Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 564 del 29/11/2017


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 564 Anno 2018
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: LIBERATI GIOVANNI

ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
DALLAMANO PATRISIO nato il 01/01/1972

avverso la sentenza del 08/02/2017 della CORTE APPELLO di BRESCIA
dato avviso alle parti;
sentita la relazione svolta dal Consigliere GIOVANNI LIBERATI;

Data Udienza: 29/11/2017

RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Brescia, in accoglimento
della impugnazione proposta dal pubblico ministero nei confronti della sentenza di
assoluzione del Tribunale di Mantova del 14 maggio 2015, ha condannato Patrisio
Dallamano alla pena di mesi quattro di reclusione, in relazione al reato di cui all’art. 10
bis d.lgs. 74/2000 (ascrittogli per avere, quale amministratore della Alsafil S.p.a.,
omesso il versamento delle ritenute operate sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti

Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando
vizio della motivazione in riferimento alla valutazione di prove dichiarative ritenute
decisive ma non rinnovate, in violazione del canone di giudizio del ragionevole dubbio e
del principio stabilito dall’art. 6, par. 3, lett. d), CEDU, in quanto la Corte d’appello aveva
riformato la sentenza di assoluzione del Tribunale di Mantova sulla base di una diversa
valutazione delle prove dichiarative assunte nel corso del giudizio di primo grado, all’esito
del quale era stata esclusa la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, in
considerazione della crisi finanziaria che aveva investito l’impresa amministrata
dall’imputato.
Ha, inoltre, lamentato violazione di legge penale e vizio della motivazione con
riferimento alla affermazione della sussistenza dell’elemento soggettivo di tale reato, per
l’insufficiente considerazione dello stato di insolvenza che aveva colpito la S.p.a. Alsafil, e
ha eccepito l’insufficienza, alla luce della modifica apportata all’art. 10 bis d.lgs. 74/2000
dall’art. 7 del d.lgs. 158/2015, di quanto emergente dalle dichiarazioni provenienti dal
datore di lavoro (cioè dal modello 770) a consentire di ritenere provato l’avvenuto rilascio
ai soggetti sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro
quale sostituto d’imposta.
Infine ha lamentato la violazione dell’art. 13 d.lgs. 74/2000, per la mancata
applicazione della causa di non punibilità prevista da tale disposizione, in quanto al
momento della pronuncia della sentenza di primo grado aveva pagato circa un terzo di
quanto dovuto all’Erario per capitale, interessi e sanzioni, e nel corso del giudizio di
appello aveva prodotto i documenti attestanti gli ulteriori pagamenti frattanto eseguiti,
trattandosi di disposizione applicabile anche ai giudizi in corso al momento della sua
entrata in vigore.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è manifestamente infondato.
La censura relativa alla violazione del principio del ragionevole dubbio e all’art. 6,
par. 3, lett. d), CEDU, in conseguenza della mancata rinnovazione della assunzione delle
prove dichiarative diversamente valutate dai giudici dell’impugnazione, è manifestamente
infondata, non essendo questi ultimi pervenuti alla riforma della sentenza di assoluzione

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nell’anno 2008, pari a complessivi euro 349.074,00).

di primo grado e alla affermazione della responsabilità dell’imputato sulla base di una
diversa valutazione di dette prove, bensì a seguito di una diversa ricostruzione degli
obblighi gravanti sull’imprenditore che operi come sostituto d’imposta, sottolineando, in
particolare, l’obbligo di progressivo accantonamento delle imposte trattenute sulle
retribuzioni via via corrisposte ai dipendenti, con la conseguenza che non vi è stata
alcuna diversa valutazione delle prove dichiarative assunte dal Tribunale, e neppure una
diversa ricostruzione del fatto, ma una diversa valutazione degli obblighi gravanti
sull’imprenditore operante come sostituto di imposta, sicché non occorreva rinnovare

essendovi stata alcuna diversa valutazione di esse.
La doglianza relativa alla erroneità della affermazione della sussistenza
dell’elemento soggettivo del reato ascritto al ricorrente, che sarebbe stata compiuta
omettendo di adeguatamente considerare lo stato di insolvenza dell’impresa dallo stesso
amministrata, è generica, non indicando null’altro oltre alla prospettazione di tale non
meglio specificata situazione di insolvenza, ed è anche manifestamente infondata.
Va al riguardo ricordato il consolidato orientamento interpretativo di questa
Corte in proposito, secondo cui, al fine della dimostrazione della assoluta impossibilità di
provvedere ai pagamenti omessi, occorre l’allegazione e la prova della non addebitabilità
all’imputato della crisi economica che ha investito l’impresa e della impossibilità di
fronteggiare la crisi di liquidità che ne sia conseguita tramite il ricorso a misure idonee da
valutarsi in concreto (cfr. Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi, Rv. 259190; Sez. 3,
n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128; Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015,
Mondini, Rv. 265262).
Per escludere la volontarietà della condotta è, dunque, necessaria la
dimostrazione della riconducibilità dell’inadempimento alla obbligazione verso l’Erario a
fatti non imputabili all’imprenditore, che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio
per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez.
3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128; conf. Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014,
Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055; Sez. 3, 9 ottobre
2013, n. 5905/2014).
Ora, nel caso di specie, è stata esclusa la sussistenza di eventi improvvisi e
imprevedibili che abbiano sottratto al soggetto obbligato la necessaria liquidità per
provvedere al versamento delle ritenute operate e progressivamente debitamente
accantonate, invero non prospettati neppure dal ricorrente, con la conseguente manifesta
infondatezza, alla luce dell’orientamento interpretativo di legittimità ricordato, anche di
tale doglianza.
La responsabilità dell’imputato non è, poi, stata affermata esclusivamente sulla
base di quanto emergente dal modello 770 dallo stesso predisposto e presentato, ma

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l’assunzione delle prove dichiarative assunte nel corso del giudizio di primo grado, non

anche di quanto deposto dal teste Peretti (professionista di fiducia della società
amministrata dall’imputato, indicato dalla difesa), tanto che anche nella sentenza di
primo grado era stato affermato che risultavano senz’altro provati sia la corresponsione
delle retribuzioni ai dipendenti sia il rilascio a questi ultimi delle relative certificazioni, con
la conseguenza che la sua doglianza, circa l’insufficienza di quanto risultante da tale
modello per ritenere dimostrata la consegna delle certificazioni ai sostituti d’imposta da
parte del datore di lavoro, è priva della necessaria concludenza, cioè della necessaria
specificità estrinseca, non essendo idonea a censurare la ratio decidendi su cui è fondato

tale punto della decisione impugnata, ed è anche manifestamente infondata.
Infine anche la doglianza relativa alla applicazione della causa di non punibilità di
cui all’art. 13 d.lgs. 74/2000, che richiede l’integrale pagamento del debito tributario, è
manifestamente infondata, avendo la Corte d’appello, già investita della questione della
applicabilità di tale speciale causa di non punibilità, escluso essere stato dimostrato
l’integrale pagamento del debito tributario, difettando l’attestazione dell’importo pagato
sino al momento della decisione di secondo grado; sulla base di tale rilievo, non oggetto
di specifica censura da parte del ricorrente, è stata correttamente esclusa la
configurabilità della suddetta causa di non punibilità, che richiede l’integrale pagamento
dei debiti tributari compresi sanzioni e interessi, con la conseguente manifesta
infondatezza anche di tale censura.
Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile, stante la manifesta
infondatezza di tutte le censure cui è stato affidato.
L’inammissibilità originaria del ricorso esclude il rilievo della eventuale
prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta
inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di
impugnazione innanzi al giudice di legittimità, e preclude l’apprezzamento di una
eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione
impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266; conformi, Sez.
un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n. 19601, Niccoli,
Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del
20/11/2014, Rasizzi Scalora, Rv. 261616).
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e
rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia
proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma
dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del
versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata
in € 3.000,00.
P.Q.M.

3

M

6

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 29 novembre 2017
Il Presi ente

Il Consigliere estensore

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