Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5693 del 05/11/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 5693 Anno 2015
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: NOVIK ADET TONI

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
LICATA TISO ANGELO N. IL 20/04/1973
avverso l’ordinanza n. 3923/2013 TRIB. SORVEGLIANZA di
PALERMO, del 12/11/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ADET TONI NOVIK;
lette/se tthe le conclusioni del PG Dott. 4 2 j-zo,

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e/U.

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Uditi difensor Avv.;

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Data Udienza: 05/11/2014

RILEVATO IN FATTO
1. Con ordinanza emessa il 12 novembre 2013, il Tribunale di sorveglianza
di Palermo rigettava l’appello presentato da Tiso Angelo Licata avverso il
provvedimento del 28/6/2013 del magistrato di sorveglianza di Agrigento che
aveva dichiarato il condannato delinquente abituale ed applicato la misura di
sicurezza della casa di lavoro per anni due.
2.

Il tribunale di sorveglianza ripercorreva la storia giudiziaria del

condannato, gravato da numerosi precedenti per gravi reati commessi tra il 1991

flagranza, la frequentazione di pregiudicati e l’assenza di lavoro. Riteneva quindi
il provvedimento legittimamente adottato sulla base dell’articolo 103 cod. pen. e
utilizzabili ai fini del giudizio di pericolosità sociale anche i dati probatori non
accertati in via giurisdizionale. Concludeva che sulla base del

curriculum

delinquenziale e dello stile di vita Licata era persona dedita al delitto. Non era
ostativa alla declaratoria la circostanza che egli fosse allo stato detenuto, né essa
si poneva in contrasto con il processo rieducativo della pena. La misura detentiva
applicata era espressamente prevista dalla legge.
3.

Avverso questa ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il

condannato, a mezzo del difensore di fiducia, per violazione di legge e carenza di
motivazione. In particolare, ad avviso della parte il giudizio sulla concreta ed
attuale pericolosità sociale del prevenuto doveva essere compiuta in data
ragionevolmente prossima a quella in cui doveva ricevere esecuzione, onde
evitare che fosse eseguita in assenza di una operante offensività sociale. Il
giudizio da rendere doveva essere compiuto in concreto e non poteva risolversi
in una enunciazione astratta, ben potendo il prevenuto non risultare più
pericoloso al momento del suo fine pena. L’applicazione della misura di sicurezza
nei confronti di un soggetto che in carcere aveva iniziato un percorso di recupero
e rieducazione si rivelava deleteria ai fini trattamentali e rieducativi. Dagli atti
emergeva che il condannato durante l’espiazione della pena aveva dimostrato
correttezza comportamentale e adesione al trattamento di rieducazione.
Appariva quindi arbitrario il giudizio del perdurante inserimento malavitoso del
prevenuto, contraddetto dalla produzione documentale che attestava che gli
prestava attività lavorativa come venditore ambulante.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte nella sua articolata
requisitoria scritta ha chiesto che il ricorso venga respinto.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e va respinto. Secondo l’orientamento costante
espresso da questa Corte, cui il Collegio aderisce, in materia di misure di
1

del 2008, le misure cautelari applicate, le misure di prevenzione, gli arresti in

prevenzione personali, occorre distinguere tra “momento deliberativo e momento
esecutivo” della misura dal momento che l’incompatibilità di questa con lo stato
di detenzione del proposto attiene unicamente alla esecuzione della misura
stessa. Per l’effetto, si è affermato, la misura può avere inizio solo quando venga
a cessare lo stato di detenzione, ferma restando la possibilità per il soggetto di
chiederne la revoca, per l’eventuale venire meno della pericolosità in
conseguenza dell’incidenza positiva sulla sua personalità della funzione
risocializzante della pena (vedi per tutte Sez. Un. n. 6 del 25/03/1993, dep.

2. Tali principi per l’identità di ragione sono applicabili alle misure di
sicurezza personali e trovano puntuale base normativa nel disposto dell’art. 205
cod. pen., che espressamente prevede al primo comma che le misure di
sicurezza sono ordinate dallo stesso giudice che ha emesso la sentenza di
condanna o di proscioglimento contestualmente alla stessa, e prevede al
secondo comma, n. 3, che le misure possono essere ordinate con provvedimento
successivo in ogni tempo nei casi stabiliti dalla legge, tra i quali rientra il caso
delle misure applicate quando interviene la dichiarazione di abitualità nel reato ai
sensi dell’art. 109, comma 1, cod. pen.. Esse quindi possono essere applicate
anche nei confronti di persona detenuta, trovando l’esigenza di risocializzazione
compiuta tutela nella previsione della rivalutabilità della pericolosità sociale, che
costituisce il presupposto dell’applicazione della misura di sicurezza, in sede di
revoca della misura ai sensi dell’art. 207 cod. pen. e di riesame della pericolosità
ai sensi dell’art. 208 cod. pen..
3. Quanto al preteso deficit motivazionale, va rilevato che secondo la
costante giurisprudenza di legittimità “in tema di dichiarazione di abitualità nel
reato, la omogeneità della natura dei reati commessi, unitamente alla
reiterazione della condotta commessa in tempi ravvicinati, può costituire
elemento decisivo per essa dichiarazione e, perciò, la abitualità può essere
desunta dai soli precedenti penali, tali da rilevare, in riferimento alle circostanze
previste dall’art. 133 cod. pen., il motivo a delinquere, il carattere e la
personalità del reo. Infatti, gli elementi indicati dalla norma su richiamata sono
sufficienti da soli ad evidenziare fino a che punto la tendenza criminosa
manifestata nello specifico delitto sia radicata nella personalità del soggetto,
mostrandone la capacità a delinquere e cioè l’attitudine nel reato commesso”. La
Corte di merito con motivazione congrua e logica ha preso in esame il percorso
criminale del condannato, la pluralità dei reati commessi in un notevole arco
temporale, i precedenti di polizia degli arresti in flagranza, anche in epoca
recente. La valutazione compiuta è corretta e non merita censura, essendo la
verifica della Corte di Cassazione diretta ad accertare che la motivazione della
2

14/07/1993, Tumminelli, Rv. 194063; Sez. 1, Sentenza n. 2698 del 2011) .

pronunzia: a) sia “effettiva” e non meramente apparente, ossia realmente
idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della
decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti
sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti
errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente
contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue
diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d)
non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in

per Cassazione), tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il
profilo logico.
Alla stregua di queste considerazioni il ricorso va respinto.
P.Q. M

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, il 5 novembre 2014.

termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso

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