Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 567 del 17/11/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 567 Anno 2016
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: SCALIA LAURA

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Marafioti Antonio Pasquale, nato a Seminare (RC) il 09/04/1950
avverso il decreto del 06/02/2015 della Corte di appello di Reggio Calabria
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione volta dal consigliere Laura Scalia;

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én Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore generale Aldo Policastro, che ha

concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con decreto emesso in data 6 febbraio 2015, la Corte territoriale di Reggio Calabria,
Sezione misure di prevenzione, ha rigettato l’appello proposto da Antonio Pasquale Marafioti
avverso il decreto del 30 aprile 2014 con cui il Tribunale di Reggio Calabria aveva respinto
l’istanza di revoca della misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza applicata al
primo per la durata di quattro anni, con decreto del 15 novembre 2010.
La Corte di Appello, nel pronunciarsi dopo l’intervenuta l’espiazione della pena irrogata al
Marafioti, giusta intervenuta condanna irrevocabile, nella misura di sei anni e sei mesi di
reclusione, nel giudizio penale celebrato a carico del proposto per il reato associativo di cui
all’art. 416-bis cod. pen., ha confermato il giudizio espresso dal Tribunale.

Data Udienza: 17/11/2015

,

La Corte ha invero ritenuto che l’appartenenza a consorteria mafiosa comporti un vincolo a
carattere tendenzialmente permanente e ha escluso, su siffatta premessa, l’esistenza di
elementi che potessero far ritenere che il Marafioti avesse reciso, secondo condotta
socialmente significativa, ogni legame con la cosca di appartenenza.
I Giudici di Appello hanno a tal fine evidenziato, nei passaggi più significativi dell’adottato
provvedimento, il ruolo non esecutivo avuto nell’ambito dell’associazione dal proposto — il
quale eletto Sindaco avrebbe assegnato, in esecuzione di preventivi accordi ed a soggetti

quindi l’irrilevanza della mancanza di rilievi disciplinari nel periodo di detenzione inframuraria
o, ancora, della circostanza che il proposto si fosse attenuto, durante gli arresti domiciliari, alle
prescrizioni imposte.

2. Avverso l’indicato decreto propone ricorso per cassazione il difensore del Marafioti che
con un unico ed articolato motivo fa valere vizi di motivazione e violazione di legge (art. 606,
comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen.).
Il difensore lamenta come la Corte territoriale, nel rivalutare la pericolosità sociale del
Marafioti, non abbia osservato, in tal modo giungendo a spendere una motivazione meramente
apparente, il disposto conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale adottata, giusta
sentenza n. 291 del 2013, dal Giudice delle leggi.
La Corte costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità dell’art. 12 della legge n. 1423 del
1956 e dell’art. 15 del d.lgs. n. 159 del 2011, avrebbe infatti ritenuto, deduce il ricorrente, che
nel caso di sospensione di una misura di prevenzione personale a causa di uno stato detentivo
sofferto in espiazione di pena definitiva, l’organo che ha adottato il provvedimento di
prevenzione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale
dell’interessato al momento di esecuzione della misura.
La difesa vuole in tal modo denunciare come la Corte di Appello avrebbe dovuto motivare
adeguatamente sull’attualità della pericolosità sociale, atteso che la carcerazione sofferta non
consentirebbe alcuna presunzione sulla perdurante pericolosità sociale del soggetto e sul suo
radicamento nel contesto delinquenziale d’origine.
Il quadro presuntivo sarebbe stato invero, nella sua originaria perspicuità, alleggerito
dall’osservanza delle prescrizioni da parte del proposto durante la misura degli arresti
domiciliari pure sofferta e dalla mancata frequentazione di pregiudicati di notevole spessore
criminale.

3. Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha fatto pervenire memoria in cui
ha concluso per il rigetto dell’istanza di revoca, in via subordinata insistendo poi perché la
questione posta dal ricorrente venisse rimessa alle Sezioni Unite di questa Corte dopo aver, il
primo, evidenziato l’esistenza di un contrasto tra le Sezioni semplici sui presupposti di
applicabilità della misura.
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appartenenti a famiglia di estrazione mafiosa, le cariche amministrative più significative — e

Questi ultimi, rileva l’Ufficio della Procura generale, sarebbero stati invero ritenuti
consistere:
— ora, in una rinnovata, rigorosa e completa valutazione, come tale prescindente dalla
richiesta dì revoca del prevenuto, in tutto analoga a quella originaria;
— ora, in una conferma dell’iniziale provvedimento applicativo della misura di prevenzione,
esito accertativo raggiungibile, ove sì tratti di appartenenza ad associazioni mafiose — esclusa
l’idoneità della carcerazione medio tempore

intervenuta —, in caso dì effettivo recesso del

RITENUTO IN DIRITTO

1. Nel procedimento di prevenzione, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per
violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato
dall’art. 3—ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575, ne consegue che, in tema di
sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità
l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., potendosi
esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di
provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma del predetto
art. 4 legge n.1423 del 56, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (Sez. U,
n. 33451 del 29/05/2014, Repaci).
Per l’indicato principio di diritto, il sindacato che la Corte è chiamata a condurre rinviene
proprio contenuto e cornice di definizione nell’ambito di quella figura sintomatica della
violazione di legge rappresentata dalla motivazione inesistente o apparente.
Quest’ultima — esclusa peraltro l’ammissibilità per genericità dei contenuti ad ogni altro
rilievo formulato dal ricorrente quanto alle previsioni di cui all’art. 606, comma 1, lett. e) cod.
proc. pen. in relazione alla legge n. 575 del 1965 — resta, come tale, non identificabile nella
mera svalutazione di argomenti difensivi che abbiano invece trovato considerazione da parte
del giudice o che comunque risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del
provvedimento impugnato.
L’indicato principio, espressivo di una precisa regola di giudizio alla cui formulazione la
Corte è chiamata, per il proposto ricorso deve trovare applicazione all’interno di una
sostanziale verifica in ordine alla persistenza della pericolosità sociale di un determinato
soggetto allorché si registri — per essere l’interessato in stato di detenzione per espiazione
pena — uno iato temporale tra il momento in cui sia stata deliberata ed il momento in cui
venga data esecuzione ad una misura di prevenzione personale.
Il tema all’esame della Corte diviene quindi, per i riportati contenuti, quello della
persistenza nel tempo della pericolosità sociale di un soggetto, pericolosità che, accertata
giudizialmente in un momento anteriore, resta affidata, quanto alla sua permanenza, ad un
giudizio basato su presunzioni.
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proposto.

L’argomentare per presunzioni ha trovato definizione, in materia, per lo scrutinio di
legittimità operato dalla Corte costituzionale con la sentenza del 6 dicembre 2013, n. 291 che
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423
(Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica
moralità) e dell’art. 15 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle
misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a
norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), in cui la precedente disposizione

Per l’indicata pronuncia si è infatti previsto che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura
di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena
della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione
debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza delta pericolosità sociale dell’interessato nel
momento dell’esecuzione della misura.
Il Giudice delle leggi ha pertanto escluso che per le misure di prevenzione il giudizio di
pericolosità del soggetto proposto sia affidato ad una presunzione iuris tantum — meccanismo
per il quale è sufficiente che la verifica di pericolosità venga operata nella originaria fase
applicativa, salvo vittoriosa contestazione da parte dell’interessato — , restando invece quel
giudizio imposto al decidente anche d’ufficio, in ragione del necessario contemperamento con
le esigenze di risocializzazione proprie del trattamento detentivo (art. 27 Cost.).
Giusta l’indicata lettura della norma, che consegue all’operatone scrutinio di legittimità
costituzionale — laddove, come accade per l’ipotesi dedotta dal ricorrente, l’interessato abbia
assunto, giusta la proposta istanza di revoca, l’iniziativa diretta a contrastare la verifica
operata in punto di pericolosità in fase applicativa della misura —, l’ accertamento rimesso al
Giudice chiamato a pronunciarsi sulla revoca della misura di prevenzione deve confrontarsi con
I contenuti della novellata disposizione nel rispetto dei diversi, e più generali, canoni di
motivazione.
Per questi ultimi, diretti a dar conto del percorso logico osservato, la lettura della norma
deve spingersi, al fine di tradursi in vizio di legge, sino ad integrare le figure della motivazione
inesistente o apparente.

1.2. La Corte di Appello di Reggio Calabria, per il decreto oggetto del proposto ricorso, ha
congruamente motivato sull’attualità della pericolosità del Marafioti dall’ appartenenza del
proposto ad un’associazione di tipo mafioso e dagli effetti che alla natura di detto vincolo si
accompagnano, effetti congruamente individuati dalla Corte territoriale nel dato di comune
esperienza per il quale, chi entra a far parte di una siffatta associazione normalmente non
spezza il vincolo se non in seguito a chiare scelte di vita, esteriormente riscontrabili.
Siffatta lettura, operata nell’osservanza di un percorso rispettoso del richiesto nuovo
accertamento sull’estremo della pericolosità, non può qualificarsi come viziata da carenza o
apparenza di motivazione.
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è stata trasfusa senza significative variazioni.

La stessa risulta invece adeguata e conforme alla più rigorosa giurisprudenza di questa
Corte, per la quale il giudizio di pericolosità sociale finalizzato all’applicazione di una misura di
prevenzione nei confronti di un indiziato di appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso,
che si trovi da lungo tempo in stato di detenzione carceraria, risulta soddisfatto, nei richiesti
requisiti di rigore, ove consegnato all’accertamento di appartenenza contenuto in un
provvedimento a cognizione piena ed al difetto di elementi dimostrativi dello scioglimento del
legame associativo.

anche ove protrattasi nel tempo, costituire una causa di recesso dal patto criminoso (Sez. 6, n.
36081 del 21/08/2014, De Castro).
Secondo quanto la Corte ha avuto occasione di affermare, il requisito dell’attualità della
pericolosità sociale impone, quanto meno, che non sussistano elementi dai quali possa
ragionevolmente desumersi che l’inserimento nell’organizzazione sia venuto meno (Sez. 1, n.
44327 del 18/07/2013, Gabriele, Rv. 257637), laddove poi i diversi livelli di adesione e di
partecipazione si riverberano sulla individuazione stessa degli elementi in concreto sufficienti a
desumere il successivo allontanamento dall’organizzazione (Sez. 1, n. 17932, 10/03/2010, De
Carlo, Rv. 247053).
La motivazione spesa dalla Corte di Appello rispetta il riportato principio, argomentando
quei Giudici, nello spendere un nuovo giudizio sulla pericolosità, dalla presunzione di
permanente appartenenza alla consorteria mafiosa del proposto, pur essendo intervenuta
carcerazione, riscontrando nelle posizioni del proposto la mancanza di un atto manifesto,
socialmente apprezzabile, di recesso, nell’acuita necessità di una siffatta dimostrazione dettata
dal rilevante ruolo rivestito dal proposto — che si è candidato Sindaco in una lista costituita in
seguito ad accordo intervenuto con la famiglia mafiosa di riferimento — all’interno
dell’associazione.
Né può reputarsi contrastare con l’indicato principio, quanto in altre occasioni ritenuto
dalla Corte che, valorizzando la pronuncia del Giudice delle leggi n. 291 del 2013, si è trovata
ad esprimere un giudizio sulla necessità, perché il proposto incorra nei delitti di violazione degli
obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, di cui all’ art. 9, comma 2, legge n. 1423 del 1956
ed all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, che venga espresso un nuovo pieno giudizio
sulla pericolosità del soggetto rispetto al quale quindi, una volta intervenuta la scarcerazione,
non riprende vigore, per una sorta di automatismo e senza sospensione alcuna, l’iniziale
misura (Sez. 1, n. 26821 del 20/06/2014, Cirillo; Id., n. 6878 del 05/12/2014, Villani).
Nella vicenda all’esame della Corte di Appello di Reggio Calabria, per il profilo oggetto di
ricorso, non si registra alcun operato automatismo in sede di applicazione della misura, certo
essendo che il Tribunale di Reggio Calabria, per il decreto oggetto di appello e quindi
dell’odierno ricorso, si sia espresso sulla permanente attualità della pericolosità del proposto.
Il Marafioti non è stato pertanto assoggettato alla sorveglianza speciale per la sola
circostanza dell’ intervenuta espiazione della pena, ma solo all’esito di un formulato nuovo
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X

Non può infatti la detenzione, come ritenuto dalla Corte di Appello di Reggio Calabria,

giudizio sulla pericolosità e tanto vale ad escludere ogni dedotta violazione di legge e, per la
stessa, della motivazione di sostegno dell’adottato decreto impositivo della misura della
sorveglianza speciale.

2. Va pertanto dichiarata l’inammissibilità del ricorso cui segue la condanna del ricorrente,
insieme al pagamento delle spese processuali, della somma, equitativamente quantificata, di

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
e della somma di C 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 17 novembre 2015

euro 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.

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