fattuali emersi nel giudizio,
vizierebbe la motivazione dell’impugnata sentenza.

3.3. Deduce, il BRIGANTI GESUALDO, con un quarto motivo, la violazione
dell’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione agli artt. 521 c.p.p. e 73, comma
5, d.P.R. n. 309/1990; in sintesi, si duole il ricorrente per la mancata
sussunzione del fatto nell’ambito del comma 5 dell’art. 73, T.U. Stup., per come
richiesto nei motivi d’appello; in altri termini, sarebbe stato apodittico il
ragionamento che ha portato al diniego dell’ipotesi di cui al comma 5, fondato
sul generico assunto che le piantine avrebbero prodotto quantità di stupefacente
di “presumibile considerevole rilievo”, nonostante l’incertezza sull’effettiva
maturazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4
1–(‘

4. Il ricorso di BRIGANTI UMBERTO dev’essere dichiarato inammissibile mentre
quello di BRIGANTI GESUALDO dev’essere accolto, per le ragioni di cui si dirà
oltre.

5. Quanto al primo motivo di ricorso dedotto dal BRIGANTI UMBERTO, non è
ravvisabile il dedotto vizio motivazionale che la difesa individua nell’adozione

ricorrente assolto dal delitto di omicidio volontario ai danni di Salvatore
Benvenuto, ritenendo sussistente il dubbio in ordine alla sussistenza della
scriminante di cui all’art. 52 cod. pen.
L’inammissibilità della proposta impugnazione discende, in particolare, a
giudizio del Collegio, sia dalla lettura della disposizione della legge processuale
richiamata (art. 530, comma 3, c.p.p.), sia dall’esegesi, già in precedenza offerta
da questa Corte, con riferimento all’omologa previsione di cui all’art. 530,
comma secondo, cod. proc. pen.

5.1. Milita, anzitutto, l’evoluzione storico – normativa della normativa, in quanto
la disciplina dettata dall’art. 530, comma terzo, cod. proc. pen. è una
conseguenza della reazione ad un consolidato orientamento della giurisprudenza
di questa Corte, formatasi durante la vigenza del codice del 1930, che riteneva
non potesse essere pronunciata sentenza di assoluzione per insufficienza di
prove, dato che si riteneva che le esimenti e le cause di non punibilità fossero
fatti impeditivi e che quindi dovessero essere pienamente provati per esplicare la
loro efficacia (Sez. 5, n. 8986 del 04/04/1989 – dep. 28/06/1989, CIUFFETELLI,
Rv. 181677; Sez. 6, n. 7841 del 30/03/1989 – dep. 30/05/1989, PRESTI, Rv.
181437; Sez. 1, n. 1087 del 29/11/1988 – dep. 26/01/1989, SORRENTINO, Rv.
180285; Sez. 5, n. 12881 del 17/10/1986 – dep. 18/11/1986, SPINELLI, Rv.
174310).
Il nuovo assetto normativo, invece, esclude che le cause di giustificazione
e di non punibilità siano da considerare elementi negativi del fatto. Si è ritenuto,
quindi, che la disciplina ha natura solamente processuale e non ha effetti di
natura sostanziale, per cui il P.M. non ha l’onere di provare l’inesistenza delle
cause di giustificazione. Si è aggiunto, in dottrina, che il dubbio riguardante la
sussistenza di quelle cause determina il proscioglimento dell’imputato e si è
anche rilevato che la disciplina dettata dalla norma de qua è congrua, alla luce
del fatto che le cause di giustificazione e le cause personali di non punibilità sono
diverse dalle condizioni obbiettive di punibilità e non possono essere disciplinate

5

della formula assolutoria di cui all’art. 530, comma 3, c.p.p. per essere stato il

alla stregua degli elementi costitutivi del reato, e che quindi possono essere
valutate solamente se vi sia un principio di prova della loro esistenza.
Conclusivamente, il dubbio sull’esistenza delle cause di giustificazione e di
non punibilità determina, pertanto, l’assoluzione dell’imputato (Sez. 1, n. 20867
del 13/05/2010 – dep. 03/06/2010, P.M. in proc. Serroni, Rv. 247569; Sez. 2, n.
32859 del 04/07/2007 – dep. 13/08/2007, Pagliaro e altri, Rv. 237758; Sez. 5,

4413 del 18/06/1999 – dep. 22/07/1999, Confl.comp.in proc.Santangelo, Rv.
214025).

5.2. Milita, in secondo luogo, nel senso dell’inammissibilità del motivo di ricorso,
anche la struttura lessicale della formula normativa invocata, in quanto l’art. 530
cod. proc. pen., nel prevedere al comma terzo che “il giudice pronuncia sentenza
di assoluzione a norma del comma 1”, equipara in toto l’ipotesi in cui vi sia la
piena “prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di
giustificazione o di una causa personale di non punibilità” all’ipotesi in cui “vi è
dubbio sull’esistenza delle stesse”, ciò che esclude, dunque, l’esistenza di una
qualsiasi differenziazione sotto il profilo ontologico, prima ancora che giuridico,
tra le due ipotesi.
La norma non prevede, invece, che cosa accada nel caso in cui la prova
manchi del tutto. Una parte della dottrina ha ritenuto che la manifesta
differenza, rispetto all’ipotesi simile prevista dal secondo comma dello stesso art.
530, non sia giustificata, ma la Relazione al progetto preliminare del codice
chiarisce che, riguardo alle cause di giustificazione e di non punibilità, non risulta
congruo equiparare la mancanza di prova positiva alla prova della loro
insussistenza.
L’art. 530, comma terzo, cod. proc. pen., conclusivamente, equipara, ai
fini della pronuncia della sentenza di assoluzione dell’imputato, la prova positiva
dell’esistenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non
punibilità alla presenza del dubbio sull’esistenza delle stesse.
Da ciò consegue, dunque – atteso che il dubbio che comporta la necessità
di pronunciare il proscioglimento ha il medesimo significato e la stessa
estensione dell’omologo elemento considerato nel secondo comma dello stesso
art. 530, che indica le nozioni di “insufficienza” e “contraddittorietà” della prova
(Sez. 2, n. 32859 del 04/07/2007 – dep. 13/08/2007, Pagliaro e altri, Rv.
237758; Sez. 1, n. 8983 del 08/07/1997 – dep. 03/10/1997, Boiardi, Rv.
208473) – che il ricorrente non ha interesse ad impugnare la sentenza che lo ha
assolto ritenendo sussistere il dubbio sull’esistenza della scriminante di cui
6

n. 27283 del 20/03/2007 – dep. 12/07/2007, Olimpio, Rv. 237253; Sez. 1, n.

all’art. 52 cod. pen., ciò in quanto la facoltà concessa all’imputato di impugnare
per cassazione le sentenze di proscioglimento è legata all’esistenza di un
concreto interesse alla rimozione di un provvedimento pregiudizievole.
Quest’ultimo, ritiene il Collegio, non ricorre nel caso di formula assolutoria
accompagnata dalla menzione sia del secondo comma che del terzo comma
dell’art. 530 cod. proc. pen. (attesa l’omologa natura del “dubbio” richiamato in

legalmente prospettabile, neppure astrattamente, l’autonomo inizio di un’azione
civile di risarcimento nei confronti dell’imputato, assolto in seguito a
dibattimento (v., in termini, con riferimento all’ipotesi del comma secondo: Sez.
1, n. 384 del 19/11/1999 – dep. 14/01/2000, Berti, Rv. 215143).
Tale soluzione, del resto, risulta conforme all’autorevole arresto delle
Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995 – dep.
23/02/1996, P.G. in proc. Fachini, Fachini e altri, Rv. 203762), in quanto
l’interesse all’impugnazione, sebbene non possa essere confinato nell’area dei
soli pregiudizi penali derivanti dal provvedimento giurisdizionale, neanche può
essere concepito come aspirazione soggettiva al conseguimento di una pronuncia
dalla cui motivazione siano rimosse tutte quelle parti che possono essere ritenute
pregiudizievoli, perché esplicative di una perplessità sull’innocenza dell’imputato;
difatti, l’impugnazione si configura pur sempre come un rimedio a disposizione
della parte per la tutela di posizioni soggettive giuridicamente rilevanti, e non già
di interessi di mero fatto, non apprezzabili dall’ordinamento giuridico.

6. Inammissibile è, parimenti, il secondo motivo di ricorso dedotto dal BRIGANTI
UMBERTO, in quanto la mancata concessione delle circostanze attenuanti
generiche nella loro massima estensione, richiesta nei motivi d’appello, è stata
correttamente ed adeguatamente motivata dalla Corte territoriale (v. pag. 24
dell’impugnata sentenza), avendo infatti precisato la Corte di merito che,
all’accoglimento della richiesta difensiva, fosse ostativa, sia, la gravità
complessiva della vicenda, sia i precedenti, anche di tipo specifico, a carico del
ricorrente, già condannato in via definitiva per analogo reato sia, infine,
l’inopportunità dell’applicazione dell’art. 62 bis cod. pen. nel massimo assoluto in
funzione di adeguamento dell’entità della pena alla gravità del fatto in concreto.
Orbene, se può condividersi la doglianza difensiva sollevata con
riferimento all’ultimo dei tre profili ostativi (non essendo dirimente, nel senso di
escluderne il riconoscimento nella massima estensione, la circostanza
dell’intervenuta assoluzione per il più grave delitto, elemento da considerarsi
neutro rispetto alla valutazione della meritevolezza delle circostanze, riferibile al
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ambedue i commi della citata norma), laddove, come nella specie, non è

solo reato per cui è stata riconosciuta la responsabilità penale, unico per il quale
è stata valutata la graduazione del trattamento sanzionatorio), non altrettanto
può affermarsi con riferimento ai primi due elementi ostativi richiamati.
Ed invero, il giudice di merito è assolutamente libero di determinare la
pena fra il minimo ed il massimo edittale e l’uso di tale potere discrezionale e
insindacabile in sede di legittimità qualora sia giustificato con motivazione

che abbia riconosciuto le circostanze attenuanti generiche, anche se non nella
loro massima estensione (un terzo), come non ha alcun obbligo di partire da una
pena base minima o prossima al minimo edittale, non incorre nemmeno nel vizio
motivazionale di cui alla lett. e) dell’art. 606 cod. proc. pen.

(sub specie di

contraddittorietà o manifesta illogicità) ove non riduca la pena per le attenuanti
generiche nel massimo di legge, se le ragioni addotte a sostegno del criterio
seguito per escludere la loro riconoscibilità nella massima estensione non siano
incompatibili con quelle che giustificano le attenuanti concesse.

7.

Il ricorso di BRIGANTI UMBERTO dev’essere, dunque, dichiarato

inammissibile. Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo ragioni di
esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di sanzione
pecuniaria, di somma che si stima equo fissare, in euro 1000,00 (mille/00).

8. Solo per completezza, infine, ritiene il Collegio di dover puntualizzare che,
censurando il secondo motivo di ricorso del BRIGANTI UMBERTO la
determinazione del trattamento sanzionatorio quanto alla mancata concessione
delle attenuanti generiche nella loro massima estensione, l’inammissibilità del
relativo motivo avrebbe comunque precluso a questa Corte di dichiarare
l’estinzione per prescrizione dei reati sub b) e sub c) per i quali è stata
rideterminata la pena dalla Corte d’assise d’appello, a seguito dell’intervenuta
assoluzione per il reato di omicidio volontario (v., ex multis: Sez. 5, n. 10379 del
04/06/1999 – dep. 01/09/1999, Tonicello B., Rv. 214190). Ed invero, tenuto
conto della pena edittale prevista per tali reati e della data di consumazione, il
termine massimo di prescrizione sarebbe maturato in data successiva alla
sentenza d’appello ma antecedente alla decisione di questa Corte (6/01/2014);
tuttavia, a detto termine, devono essere aggiunti gg. 22 di sospensione (dal
31/03/2009 al 22/04/2009) per l’adesione della difesa del ricorrente
all’astensione proclamata dall’UCPI.

8

adeguata, immune da vizi logici o giuridici. Consegue, pertanto, che il giudice

Ed invero, facendo applicazione del principio già affermato più volte da questa
Corte (Sez. 4, n. 10621 del 29/01/2013 – dep. 07/03/2013, M., Rv. 256067), il
rinvio dell’udienza del 31/03/2009, dovuto all’adesione del difensore
all’astensione collettiva dalle udienze, determina la sospensione del termine
prescrizionale per tutto il tempo necessario per gli adempimenti tecnici
imprescindibili al fine di garantire il recupero dell’ordinario svolgersi del

della successiva udienza, tenutasi, appunto, il 22/04/2009, con la conseguenza
che il nuovo termine di prescrizione dei reati predetti maturerà il 28/01/2014,
ossia in data successiva alla presente decisione.

9. A diversa soluzione deve, invece, pervenirsi, con riferimento all’impugnazione
proposta da BRIGANTI GESUALDO, limitatamente al capo d) dell’imputazione,
relativo al reato di coltivazione di stupefacenti.

9.1. Ritiene il Collegio, a tal proposito, che – a fronte della genericità del primo
motivo, in cui il ricorrente, nell’eccepire la carenza e manifesta illogicità della
motivazione dell’impugnata sentenza con riferimento all’art. 110 c.p. nonché il
c.d. travisamento del fatto, in realtà si esaurisce nella mera enunciazione di una
serie di massime giurisprudenziali di legittimità del tutto svincolata da qualsiasi
puntuale e diretta critica alla motivazione della sentenza della Corte territoriale,
salvo il fugace riferimento ad un passaggio argomentativo riportato a pag. 28
dell’impugnata sentenza, ciò che qualifica in termini di inammissibilità il motivo
di ricorso, limitandosi lo stesso ad affermazioni apodittiche, prive di qualsiasi
riferimento alla motivazione della sentenza impugnata e di una critica ragionata
alla stessa (v., ex multis: Sez. 6, n. 403 del 16/06/1990 – dep. 16/01/1991, Ric.
Marin ed altri, Rv. 186224) – non altrettanto possa dirsi con riferimento al
secondo motivo di ricorso, in cui il ricorrente censura l’impugnata sentenza,
stavolta con la dovuta specificità, per aver la decisione impugnata utilizzato
argomenti di natura logico – deduttiva al fine di ritenere provata la
partecipazione o consapevolezza nella coltivazione della marijuana, senza
tuttavia verificare la sussistenza imprescindibile, al di là di ogni ragionevole
dubbio, della prova della “forma della partecipazione” (se materiale o
psicologica) o, se invece, si trattasse di una mera conoscenza magari postuma
della piantagione quando la stessa era stata ormai ultimata dallo zio Umberto
(che si era assunto tutte le responsabilità in ordine alla coltivazione, già
condannato con sentenza del GUP per il medesimo fatto).

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processo, sicché il termine di prescrizione deve ritenersi sospeso fino alla data

Dalla lettura della motivazione della Corte d’Assise di Appello etnea in
relazione a tale imputazione, infatti, emerge con evidenza il vizio motivazionale
prospettato dal ricorrente, affermando in particolare la Corte, in maniera
contraddittoria (v. pag. 29) come non fosse possibile che questi non si fosse
accorto, per via dell’estensione del fondo, della presenza della piantine di
marijuana, con ciò, però, ammettendo che il Gesualdo potesse anche non aver

dello zio Umberto, ma potesse essersene accorto successivamente, senza
tuttavia precisare le ragioni per le quali sarebbe stato ritenuto responsabile del
fatto in concorso con lo zio Umberto.
Difetta, dunque, nella sentenza la reale motivazione, fondante il
convincimento dei giudici d’appello, della effettiva esistenza di una
compartecipazione del ricorrente Gesualdo nel reato di coltivazione, non essendo
sufficiente a far discendere la prova della compartecipazione l’affermazione
secondo cui “non poteva non essersene accorto” o di essere il ricorrente il
possessore del fondo, o dall’avere lì una sorta di casa (ma disabitata) o
dall’essere le piante di marijuana di natura diversa rispetto a quelle di agrumi, in
quanto ciò non equivale a provare la partecipazione al reato da parte del
ricorrente, ossia di un suo contributo causale idoneo a facilitare, anche in
maniera minima, la condotta delittuosa. Del resto, il sillogismo giudiziario posto
a fondamento del giudizio di responsabilità per il reato di concorso nella
coltivazione, non convince. Ed invero, dal possesso del fondo o dalla sua
frequentazione, non discende, come logica necessaria conseguenza, la
consapevolezza della compartecipazione nell’attività illecita svolta dallo zio
Umberto; inoltre, la circostanza, ritenuta in sentenza, secondo cui il ricorrente
Gesualdo se ne sia accorto dopo, costituisce una mera conoscenza dell’altrui
attività illecita, che esclude un contributo partecipativo alla condotta criminosa
altrui (Sez. 3, Sentenza n. 23788 del 2012, R.G. 39249/2011, BUSCEMI, non
ufficialmente massimata).
Ai fini della configurabilità del concorso di persone nel reato, infatti, il
contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia
causale, ponendosi come condizione dell’evento lesivo, ma anche quando
assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la
condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori
incertezze di riuscita o difficoltà. Ne deriva che, a tal fine, è sufficiente che la
condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore idoneo ad
arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il
rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri
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partecipato alla creazione, mediante la messa a dimora, delle piantine da parte

concorrenti, e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne
l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato, perché in
forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli altri
concorrenti (Sez. 4, n. 24895 del 22/05/2007 – dep. 26/06/2007, P.M. in proc.
Di Chiara, Rv. 236853, relativa a fattispecie – sostanzialmente analoga a quella
qui esaminata – nella quale questa Corte ha escluso il concorso nel delitto di

aveva provveduto a innaffiarle, trovandosi insieme con il proprietario delle
piante, autore dell’illecito).
Mancando qualsiasi specificazione sulle ragioni del concorso, si deve
ritenere, peraltro, apodittica la conclusione circa l’esistenza di un (co)interesse
alla coltivazione delle piante da parte del ricorrente, valutazione fondata su un
errore fattuale – su cui pure il P.G. presso questa Corte ha convenuto in sede di
discussione – in quanto emerge ex actis che il fondo ove insiste la piantagione
non è quello di cui alla lite con il Drago avvenuta il 6/07/2006, ma un annesso
terreno da tempo di esclusiva proprietà del ricorrente Gesualdo e limitrofo a
quello oggetto della lite.
Quanto alla circostanza, infine, per la quale il Gesualdo si recasse
effettivamente sul fondo per effettuarvi, insieme allo zio Umberto, i lavori
agricoli, condividendo con quest’ultimo interessi economici leciti e non, la
sentenza non ha fornito in realtà risposta sui rilievi di carattere fattuale finalizzati
ad escludere che la proprietà del terreno su cui si trovavano le piantine si
accompagnasse anche ad una condotta di compartecipazione nell’illecita
coltivazione delle stesse, così da dover essere necessariamente attribuita al
ricorrente, cui si aggiunge un difetto motivazionale in ordine al nesso ravvisabile
tra mera proprietà e coltivazione delle piante.
La sentenza dev’essere, pertanto, annullata con rinvio, per consentire una nuova
valutazione della responsabilità dell’imputato tenendo conto dei principi
affermati.

10. L’accoglimento del secondo motivo di ricorso, esime questa Corte
dall’esaminare le residue doglianze difensive mosse con i restanti motivi, da
ritenersi quindi assorbiti.

P.Q.M.

11

coltivazione di piantine di canapa indiana in capo a persona che occasionalmente

Dichiara inammissibile il ricorso di BRIGANTI UMBERTO e condanna il ricorrente
al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della
Cassa delle ammende.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di BRIGANTI GESUALDO,
limitatamente alla condanna per il capo d), con rinvio alla Corte d’Assise
d’Appello di Catania, altra sezione.

Il CoAisigl > re est.

Il Presidente

Così deciso in Roma, il 7 gennaio 2014

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