Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5697 del 12/12/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 5697 Anno 2015
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: CAVALLO ALDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
nei confronti di:
ASENOV KRASIMIR GEORGIEV N. IL 10/10/1982
avverso l’ordinanza n. 7316/2013 GIUD. SORVEGLIANZA di
VENEZIA, del 06/02/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ALDO CAVALLO;
lette/sontite le conclusioni del PG Dott. Q,,~ gso,e0,yiefap,/

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(Q’ (ej4.3°42jz-

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 12/12/2014

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza, deliberata il 6 febbraio 2014, il Magistrato di sorveglianza
di Venezia, in relazione al reclamo del detenuto in epigrafe indicato, deliberando
in contraddittorio con l’Amministrazione penitenziaria, costituitasi e resistente
con memoria del 27 gennaio 2014, ha disposto l’allocazione del reclamante
presso una stanza di pernottamento, con superficie calpestablie pro capite non
inferiore a tre metri quadrati; ha rigettato la ulteriore istanze dell’interessato di

igienici, alle condizioni di illuminazione e di areazione, alla durata della
permanenza giornaliera fuori cella; ha, infine, dichiarato non doversi procedere
al regolamento delle spese del procedimento.
1.1 In particolare il Magistrato di sorveglianza, sulla base dei dati forniti
dalla Amministrazione penitenziaria, in ordine alla «metratura delle stanze di
pernottamento» nelle quali è stato ristretto, di volta in volta, il reclamante, allo
«spazio occupato dalle suppellettili» e al numero degli occupanti, ha accertato
che «sempre o quasi sempre» e «anche senza tenere conto dell’ingombro
costituito da letto, armadio e lavabo», lo spazio intramurario assicurato al
detenuto e ai compagni di cella era inferiore a tre metri quadrati pro capite.
1.2 Quindi, pur riconosciuta l’esattezza del rilievo della Avvocatura
distrettuale dello Stato sul punto che «nessuna norma di legge prevede la
indicazione numerica della superficie che deve avere la cella per potere essere
considerata adeguata e sufficiente alla al trattamento umano del detenuto», il
Giudice a quo ha richiamato í criteri affermati dalla giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo e, in particolare, dalla sentenza pilota dell’8 gennaio
2013, Torreggiani, circa la determinazione dello «spazio vitale minimo» delle
celle «al di sotto del quale […] è ravvisabile la patente violazione» del divieto dei
trattamenti inumani o degradanti stabilito dall’articolo 3 CEDU.
E ha concluso per la fondatezza della doglianza del reclamante, circa la
insufficienza della ampiezza della camera di pernottamento e la inosservanza da
parte della Amministrazione Penitenziaria della disposizione dell’articolo 6
dell’Ordinamento penitenziario.
1.3 In ordine al regolamento delle spese, il Magistrato di sorveglianza ha
divisato che la natura del procedimento «riconducibile a quello di esecuzione»
esclude la applicazione del principio della soccombenza.
2. li Ministero della Giustizia, in persona del Ministro in carica pro tempore,
organicamente rappresentato e legalmente difeso dalla competente Avvocatura
distrettuale dello Stato di Venezia, ha proposto ricorso per cassazione mediante
atto recante la data del 19 febbraio 2014 (depositato il 20 febbraio 2014), col
quale ha sviluppato due motivi.

assegnazione a cella di più ampia superficie e le doglianze in ordine ai servizi

2.1 Con il primo motivo di ricorso l’Avvocatura distrettuale ha denunziato
violazione degli articoli 3, 46 CEDU, dell’articolo 10 Costituzione, dell’articolo 6
dell’Ordinamento penitenziario e del d.P.R. 25 marzo 1998, n. 138, Allegato C.
Dopo aver censurato che l’accertamento del Magistrato di sorveglianza sul
punto che «la superficie della cella in cui [il reclamante] è ristretto fosse inferiore
a tre metri quadrati», sarebbe stato non puntuale, bensì «desunto in base a una
valutazione di massima di natura probabilistica», la ricorrente nega, con vari
argomenti e con richiamo alla sentenza della Corte EDU, 5 marzo 2012, caso

detenuto a spazi netti non inferiori a tre meri quadrati»; e oppone che si deve,
invece, tenere conto della superficie lorda dei vani e, a tal fine, conteggiarsi
«persino lo spessore dei muri interni e perimetrali sino a cinquanta centimetri»,
secondo le disposizioni che disciplinano il computo della superficie catastale.
2.2 Con il secondo motivo di ricorso l’Avvocatura distrettuale ha denunziato
violazione degli articoli 90, 91, 92, 112 cod. proc. civ., 8 e 158 del Testo Unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia,
approvato con d.R.R. 30 maggio 2002, n. 115, censurando l’omesso regolamento
delle spese del procedimento.

3. Il Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte suprema di
cassazione, nella sua requisitoria in atti, ha osservato: il reclamo del detenuto,
riguardando diritti soggettivi del detenuto deve ritenersi senz’altro proposto ai
sensi dell’articolo 35-bis dell’ Ordinamento penitenziario; tale disposizione,
successivamente alla proposizione del reclamo, ha subito delle modifiche che
prevedono che avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza è
ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza; in assenza di una normativa
transitoria occorre fare riferimento al principio tempus regit actum (in base al
quale vanno applicate le regole sulla competenza vigenti al tempo in cui una
determinata attività giurisdizionale deve essere compiuta), sicché le nuove
disposizioni devono ritenersi applicabili a tutti i procedimenti pendenti, con la
conseguenza che il ricorso deve essere qualificato come reclamo al Tribunale di
sorveglianza, con conseguente trasmissione degli atti a quell’ufficio.

Considerato in diritto

1. Il ricorso proposto dal Ministero della Giustizia prospetta dei motivi
d’impugnazione infondati e va pertanto rigettato.
Questa Corte ha già avuto occasione di rilevare con la sentenza n.
53011 del 27 novembre 2014 deliberata in analoga fattispecie, assume carattere
preliminare la questione di diritto, in rito, della competenza di questa Corte dì
2

Teilissi, che l’Amministrazione penitenziaria sia obbligata «ad assegnare il

legittimità, quale giudice della impugnazione, a conoscere il ricorso, e ciò anche
in considerazione della espressa richiesta del Procuratore generale di
qualificazione dell’atto come reclamo e di inoltro al Tribunale di sorveglianza di
Venezia.
1.1 Ciò posto, la questione, conformemente alla citata decisione alla quale il
Collegio intende dare continuità, condividendola, deve essere risolta in senso
positivo, in difformità della richiesta del Pubblico Ministero requirente.
Come già affermato da questa Corte nella citata decisione, infatti, “l’articolo

legge di conversione 21 febbraio 2014, n. 10, del decreto legge 23 dicembre
2013, n. 146, che ha introdotto il citato articolo): «Avverso la decisione del
magistrato di sorveglianza [sul reclamo giurisdizionale] è ammesso reclamo al
tribunale di sorveglianza nel termine di quindici giorni dalla notificazione o
comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa». Il successivo
comma 4-bis (introdotto dalla citata legge di conversione) recita: «La decisione
del tribunale di sorveglianza è ricorribile per cassazione per violazione di legge
nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’ avviso di
deposito della decisione stessa». Ma il ricorso è stato presentato dalla
Avvocatura distrettuale dello Stato il 20 febbraio 2014, nel vigore dell’articolo
35-bis, comma 4, dell’Ordinamento penitenziario nel testo introdotto dall’articolo
3, comma 1, lettera b), del decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, prima delle
modificazioni apportate dalla legge di conversione promulgata il giorno
successivo (v. supra). La norma recitava: «4. Avverso la decisione del magistrato
di sorveglianza è ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge, nel
termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di
deposito.». L’Avvocatura distrettuale dello Stato aveva, pertanto, correttamente
esperito il mezzo di impugnazione previsto illo tempore dalla legge vigente al
momento della presentazione del ricorso.
Sicché, nella specie, la

quaestio iuris

si focalizza nel quesito se le

modificazioni apportate dal legislatore della conversione in legge al sistema delle
impugnazioni (colla sostituzione del comma 4 dell’articolo 35-bis
dell’Ordinamento penitenziario e colla introduzione del comma 4-bis nel corpo
nel medesimo articolo) incidano (escludendola) sulla competenza del giudice
della impugnazione, già adito dalla parte ricorrente (la Corte suprema di
cassazione) e comportino, conseguentemente, la

traslati° iudici a favore del

giudice divenuto competente iure superveniente (il Tribunale di sorveglianza dì
Venezia). In carenza di veruna disciplina transitoria trova pacificamene
applicazione il principio giuridico di determinazione della competenza del tempus
regit actum.

35-bis dell’Ordinamento penitenziario dispone al comma 4 (modificato dalla

Se non che nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità è dato censire
sensibili oscillazioni in merito alla individuazione del criterio ulteriore di
collegamento ai fini della applicazione del succitato principio, in materia di
impugnazioni. Secondo un primo indirizzo lo ius superveniens trova immediata
applicazione nei giudizi di impugnazione pendenti, non ostante che nel vigore
della previgente disciplina il provvedimento impugnato sia stato deliberato e la
impugnazione sia stata proposta, fatto salvo solo il caso della
iurisdictionis,

reputato ricorrente qualora il giudice

ad quem

perpetuati°
abbia già

tema di revisione: Sez. Un., n. 1 del 03/02/1990 – dep. 16/03/1990, La Rocca,
Rv. 183699: «Le modifiche alle regole sulla determinazione della competenza del
giudice dovute all’entrata in vigore di nuove norme legislative operano con effetti
immediati anche se il procedimento sia iniziato prima dell’entrata in vigore della
legge modificatrice; tale principio è temperato da quello della

perpetuati°

iurisdictionis per effetto del quale la competenza per i procedimenti di cui sia già
iniziata la trattazione resta radicata presso il giudice competente ai sensi delle
norme anteriormente vigenti». Le Sezioni Unite hanno spiegato, nella citata
sentenza, che, ai fini della perpetuati°, «perché io Vudicium’ possa considerarsi
‘acceptum’

(con la conseguenza che

Vbi et finem accipere deben,

non è

sufficiente la semplice pendenza del procedimento davanti all’ufficio giudiziario,
ma è necessario che il giudice abbia iniziato a conoscere del procedimento, abbia
cioè esercitato attività di giurisdizione. In altre parole […] perché possa ritenersi
operante il criterio della ‘perpetuati° iurisdictionis’ […] è necessario che il giudice
[…] abbia iniziato concretamente la trattazione [del giudizio] prima dell’entrata in
vigore delle nuove norme». Secondo un altro orientamento il criterio
cronologico-procedimentale di collegamento è costituito dal momento della
presentazione della impugnazione nel senso che la competenza del giudice ad
quem si cristallizza alla stregua della disciplina in vigore all’epoca del deposito
dell’atto e resta insensibile allo

ius superveniens

(Sez. 1, n. 5104 del

09/10/1996 – dep. 04/11/1996, Guarino A, Rv. 206145, in tema di riesame;
Sez. 6, Sentenza n. 27858 del 22/05/2001 – dep. 11/07/2001, Bianco, Rv.
219974, in tema di appello delle sentenze di condanna alla sola pena della
multa; Sez. 5, n. 17417 del 13/03/2007 – dep. 08/05/2007, Stampini e altri, Rv.
236553, in tema di appello della parte civile). Mentre bisognerebbe far
riferimento alla scadenza del termine per la proposizione della impugnazione, nel
senso che «lo ius superveniens […] si applica esclusivamente alle ipotesi nelle
quali i termini per la proposizione dell’appello non siano ancora decorsi»,
secondo l’arresto della Sez. 5, n. 2883 del 17/05/2000 – dep. 12/06/2000,
Moresco, Rv. 216500. Le Sezioni Unite, infine, sono ancora intervenute,
modificando il loro precedente indirizzo, e hanno fissato il principio di diritto
4

«concretamente» incoato la trattazione della impugnazione (così, per tutte, in

secondo il quale «ai fini dell’individuazione del regime applicabile in materia di
impugnazioni, allorché si succedano nel tempo diverse discipline e non sia
espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall’una
all’altra, l’applicazione del principio

‘tempus regit actum’

impone di far

riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a
quello della proposizione dell’impugnazione. (Sez. Un., n. 27614 del 29/03/2007
dep. 12/07/2007, P.C. in proc. Lista, Rv. 236537). A tale principio questo
Collegio si uniforma e, in applicazione del medesimo, afferma la propria

Stato. Al momento, infatti, del deposito della ordinanza impugnata (6 febbraio
2014), era pacificamente esperibile il ricorso per cessazione avverso il
provvedimento in parola, alla stregua (e indipendentemente dalla disposizione
non convertita contenuta nell’originario comma 4 dell’articolo 35-bis dell’
Ordinamento penitenziario) del combinato disposto degli articoli 35-bis, comma
1, dell’Ordinamento penitenziario, 666 cod. proc. pen. (richiamato dal ridetto
comma e recante la previsione dei ricorso per cessazione) e della speciale
disposizione dell’articolo 71-ter, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario.

2. Anche con riferimento al merito della proposta impugnazione, il Collegio
ritiene di non doversi discostare da quanto già affermato nella citata decisione n.
53011 del 27 novembre 2013.
2.1 Il primo motivo di ricorso, pertanto, deve ritenersi senz’altro
inammissibile.
È appena il caso di premettere che palesemente non pertinente è il richiamo
della ricorrente alla norme tributarie, in materia del computo della superficie
degli immobili ai fini castali. Affatto diverso è infatti – alla evidenza – l’oggetto
del procedimento.
2.2 Manifestamente infondata è, poi, la denunzia della supposta violazione
dì norme di legge. In materia di spazi intramurari il legislatore non ha inteso
stabilire precisi standard metrici di superficie, né indici dì densità/affollamento
della popolazione reclusa (v. infra), come, peraltro, sostenuto dalla ricorrente
dínnanzi al giudice

a quo.

Sicché non è ravvisabile, in radice, alcuna

inosservanza o erronea applicazione di norme di legge nella decisione
impugnata, la quale è, piuttosto, fondata sulla diversa valutazione del giudicante
secondo il quale lo spazio intramurario nel quale il detenuto è ristretto comporta,
per la esiguità della superficie, un «trattamento inumano o degradante», vietato
dalla legge. Epperò, anche in relazione alle residue censure proposte dalla
ricorrente col primo mezzo di impugnazione, giova ricordare che l’articolo 236,
comma 2, disp. coord. cod. proc. pen. (la norma dispone: “Nelle materie di
competenza del tribunale di sorveglianza continuano ad applicarsi le disposizioni
5

competenza a conoscere il ricorso proposto dall’Avvocatura distrettuale dello

contenute dalla legge 26 luglio 1975, n. 354 diverse da quelle contenute nel
capo II-bis del titolo II della stessa legge”) non reca alcun riferimento alle
materie di competenza del magistrato di sorveglianza.
Consegue che l’articolo 71-ter dell’Ordinamento penitenziario (contenuto nel
capo II-bis del titolo II) non è derogato in parte de qua dalla anzidetta norma di
coordinamento (cfr. Cass., Sez, Un., 27 giugno 2006, n. 31461, Passamani,
massima n. 234147, circa la intervenuta abrogazione delle disposizioni del
suddetto capo II-bis in relazione alle materie di competenza del tribunale dì

Sicché il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti del magistrato di
sorveglianza – ove ammesso è esperibile esclusivamente per violazione di
legge (Cass., Sez. Un., 26 febbraio 2003, n. 25079, Gianni; Sez. I, 12 novembre
2008, n. 44321, Aranitì; Sez. I, 12 febbraio 2009, n. 9508, Testa, non
massimate sul punto, e Sez. I, 20 ottobre 2010, n. 39314, Fai – india, massima n.
248844).
Orbene, nella specie, oltre alla generica censura in ordine all’accertamento
della superficie intramuraria, pro capite, calpestabile (peraltro incongruamente
rappresentato come riferito alla superficie della cella), la ricorrente Avvocatura
argomenta che il giudice a quo non si sarebbe attenuto al canone fissato dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo, colla sentenza del 5 marzo 2013, Tellissi,
circa la determinazione dello spazio minimo intramurario da assicurare a ogni
detenuto perché lo stato non incorra nella violazione del divieto dei trattamenti
inumani e degradanti, stabilito dall’articolo 3 CEDU.
E sostiene che lo standard di superficie minima pro capite di tre metri
quadrati, siccome apprezzato dal Giudice europeo, deve «essere conteggiato al
lordo includendo sia la superficie degli arredi che quella» del servizio igienico.
Nel sancire il divieto (della tortura,) delle pene e dei trattamenti inumani o
degradanti, l’articolo 3 della Convenzione cit. non ha tipizzato le condotte
integratrici della violazione del divieto.
Analogamente neppure l’articolo 27, comma 2, della Costituzione, stabilendo
che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dì
umanità», ha stabilito alcuno specifico canone per la determinazione dei
trattamenti vietati.
Con particolare riferimento agli spazi intramurari l’articolo 6
dell’Ordinamento penitenziario prescrive, al comma primo, che «i locali nei quali
si svolge la vita dei detenuti devono essere di ampiezza sufficiente …» e, al
comma secondo, che «i locali destinati al pernottamento consistono in camere
dotate di uno o più posti».

6

sorveglianza).

La corrispondente disposizione dell’articolo 6 del Regolamento penitenziario
non contiene alcuno standard o parametro metrico in ordine alle dimensioni dei
locali destinati al soggiorno dei detenuti e delle celle di pernottamento.
Anche alla luce di criteri elaborati dal Comitato per la prevenzione della
tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti, la giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo, mediante plurimi arresti, ha fissato canoni
particolari in funzione di specifici standard dimensionali in ordine alla superficie
degli spazi intramurari.

o degradante, per essere ristretto in ambienti carcerari di ampiezza così esigua
da non soddisfare i requisiti minimi della abitabilità intramuraria fissati dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo, il giudice del reclamo è chiamato ad accertare
e valutare la condizione di fatto della carcerazione; e tale valutazione è operata
esclusivamente alla stregua dei canoni e degli standard giurisprudenziali, in
difetto di alcuna disposizione normativa e tampoco legislativa o codicistica.
Sicché lo scrutinio compiuto sulla base della regula di giudizio di matrice
giurisprudenziale è sindacabile, sotto il profilo della violazione di legge, in
relazione al vizio della motivazione, ai sensi dell’articolo 71-ter dell’ Ordinamento
penitenziario in relazione all’articolo 125, comma 3, cod. proc. pen., e, cioè,
esclusivamente sotto il profilo della mancanza di motivazione.
Tale vizio è pacificamente fuori discussione nel caso in esame.
Il giudice a quo

ha dato conto adeguatamente – come illustrato nel

paragrafo che precede sub 1. – delle ragioni della propria decisione, sorretta da
motivazione congrua e, pertanto, sottratta a ogni sindacato nella sede del
presente scrutinio di legittimità.
Conclusivamente le censure del ricorrente, non essendo riconducibili né alla
inosservanza, né alla erronea applicazione di alcuna norma di legge, si risolvono
nella proposizione dì motivi non consentiti dalla legge col ricorso per cassazione
avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza e, pertanto, sono
inammissibili ai sensi dell’articolo 606, comma 1, numero 3, cod. proc. pen.

3. Anche il secondo motivo di ricorso, in punto di regolamento delle spese
del procedimento, non è fondato.
Per vero non appare condivisibile l’assunto – posto dal giudice

a quo a

fondamento della declaratoria di non farsi luogo al regolamento della spese inter
partes –

della assimilazione del nuovo procedimento,

di

«reclamo

giurisdizionale», al procedimento di esecuzione.
Innanzi tutto è d’uopo considerare che l’adozione del rito camerale del
procedimento di sorveglianza, a norma degli articoli 678 e 666 cod. proc. pen.,
richiamati dall’articolo 35-bis, comma 1, prima parte, dell’Ordinamento
7

Adito dalla doglianza del detenuto, di sottoposizione a trattamento inumano

penitenziario, di per sé sola non comporta alcun ostacolo di ordine formale per la
condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese processuali a favore
di quella vittoriosa.
La legge stabilisce che la decisione del magistrato di sorveglianza assume la
forma della ordinanza. E, in astratto, tale tipologia di provvedimento può
certamente recare la statuizione di condanna al pagamento delle spese.
Conta, semmai, l’analisi contenutistica del procedimento del reclamo
«giurisdizionale» per la tutela dei diritti soggettivi del detenuto (già enucleabile

nella previgente formulazione, siccome integrata dalla sentenza additiva della
Corte costituzionale n. 26 dell’Il febbraio 1999, e ora compiutamente)
disciplinato dall’articolo 35-bis in relazione all’articolo 68, comma 6, lettera b),
dell’ Ordinamento penitenziario
Si tratta di un vero e proprio giudizio, di carattere contenzioso, vedente
sull’accertamento, in contraddittorio, del «grave e attuale pregiudizio all’esercizio
dei diritti» del detenuto, finalizzato alla adozione del provvedimento riparatorio
del giudice (consistente nell’ ordine di porre rimedio), e imperniato sul
coessenziale antagonismo tra la parte privata reclamante (attrice necessaria ed
esclusiva) e la amministrazione penitenziaria (contraddittore istituzionale),
potenzialmente resistente.
Epperò, a differenza del procedimento di esecuzione, il quale, in linea di
principio, può essere fungibilmente promosso, sullo stesso oggetto, sia dal
Pubblico Mìnistero, sia dal condannato, affatto indifferentemente – l’incidente è
«volto a stabilire, nell’interesse della giustizia, il concreto contenuto
dell’esecuzione» (Sez. 4, n. 1622 del 22/05/1998 – dep. 04/06/1998, PM in proc.
Sciarabba, Rv. 211627) – sicché non è configurabile alcuna soccombenza, la
contraria soluzione si prospetta in relazione al reclamo giurisdizionale in
questione.
Il rilievo non è, tuttavia, decisivo per accreditare la conclusione del
regolamento delle spese

inter partes.

Neppure – al di là della considerazione che trattasi di ius superveniens

giova l’accentuata caratterizzazione, in termini di domanda risarcitoria, impressa
dal legislatore al reclamo giurisdizionale colla introduzione dell’articolo 35-ter
dell’ Ordinamento penitenziario, ai sensi dell’articolo 1, del decreto-legge 26
giugno 2014, n. 92, convertito nella legge 11 agosto 2014, n. 117.
La disposizione prevede, nei casi stabiliti, la liquidazione di una somma, «a
titolo di risarcimento del danno», per ciascuna giornata di detenzione patita in
condizioni «tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’ uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva ai sensi
della legge 4 agosto 1955,n. 848», e/o – sempre «a titolo di risarcimento del
8

nel sostrato normativo dell’ articolo 69, comma 6 dell’Ordinamento penitenziario,

danno»

la riduzione della pena detentiva espianda in ragione di «un giorno per

ogni dieci» giorni della detenzione espiata nelle condizioni de quibus.
La ridetta più recente novella offre, piuttosto, ulteriore argomento a
sostegno della esclusione del regolamento

inter partes

delle spese del

procedimento di reclamo giurisdizionale davanti ai giudici di sorveglianza.
Il legislatore ha dettagliatamente disciplinato il procedimento all’articolo 35bis (e all’articolo 35-ter, commi 1 e 2) dell’Ordinamento penitenziario.
Ha, quindi, attribuito, in sede civile, al tribunale ordinario (in composizione

relativa alla speciale azione risarcitoria, nei casi dì patita custodia cautelare
infungibile e di intervenuta espiazione della pena, disciplinando il relativo
procedimento contenzioso colle forme degli articoli 737 e seguenti del codice di
procedura civile, sicché trovano applicazione le disposizioni degli articoli 91 e
segg. cod. proc. civ. (Sez. 1 Civ., n. 12021 del 01/07/2004, Rv. 573979; cui
adde Sez. 1 Civ., n. 22292 del 21/10/2009, Rv. 609743).
Orbene, la mancata inserzione di alcuna disposizione relativa al regolamento
delle spese inter partes nel procedimento di reclamo giurisdizionale davanti ai
giudici di sorveglianza e, comunque, l’omesso richiamo degli articoli 91 – 97 cod.
proc. civ. – a fronte, peraltro, della attribuzione della medesima azione
risarcitoria alla competenza del giudice civile, nei residui casi previsti – appare,
per vero, espressione della evidente volontà del legislatore di escludere il
regolamento ridetto.
Né giova alla tesi della ricorrente Avvocatura distrettuale dello Stato il
richiamo operato all’arresto, in materia di procedimento incidentale di
liquidazione del compenso del custode, sulla opposizione della parte interessata
(Sez. 4, n. 2489 del 30/06/1995 – dep. 27/07/1995, Ministero del Tesoro in proc.
Pisanelli, Rv. 202335). Il precedente è, oltretutto, inattuale. L’articolo 695 cod.
proc. pen. che disponeva: «Sulle questioni concernenti le materie previste nel
presente titolo [spese dei procedimenti penali] decide il giudice della esecuzione,
che provvede con le forme indicate nell’articolo 666» cod. proc. pen.», è stato
abrogato dall’articolo 299, comma 1, del Testo Unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con d.P.R. 30 maggio
2002, n. 115. Il procedimento de quo è attualmente regolato dall’articolo 170 del
Testo Unico cit., che richiama l’articolo 29 della legge 13 giugno 1942, n. 794.
Comunque la giurisprudenza di legittimità (con la pronuncia citata dalla
Avvocatura erariale) era pervenuta alla conclusione che la fase contenziosa del
procedimento in parola dovesse essere disciplinata, in carenza di specifiche
disposizioni, dalle «norme […] del codice di procedura civile». E tale non è il
caso del reclamo giurisdizionale davanti ai giudici della sorveglianza.

9

(49,

monocratica) del capoluogo del distretto di residenza dell’attore la competenza

La conclusione raggiunta, infine, si armonizza perfettamente colla tipologia
del procedimento di sorveglianza cui, in linea di principio, è affatto estraneo il
regolamento delle spese inter partes.
Esattamente, pertanto, il giudice a quo ha deliberato: «Nulla per le spese».

P.

Q.

M.

Così deciso, il 12 dicembre 2014.

rigetta il ricorso.

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