Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5635 del 04/12/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 5635 Anno 2014
Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: GRASSO GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BRUNO CARMINE N. IL 19/02/1949
avverso l’ordinanza n. 14/2011 CORTE APPELLO di GENOVA, del
16/02/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;
lette/seatite le conclusioni del PG Dott. pii
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Data Udienza: 04/12/2013

FATTO E DIRITTO

1. Bruno Carmine, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per
cassazione avverso l’ordinanza della Corte di Appello di Genova, depositata il
16/2/2012, con la quale venne rigettata la sua istanza di riparazione per
l’ingiusta detenzione subita dal 10/6/2004, in relazione all’accusa di aver violato
l’art. 629, cod. pen., misura sostituita con quella meno afflittiva degli arresti
domiciliari con provvedimento del Tribunale del riesame di Genova del

sentenza del 18/12/2009.

2. La Corte territoriale ravvisò la circostanza escludente del diritto alla
riparazione di cui all’art. 314, 1° comma, cod. proc. pen., e cioè di avere
concorso a dare causa all’emissione del provvedimento restrittivo della libertà
personale per colpa grave, per quanto appresso.
Sibbene sia l’imputato, che la persona offesa (Clamer Marco, commerciante) non
avevano inteso chiarire la natura dei rapporti economici tra loro intercorrenti, era
emerso che il Bruno aveva esercitato indubbie pressioni allo scopo di realizzare
un preteso e mai specificato credito, sostando a lungo davanti al negozio del
Clamer, il quale, all’atto della consegna del denaro ebbe a dirgli di non farsi più
vedere davanti al negozio (colloquio captato dalla Polizia). Inoltre, il Bruno aveva
avuto modo di dichiarare alla fidanzata del Clamer che quest’ultimo si era
comportato male nei di lui confronti, minacciando anche che gli avrebbe fatto
sparare alle gambe.

3. Il Bruno, con l’unitaria censura chiede l’annullamento dell’ordinanza
impugnata criticando il ragionamento della Corte territoriale, giudicato
gravemente carente, se non addirittura mancante.
Assume il predetto che la Corte genovese, errando, aveva valorizzato espressioni
verbali indeterminate, tanto da essere state giudicate prive di significato
minaccioso dal giudice della penale responsabilità; né, del pari, poteva assumere
carattere intimidatorio il sostare nei pressi del negozio del Clamer. L’espressione,
poi, di <> non poteva considerarsi più che un mero
sfogo verbale, causato da uno stato d’ira. Infine, il Clamer, che, evidentemente,
mai si era sentito minacciato, si era deciso a sporgere denunzia solo a seguito
del consiglio datogli da un amico poliziotto.

31/7/2004 e venuta meno con la sentenza liberatoria emessa dal Tribunale con

4. Con memoria pervenuta il 20/12/2012 l’Avvocatura generale dello Stato
si costituiva per l’Amministrazione finanziaria chiedendo dichiararsi inammissibile
o, comunque, rigettarsi il ricorso.

5. Il ricorso va disatteso in quanto infondato.

5.1. Si osserva che la giurisprudenza di legittimità è costantemente
orientata nel senso tracciato dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza

detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o
concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo
autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare
riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica
negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del
convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è
incensurabile in sede di legittimità.
E’ quindi determinante stabilire se la Corte di merito abbia motivato in modo
congruo e logico in ordine alla idoneità della condotta posta in essere dallo
istante ad ingenerare nel giudice che emise il provvedimento restrittivo della
libertà personale il convincimento di un probabile concorso nell’illecita detenzione
di stupefacente.

5.2. La Corte territoriale, nel caso di specie, ha individuato, con
ragionamento esente da censure in questa sede rilevabili in cosa sia consistita la
colpa grave del ricorrente, il quale aveva tenuto comportamento assai ambiguo,
né su tale vaglio interferisce la valutazione del giudice del merito
dell’imputazione, trattandosi di esami che non hanno finalità oomogenee.
Gli elementi in parola, al contrario di quel che mostra di ritenere il ricorrente,
integrano, nel loro complesso, una condotta connotata da colpa assai grave, tale
da esser stata causa della misura cautelare: il ricorrente, che con fare non
certamente amichevole sostava nei pressi del negozio della vittima, si riceve
denaro da quest’ultima, non giustificando in alcun modo la dazione, avendo,
peraltro, espresso esplicite ed inequivoche minacce nei confronti di questi, che si
decide al versamento suo malgrado, intimando al Bruno di non farsi più vedere
davanti all’esercizio.
Ovviamente, non ha rilievo di sorta in questa sede la circostanza che gli elementi
raccolti siano stati giudicati inidonei a sostenere l’accusa, specie a cagione del
comportamento omertoso della vittima: quel che qui rileva è che con la tenuta

n. 34559 del 15.10.2002, secondo la quale in tema di riparazione per l’ingiusta

condotta il Bruno abbia ingenerato il fondato sospetto di aver estorto del denaro
al Clamer, esercitando minacce.
Come a suo tempo chiarito, non potendo l’Ordinamento, nel momento in cui fa
applicazione della regola solidaristica, alla base del diritto al risarcimento in
esame, obliterare il principio di autoresponsabilità che incombe su tutti i
consociati, allorquando interagiscono nella società (trattasi, in fondo, della regola
che trova esplicitazione negli artt. 1227 e 2056, cod. civ.), deve intendersi
idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314

e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una
prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti,
valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’id quod
plerumque accidit secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano
tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento
dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in
pericolo. Poiché inoltre, anche ai fini che qui interessano, la nozione di colpa è
data dall’art. 43 c.p., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla
riparazione, ai sensi del predetto comma 1 dell’art. 314 c.p.p., quella condotta
che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica
negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o
norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma
prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi
nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella
mancata revoca di uno già emesso (in puntuali termini, S.U., 13/12/1995, n.
43).
A tal riguardo, la colpa grave può concretarsi in comportamenti sia processuali
sia di tipo extraprocessuale, come la grave leggerezza o la rilevante
trascuratezza, tenuti sia anteriormente che successivamente al momento
restrittivo della libertà personale; onde l’applicazione della suddetta disciplina
normativa non può non imporre l’analisi dei comportamenti tenuti
dall’interessato, anche prima dell’inizio dell’attività investigativa e della relativa
conoscenza, indipendentemente dalla circostanza che tali comportamenti non
integrino reato (anzi, questo è il presupposto, scontato, dell’intervento del
giudice della riparazione) (in puntuali termini, Sez. IV, 16/10/2007, n. 42729).
Peraltro, intangibile il diritto al silenzio e anche al mendacio, è evidente che in
presenza di una situazione fattuale che integri gravi indizi di colpevolezza a
carico dell’indagato, ove costui sia portatore di conoscenza capace di pienamente
ripristinare la verità dei fatti, non può pretendere di avvantaggiarsi
dell’indennizzo di legge, ove non abbia fornito tempestivamente quel minimo di

comma 1 c.p.p., non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto

collaborazione che sarebbe stata idonea a fare piena luce: anche ad oggi resta
oscura la ragione per la quale il Bruno avesse titolo a pretendere una somma di
denaro dal Clamer e perché costui si fosse “meritato” le minacce del primo.

6. Al rigetto consegue il pagamento delle spese processuali.
La poco penetrante disamina del caso concreto svolta nell’unico atto processuale
dell’Avvocatura Generale, costituito dall’indicata memoria, fa apparire giusto

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali;
compensa le spese tra le parti.

Così deciso nella camera di consiglio del 4/12/2013.

compensare le spese legali di questo giudizio.

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