Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5641 del 14/01/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 5641 Anno 2014
Presidente: CASUCCI GIULIANO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 14/01/2014

SENTENZA
Sul ricorso proposto nell’interesse di CERVO Vincenzo, n. a Napoli il
08.10.1987, attualmente detenuto per questa causa, rappresentato
ed assistito dall’avv. Francesco Liguori, avverso la sentenza n.
9128/2012 pronunciata dalla Corte d’Appello di Napoli in data
24.01.2013;
rilevata la regolarità degli avvisi di rito;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del sostituto procuratore generale dott. Paolo
Canevelli che ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza
impugnata limitatamente alla circostanza di cui all’art. 7 I. 203/1991
e rigetto nel resto;
sentito il difensore delle parti civili “Pomigliano per la legalità”,
Coordinamento Napoletano delle Associazioni Antiracket e Sposito

1

Giuseppe avv. Giovanni Cantelli, comparso in sostituzione dell’avv.
Francesco Pizzuto, che ha concluso chiedendo, per ciascuna parte
civile rappresentata, di confermare la sentenza di secondo grado con
la dichiarazione di penale responsabilità dell’imputato nonché la
condanna dello stesso alle pene di legge, con conferma altresì di tutti
i capi della sentenza riguardanti il risarcimento del danno non
patrimoniale ex artt 1226, 2059 cod. civ. e 185 cod. pen., derivato

dai reati commessi dall’imputato e condanna di quest’ultimo alla
rifusione delle spese, pari ad euro 4.794,75 oltre IVA e CPA a favore
di ciascuna parte civile.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 24.1.2013, la Corte d’Appello di Napoli
confermava la condanna alla pena di anni quattro di reclusione ed
euro 2.000,00 di multa inflitta a seguito di giudizio abbreviato a
CERVO Vincenzo con sentenza del Giudice per le indagini
preliminari presso il Tribunale di Napoli in quanto ritenuto
responsabile del reato di cui agli artt. 110, 81 cpv., 56, 629 cpv. in
relazione all’art. 628, commi 1 e 3 n. 1 cod. pen., 7 L. 203/1991 ai
danni di Montano Pasquale.
2. Avverso tale sentenza veniva proposto il presente ricorso per
cassazione per chiedere l’annullamento del provvedimento
impugnato per inosservanza od erronea applicazione della legge
penale e per illogicità della motivazione.
Nei propri motivi di doglianza il ricorrente evidenzia come:
-i giudici di secondo grado si siano accontentati, ai fini
dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, del
riconoscimento operato, senza alcuna certezza, da una sola
persona offesa;
-non sia stata mai formulata alla persona offesa alcuna richiesta
esplicita di denaro, circostanza che avrebbe dovuto indurre a
riconoscere come si fosse in presenza di atti preparatori ovvero di
altre figure di reato (minaccia o illecita concorrenza con minaccia o
violenza);
-non vi fosse alcun elemento dal quale dedurre o, quantomeno
sospettare, che i due soggetti che nella seconda occasione

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avanzarono una richiesta estorsiva fossero in qualche modo
collegati al CERVO;
– era stata inopinatamente esclusa l’ipotesi di cui all’art. 56, comma
3 cod. pen. dovendosi tener conto come l’imputato si fosse
presentato una sola volta al cospetto degli operai che si trovavano
in cantiere senza mai fare esplicite e chiare richieste estorsive;
– il riconoscimento del vincolo della continuazione tra le varie

condotte estorsive fosse stato improprio avendo il CERVO, in ogni
caso, compiuto un solo accesso in cantiere;
-del tutto impropriamente fosse stata riconosciuta l’esistenza della
circostanza aggravante di cui all’art. 7 I. 203/1991 dal momento
che la minaccia, anche se reiterata, è uno degli elementi
indispensabili per l’esatta configurazione del delitto di estorsione e,
conseguentemente, non poteva ravvisarsi nella condotta tenuta dal
CERVO quel quid pluris per ritenere la sussistenza della predetta
aggravante: e questo, a maggior ragione, considerando come i
soggetti che si presentarono nel cantiere non erano neppure armati
né ebbero a porre azioni particolarmente violente o indicative di
modalità tipiche della associazioni camorristiche né poteva
considerarsi sufficiente – sempre ai fini del riconoscimento della
mafiosità del metodo – la mera reazione delle vittime ad una frase
(l’invito alle persone offese a mettersi a posto con gli amici di
Casoria) resa senza ulteriori specificazioni e, come tale, inidonea a
creare una condizione di assoggettamento ed omertà;
– la motivazione fosse in ogni caso carente poiché, nonostante
l’avvenuta contestazione dell’aggravante in relazione ad entrambe
le ipotesi previste dalla norma, la sentenza non chiariva quale fosse
il clan favorito e non spiegava le ragioni del mancato
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3.

Il ricorso è infondato e, come tale, va rigettato.

4.

E’ necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di
legittimità, delineati dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc.
pen., come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n.
46 del 2006, che, a parere di questo Collegio, la predetta novella

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non ha comportato la possibilità, per il giudice della legittimità, di
effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione
finalizzata a sovrapporre una propria valutazione a quella già
effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità
limitarsi a verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il
giudice di merito si è avvalso per sottolineare il suo convincimento.
La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni

processuali può, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di
ricorso qualora comporti il c.d. travisamento della prova, purché
siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si
pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta
adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da
rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da
parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione
od un esame parcellizzato.
L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, poi, deve
risultare di spessore tale da risultare percepibile

ictu ocu/i,

dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a
rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime
incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che,
anche se non espressamente confutate, siano logicamente
incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in
modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi
giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere
tuttora condivise, Cass. pen., Sez. un. n. 24 del 24/11/1999,
Spina, rv. 214794; Id., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, rv. 216260;
Id., n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, rv. 226074).
A tal riguardo, devono tuttora escludersi la possibilità di «un’analisi
orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli
atti, nonché i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire
risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi» (così
Cass., Sez. 6, n. 14624 del 20/03/2006, Vecchio, rv. 233621;
conforme, Cass., Sez. 2, n. 18163 del 22/04/2008, Ferdico, rv.
239789), e la possibilità per il giudice di legittimità di una rilettura
degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o
l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti (Cass., Sez. 6, n. 27429 del 04/07/2006,

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Lobriglio, rv. 234559; Id., n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, rv.
253099).
Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell’art.
606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. intenda far valere il vizio di
«travisamento della prova» (consistente nell’utilizzazione di
un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di
una prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio,

travisato od omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito
dell’apparato motivazionale sottoposto a critica) deve, inoltre, a
pena di inammissibilità (Cass., Sez. 1, n. 20344 del 18/05/2006,
Salaj, rv. 234115; Cass., Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010,
Damiano, rv. 249035):
(a)

identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda la
doglianza;

(b)

individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto
emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la
ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;

(c)

dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato
probatorio invocato, nonché dell’effettiva esistenza dell’atto
processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori
ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento;

(d)

indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e
compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera
coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale
“incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del
provvedimento impugnato.
Il giudice di legittimità ha, ai sensi del novellato art. 606 cod.
proc. pen., il compito di accertare (Cass., Sez. 6, n. 35964 del
28/09/2006, Foschini ed altro, rv. 234622; Cass., Sez. 3, n.
39729 del 18/06/2009, Belloccia ed altro, rv. 244623; Cass., Sez.
5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola ed altri, rv. 238215; Cass.,
Sez. 2, n. 18163 del 22/04/2008, Ferdico, rv. 239789):
(i)

il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi
sopra individuati);

(ii)

la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve
essere tale da disarticolare l’intero ragionamento del

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giudicante o da determinare almeno una complessiva
incongruità della motivazione);
(iii)

l’esistenza di una radicale incompatibilità con

l’iter

motivazionale seguito dal giudice di merito e non di un
semplice contrasto (non essendo il giudice di legittimità
obbligato a prendere visione degli atti processuali anche se
specificamente indicati, ove non risulti detto requisito);
la sussistenza di una prova omessa o inventata, e del c.d.

(iv)

«travisamento del fatto», ma solo qualora la difformità
della realtà storica sia evidente, manifesta, apprezzabile
ictu °cui/ ed assuma anche carattere decisivo in una
valutazione globale di tutti gli elementi probatori esaminati
dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non
sindacabile in sede di legittimità se non manifestamente
illogico quindi, anche contraddittorio).
5. Anche il giudice d’appello non è tenuto a rispondere a tutte le
argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacché le stesse possono
essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter
motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione
effettuata (per tutte, Cass., Sez. 6, n. 1307 del 26/09/2002-dep.
14/01/2003, Delvai, rv. 223061).
In presenza di una doppia conforma affermazione di responsabilità,
va, peraltro, ritenuta l’ammissibilità della motivazione della
sentenza d’appello

per relationem

a quella della decisione

impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di
primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da
quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello,
nell’effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su
cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare
questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di
gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con
argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non
specificamente e criticamente censurate. In tal caso, infatti, le
motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi,
si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed
inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per
giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici

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dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a
quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti
alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della
decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di
merito costituiscano una sola entità (Cass., Sez. 2, n. 1309 del
22/11/1993- dep. 04/02/1994, Albergamo ed altri, rv. 197250;
Cass., Sez. 3, n. 13926 del 10/12/2011-dep. 12/04/2012, Valerio,

rv. 252615).
Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione
«oltre ogni ragionevole dubbio», presente nel testo novellato
dell’art. 533 cod. proc. pen. quale parametro cui conformare la
valutazione inerente all’affermazione di responsabilità
dell’imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell’icastica
espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono
fondamento il principio costituzionale della presunzione di
innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è
permeato il nostro sistema processuale. Si è, in proposito,
esattamente osservato che detta espressione ha una funzione
meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza,
il «ragionevole dubbio» sulla colpevolezza dell’imputato ne
comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’art. 530,
comma 2, cod. proc. pen., sicché non si è in presenza di un diverso
e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello
precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il
principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento
costituzionale ed ordinario (tanto da essere già stata adoperata
dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema – per tutte, cfr.
Cass., Sez. un., n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, rv. 222139 -,
e solo successivamente recepita nel testo novellato dell’art. 533
cod. proc. pen.), secondo cui la condanna è possibile soltanto
quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità
dell’imputato (cfr. Cass., Sez. 2, n. 19575 del 21/04/2006, Serino
ed altro, rv. 233785; Id., n. 16357 del 02/04/2008, Crisiglione, rv.
23979; Id., n. 7035 del 09/11/2012-dep. 13/02/2013, De
Bartolomei ed altro, rv. 254025).
6. Alla luce di queste necessarie premesse va esaminato l’odierno
ricorso come si sia in presenza di una sentenza di secondo grado

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confermativa della pronuncia di condanna emessa in primo grado
(cd. “doppia conforme”).
Orbene, come si è precedentemente affermato, quando le sentenze
di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione
degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive
decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello può
saldarsi con quella precedente per formare un unico complesso

corpo argomentativo, sicché risulta possibile, sulla base della
motivazione della sentenza di primo grado, colmare eventuali
lacune della sentenza di appello. È stato però più volte ribadito da
questa Corte che manca di motivazione la sentenza d’appello che nell’ipotesi in cui le soluzioni adottate dal giudice di primo grado
siano state specificamente censurate dall’appellante – si limiti a
riprodurre la decisione del primo giudice, aggiungendo la propria
adesione in termini apodittici e stereotipati, senza dare conto degli
specifici motivi d’impugnazione e senza argomentare
sull’inconsistenza o non pertinenza degli stessi (cfr. Cass., Sez. 6,
n. 6221 del 20/04/2005-dep. 16/02/2006, Aglieri ed altri, rv.
233082; Id. n. 12540 del 12/10/2000-dep. 01/12/2000, Prescia,
rv. 218172): in tal caso non può certamente parlarsi di
motivazione

“per relationem”, bensì di elusione dell’obbligo di

motivare, previsto a pena di nullità dall’art. 125, comma 3 cod.
proc. pen. e direttamente imposto dall’art. 111 Cost., comma 6,
che fonda l’essenza della giurisdizione e della sua legittimazione
sull’obbligo di “rendere ragione” della decisione, ossia sulla natura
cognitiva e non potestativa del giudizio. Ritiene il Collegio che viola
ancora più gravemente tale obbligo, e perciò è nulla per mancanza
di motivazione, la sentenza d’appello che si limiti a copiare la
decisione di primo grado, così vanificando del tutto il senso e lo
scopo dell’atto di impugnazione e del secondo grado di giudizio,
che si trasforma in uno spreco di tempo e di risorse e in una
apparente e fittizia garanzia per l’imputato (Cass., Sez. 6, n. 12148
del 12/02/2009-dep. 19/03/2009, Giustino, rv. 242811).
7. Fermo quanto precede, rileva il Collegio come la sentenza
impugnata, dopo aver operato un corretto richiamo

“per

relationem”, motivi congruamente in ordine alla ricostruzione degli

accadimenti, all’individuazione del CERVO quale autore delle

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condotte in contestazione e delle relative responsabilità, alla
qualificazione giuridica dei fatti, alla determinazione della pena, al
mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche,
dando specifica contezza alle doglianze dell’appellante. In
particolare, in ordine all’avvenuto riconoscimento solo in fotografia
del CERVO da parte della persona offesa che aveva effettuato con
esito negativo un primo atto d’individuazione, la Corte d’Appello ha

ritenuto come l’identificazione potesse ritenersi come sicura, sia
perché effettuata in termini di certezza sia perché la stessa persona
offesa aveva ammesso di aver mentito nel precedente atto di
individuazione per timore di ritorsioni essendo emerso come fosse
rimasto fortemente traumatizzato da analogo episodio estorsivo
verificatosi qualche tempo prima in diversa zona, vicenda in cui vi
era stata anche l’esplosione di colpi di arma da fuoco. A questo
andava aggiunto, sempre secondo la completa ricostruzione
operata dai giudici di seconde cure, che il giorno dopo l’episodio, il
CERVO – che, in entrambi i casi, indossava un cappellino con
visiera recante il marchio Gucci stampato sull’intero tessuto,
precisamente descritto dalla persona offesa – fu nuovamente visto
sul cantiere e riconosciuto dalla polizia giudiziaria appostata,
essendosi il predetto dato alla fuga; che la circostanza di come il
CERVO avesse un fratello gemello, fosse circostanza non valutabile
in quanto irritualmente e marginalmente dedotta solo con l’atto di
gravame. In relazione all’invocata desistenza – evidenzia la Corte
d’Appello – come il succedersi degli eventi non avesse dato conto
del sostenuto abbandono del fine criminoso, atteso che dopo circa
quindici giorni dalla seconda presenza del CERVO sul cantiere si
ebbe l’ulteriore intimidazione, realizzata dai due complici rimasti
non identificati, essendo le espressioni utilizzate dagli stessi
chiaramente riferite alla precedente richiesta di cui erano palese
reiterazione, mentre dopo circa ulteriori quindici giorni il CERVO
venne tratto in arresto. Con riferimento alle singole condotte di
minaccia – evidenzia sempre la Corte d’Appello – le medesime non
potevano essere considerate come un’unica azione: invero, per la
diversità degli autori, per la distanza temporale e per la
compiutezza della minaccia in ciascuna occasione profferita, i
singoli episodi contestati apparivano dotati di una propria completa

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individualità e, come tali, costituenti distinti ed autonomi tentativi
di reato, sia pure unificati dal vincolo della continuazione. Con
riferimento all’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”
prevista dall’art. 7 D.L. 13.05.1991, n. 152, conv. in L.
12.07.1991, n. 203, la Corte d’Appello, dopo aver rilevato come,
per la sua configurabilità, non fosse necessario che venisse
contestata o dimostrata l’esistenza di un’associazione per

delinquere, essendo invece sufficiente che la violenza o la minaccia
assumano veste tipicamente mafiosa, riconosceva e giustificava la
modalità camorristica della condotta – apertamente portatrice di
una coartazione qualificata – realizzata attraverso il richiamo al
sodalizio di riferimento ed accompagnata dall’intimazione di
presentarsi al cospetto dei capi dello stesso; inoltre, lo stato di
intimidazione del soggetto che ebbe a ricevere le minacce, ben si
era evinto dalla sua ritrosia ad effettuare il riconoscimento degli
autori. Con riferimento infine al mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche, la Corte d’Appello motivava il
diniego come le modalità delle condotte, lo specifico atteggiamento
del CERVO che minacciò di morte la vittima, il comportamento
processuale tenuto, le recenti condanne per i delitti di rapina,
lesione personale e porto d’armi, inducevano ad una valutazione
assolutamente negativa della personalità del soggetto costituivano
circostanze di fatto tali da non giustificare in alcun modo
trattamenti premiali di riduzione di pena.
8. Alla pronuncia di rigetto del ricorso consegue, per il disposto
dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione in favore
delle costituite parti civili Pomigliano per la legalità, Coordinamento
Napoletano delle Associazioni Antiracket e Sposito Giuseppe delle
spese sostenute nel presente grado di giudizio che si liquidano in
complessivi euro 6.000,00 (euro 4.000,00 con aumento di euro
2.000,00 per la pluridifesa) oltre IVA e CPA. In proposito, ritiene il
Collegio, in ossequio a precedente di codesta sezione (Cass., Sez.
2, n. 43143 del 17/07/2013-dep.22/10/2013, Saracino), che le
spese debbano essere liquidate secondo i nuovi parametri introdotti
dal d.m. 20 luglio 2012, n. 140: invero, come chiarito sempre dalla
Suprema Corte (Sez. un. civ., sentenza n. 17405 del 2012), in

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tema di spese processuali, agli effetti dell’art. 41 del d.m. 20 luglio
2012, n. 140, il quale ha dato attuazione all’art. 9, secondo
comma, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24
marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere
commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate
tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la
liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla

data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al
compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non
abbia ancora completato la propria prestazione professionale,
ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta
quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando
l’accezione omnicomprensiva di “compenso” la nozione di un
corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata. E’ pur
vero che, ai sensi dell’art. 13, comma 10, della ancora successiva
L. n. 247 del 2012,

«oltre al compenso per la prestazione

professionale, all’avvocato e’ dovuta, sia dal cliente in caso di
determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale,
oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli
oneri e contributi eventualmente anticipati nell’interesse del
cliente, una somma per il rimborso delle spese forfettarie, la cui
misura massima e’ determinata dal decreto di cui al comma 6
unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle
spese vive» e che il citato comma 6 della medesima disposizione
stabilisce che «i parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro
della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi
dell’articolo 1, comma 3, si applicano quando all’atto dell’incarico o
successivamente il compenso non sia stato determinato in forma
scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in
caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la
prestazione professionale e’ resa nell’interesse di terzi o per
prestazioni officiose previste dalla legge».
Tuttavia, non risultando ancora emanato il decreto di cui al citato
comma 6 dell’art. 13 L. n. 247 del 2012, la disposizione di cui al
comma 10 del medesimo articolo di legge deve ritenersi allo stato
in concreto non operante.

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Le spese sostenute dalle parti civili costituite vanno, pertanto,
liquidate come da dispositivo, con riguardo ai soli compensi, in
difetto della documentazione di esborsi rimborsabili; non è dovuto
il rimborso di spese “forfettarie” o “generali”; sono dovuti i soli
accessori di legge (IVA e CPA)

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
nonché alla rifusione in favore delle costituite parti civili Pomigliano per la
legalità, Coordinamento Napoletano delle Associazioni Antiracket e Sposito
Giuseppe delle spese sostenute nel presente grado di giudizio che liquida in
complessivi euro 6.000,00 oltre IVA e CPA.
Così deliberato in Roma il 14.1.2014

PQM

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