Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5621 del 26/11/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 5621 Anno 2015
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: CAPUTO ANGELO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
POMPIGNOLI PIERLUIGI N. IL 29/06/1938
nei confronti di:
MOROSINI DOMENICO N. IL 06/08/1940
avverso la sentenza n. 30/2012 TRIBUNALE di FORLI’, del
02/05/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 26/11/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANGELO CAPUTO
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Data Udienza: 26/11/2014

Udito il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte
di cassazione dott. G. Izzo, che si è rimesso alla decisione della Corte. Udita
altresì per la parte civile l’avv. B. Urbini, che ha concluso per l’accoglimento dei
motivi di ricorso, depositando conclusioni scritte e nota spese.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 21/05/2012, il Giudice di pace di Forlì aveva assolto

ritenuto la sua responsabilità penale in ordine al reato di diffamazione in danno
della medesima persona, condannandolo alla pena di giustizia e al risarcimento
dei danni in favore della parte civile. Investito degli appelli dell’imputato e della
parte civile, il Tribunale di Forlì, con sentenza deliberata il 02/05/2013, ha
dichiarato non punibile l’imputato in ordine al reato di diffamazione e ha rigettato
l’appello della parte civile.

2. Avverso l’indicata sentenza del Tribunale di Forlì ha proposto ricorso per
cassazione, nell’interesse di Pierluigi Pompignoli, il difensore e procuratore
speciale avv. P. G. Dolcini, articolando quattro motivi di seguito enunciati nei
limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione della legge penale e travisamento della prova. I testimoni
hanno fatto riferimento allo “scoppio della polemica” con riguardo alle parole
offensive rivolte da Morosini nei confronti di Pompignoli quando i testi stessi e
l’imputato si trovavano davanti a dei quadri e i primi chiesero al secondo, senza
provocazione, degli assegni appesi, diversi da quelli oggetto della polemica
giornalistica: dalle testimonianze si evince che, contrariamente a quanto ritenuto
del giudice di appello, il riferimento agli assegni appesi al muro non fu
condizionamento della condotta dell’imputato, ma ne rappresentò il mero
pretesto o l’occasione.
2.2. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale. Per effetto del
travisamento dei dati probatori sopra censurato, la sentenza impugnata ha
erroneamente applicato gli artt. 595 e 599 cod. pen: anche ad accogliere
l’interpretazione del giudice di appello che ha ravvisato il fatto ingiusto nell’invio
di investigatori privati/agenti provocatori, va evidenziato che, per sua stessa
ammissione, Morosini si sentì provocato non da questa circostanza, ma dal
riferimento agli assegni, riferimento non necessario perché anche di fronte ad
alcuni quadri l’imputato aveva offeso la reputazione della parte civile e
comunque non idoneo a costituire fatto ingiusto risultando privo dei requisiti di
proporzione e di adeguatezza tra fatto provocante e fatto provocato.

Domenico Morosini dal reato di minacce in danno di Pierluigi Pompignoli e aveva

2.3. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale, omessa e/o
apparente motivazione. Omettendo di motivare in ordine alla doglianze
contenute nell’atto di appello in merito all’assoluzione dell’imputato dal reato di
minacce, la sentenza impugnata muove dal presupposto, insussistente alla luce
dei precedenti rilievi e delle risultanze processuali, che Morosini abbia risposto a
un torto subito.
2.4. Inosservanza o erronea applicazione di norme giuridiche di cui si deve
tener conto nell’applicazione della legge penale. In ordine alle statuizioni civili,

giurisprudenziale relativo alla reciprocità delle offese e non ha valutato che
affinché la provocazione possa incidere sul risarcimento del danno occorre un
rapporto di causalità (e anche di proporzione e di adeguatezza) tra il fatto
ingiusto e lo stato d’ira del provocato.

3. In data 11/11/2014, il procuratore speciale della parte civile avv. B.
Urbini ha depositato memoria con motivi nuovi, anch’essi di seguito enunciati nei
limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
In relazione al primo motivo di ricorso, si sottolinea che la censura è
indirizzata a stigmatizzare l’erroneità dei dati processuali impiegati dal giudice
nell’assolvere l’imputato. In relazione al secondo motivo di ricorso, la memoria
rileva che l’eccepito travisamento dei fatti processuali ha determinato l’erronea
applicazione delle norme di cui agli artt. 595 e 599 cod. pen., mancando i
presupposti applicativi della provocazione, tra i quali la proporzione e
l’adeguatezza tra il fatto provocante e quello provocato. In relazione al terzo
motivo di ricorso, il giudice di appello ha omesso un reale vaglio critico delle
doglianze formulate con l’atto di appello, sicché si chiede che la Corte di
cassazione annulli le sentenze gravate senza rinvio condannando direttamente
l’imputato al risarcimento dei danni. In riferimento al quarto motivo di ricorso, il
giudice di appello ha richiamato una giurisprudenza non pertinente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso deve essere rigettato.

2. Il primo motivo è, nel suo complesso, infondato.
La sentenza impugnata muove dall’inquadramento dei fatti nell’ambito di
pregressi rapporti conflittuali tra le parti originati dalla concorrenza commerciale
reciprocamente esercitata a Predappio nell’ambito dell’attività di vendita di
souvenir del regime fascista. La stessa persona offesa Pompignoli ha riferito di

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erroneamente il giudice di appello ha richiamato un orientamento

avere incaricato investigatori privati di recarsi presso l’esercizio commerciale di
Morosini per verificare se questi parlasse male sul suo conto: ciò avvenne il
07/12/2006 quando Piero Benvenuti, Elvis Gaudenzi e Alves de Oliveira si
recarono presso il luogo di esercizio dell’attività dell’imputato dove quest’ultimo
pronunciò gli epiteti oggetto di imputazione «nel corso di un colloquio
artatamente intavolato dagli investigatori». I tre testi indicati, ha rilevato ancora
il giudice di appello, hanno confermato questa ricostruzione e, in particolare,
Benvenuti, titolare dell’agenzia investigativa incaricata da Pompignoli, ha riferito

riguardante l’esposizione di alcuni assegni di Romano Mussolini ai quali lo stesso
Benvenuti fece riferimento per primo. La doglianze articolate dal ricorrente sub
specie di travisamento della prova denunciano, in buona sostanza, la mancata
correlazione tra le frasi ingiuriose e gli assegni in quanto, per un verso, le prime
sarebbero state pronunciate già quando l’imputato e il gruppo degli investigatori
privati si trovavano dinanzi a dei “quadri del ventennio” (e solo successivamente
fu chiesto al primo degli assegni appesi) e, per altro verso, gli assegni appesi
non avrebbero nulla a che vedere rispetto a quelli oggetto della pregressa
polemica tra le parti. La censura è infondata: nella testimonianza di Benvenuti
riportata dal ricorso si riferisce che «all’epoca c’era la polemica degli assegni, mi
bastò parlare di quegli assegni appesi al muro per far scoppiare il tutto»;
rispondendo ad una domanda, il teste ha inoltre dichiarato che «sì forse chiesi se
erano quelli gli assegni di cui si parlava tanto». E’ dunque la stessa
testimonianza del titolare dell’agenzia investigativa ingaggiata dalla parte civile a
confermare l’aderenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di appello
ai dati probatori.
Né in senso contrario può argomentarsi sulla base degli ulteriori rilievi del
ricorrente incentrati, in sintesi, sull’attribuzione alla condotta del gruppo degli
investigatori di una valenza non condizionante rispetto alle espressioni
pronunciate dall’imputato, rappresentando di esse il mero pretesto o l’occasione.
Da questo punto di vista, il ricorrente lamenta non già un’erronea ricostruzione
dei fatti operata dal giudice di appello, ma la censurata valutazione degli stessi
che ha condotto al riconoscimento della scrinninante della provocazione.
Riconoscimento, deve rilevarsi, che nel percorso argomentativo del giudice di
appello è frutto anche della valorizzazione di ulteriori elementi conoscitivi, quali il
racconto dell’imputato. Questi ha riferito di essere stato “aggredito” verbalmente
dagli “strani visitatori” circa il possesso degli assegni di Romano Mussolini
posseduti – sempre secondo i “visitatori” – anche da Pompignoli: le complessive
risultanze, osserva il Tribunale di Forlì, a fronte della chiara precostituzione da
parte della stessa persona offesa delle condizioni originanti lo stato d’ira di

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che gli epiteti furono pronunciati solo dopo lo scoppio di una polemica

Morosini, attraverso investigatori privati che non si sono limitati ad una mera
ricognizione del comportamento dell’imputato, ma si sono direttamente posti
come agenti interlocutori e condizionanti detto comportamento, rendono
verosimile la versione dello stesso Morosini in ordine alla rìconducibilità degli
apprezzamenti fatti nei confronti di Pompignoli allo stato d’ira determinatosi per
effetto dell’ingiusto incalzare degli interlocutori su argomenti riferibili alla
persona dello stesso Pompignoli e già oggetto di contesa tra le parti. Sotto
questo profilo, le doglianze rivelano un duplice profilo di inammissibilità: da un

delle relative valutazioni operata dal giudice di appello, risultano carenti della
necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata
e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del
09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849); dall’altro, sostanzialmente
deducono questioni di merito, sollecitando una rivisitazione, esorbitante dai
compiti del giudice di legittimità della valutazione del materiale probatorio che il
Tribunale di Forlì ha operato, sostenendola con motivazione coerente ai dati
probatori richiamati ed immune da vizi logici.

3. Il secondo motivo è inammissibile.
Mentre con riferimento ai profili comuni alle doglianze precedentemente
esaminate valgono le conclusioni raggiunte in relazione ad esse, i rilievi del
ricorrente circa la configurabilità, nel caso di specie, del fatto ingiusto ex art.
599, secondo comma, cod. pen. sono inammissibili. Il giudice di appello, infatti,
lungi dall’esaurire l’esame della configurabilità del fatto ingiusto integrante la
scriminante della provocazione nel riferimento agli assegni, ha rimarcato come
detto riferimento sia stato effettuato, nel contesto cui si è fatto cenno, da
investigatori privati che hanno «oltrepassato i limiti del semplice monitoraggio
dell’attività altrui per averne invece direttamente condizionato e provocato il
comportamento nel senso già consapevolmente prospettato dal mandante ed
auspicato dagli stessi mandatari (al fine dell’utile assolvimento dell’incarico)»:
anche sotto questo profilo, il ricorrente si sottrae alla specifica critica della ratio
decidendi della sentenza di appello, risultando quindi la doglianza carente della
necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata
e quelle poste a fondamento dell’impugnazione. Né in senso contrario giovano gli
ulteriori rilievi articolati dal ricorso, posto che, per consolidato orientamento della
giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’integrazione della fattispecie della
provocazione, non è richiesta la proporzione fra la reazione ed il fatto ingiusto
altrui, essendo sufficiente che sussista un nesso di causalità determinante tra
fatto provocante e fatto provocato e non un legame di mera occasionalità (Sez.

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lato, esse, trascurando la specifica disamina critica del compendio probatorio e

5, n. 43173 del 04/10/2012 – dep. 08/11/2012, Di Tommaso, Rv. 253787),
nesso di cui ha dato congruamente conto la motivazione del giudice di appello.

4. Il terzo motivo è manifestamente infondato. Il giudice di appello ha
motivato la conferma della pronuncia assolutoria di primo grado in ordine al
reato di cui all’art. 612 cod. pen., escludendo la ravvisabilità di alcuna specifica
carica intimidatoria nelle generiche espressioni utilizzate dall’imputato,
sostanzialmente riconducibili a un mero sfogo proveniente da persona ritenutasi

di appello (in conformità alla sentenza di primo grado), le doglianze proposte
non risultano in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante,
determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da
rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. 1, n.
41738 del 19/10/2011 – dep. 15/11/2011, Pmt in proc. Longo, Rv. 251516).

5. Il quarto motivo è infondato. Mentre con riguardo alla configurabilità della
provocazione valgono i rilievi già svolti, l’ulteriore censura non può essere
accolta alla luce del principio di diritto, puntualmente richiamato dal giudice di
appello, in forza del quale la provocazione, che può assumere, rispetto allo stato
d’ira del provocato, una duplice valenza giuridica sia come causa di
giustificazione – riferibile alla sola offesa all’onore (e nei limiti di cui all’art. 599,
comma secondo, cod. pen.) – sia come attenuante, esclude, nella prima ipotesi,
l’illiceità penale del fatto e tale esclusione è operativa anche in tema di
responsabilità civile (Sez. 5, n. 11708 del 29/01/1988 – dep. 01/12/1988,
Fratini, Rv. 179831).

6. I rilievi proposti con la memoria depositata in data 11/11/2014 non
offrono contenuti argomentativi idonei a superare le conclusioni raggiunte. Il
ricorso, pertanto, deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al
pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 26/11/2014

vittima di un torto. A fronte dell’argomentata conclusione cui è giunto il giudice

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