Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5610 del 16/10/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 5610 Anno 2014
Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: DOVERE SALVATORE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
1) FOTI FRANCESCO, N. IL 2/10/1948,
avverso la sentenza n. 125/2011 pronunciata dalla Corte di Appello di Reggio
Calabria del 7/8/2012;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Salvatore Dovere;
udite le conclusioni del P.G. Dott. Elisabetta Cesqui, che ha concluso per il
rigetto del ricorso;
udito il difensore, avv. Carlo Morace, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Reggio Calabria
ha confermato la condanna pronunciata nei confronti di Foti Francesco dal
tribunale reggino, che ha giudicato l’imputato responsabile del decesso di
Antonia Caridi, avvenuto per effetto di infezione tetanica, che il medesimo nella
qualità di medico di base aveva omesso di diagnosticare.
Ad avviso della Corte distrettuale risulta non controverso, nonostante la non
perfetta coincidenza delle diverse narrazioni testimoniali, che la Caridi, dopo
essere caduta trasportando della legna, si recò dal Dott. Foti il 3 o il 4 febbraio
2003 per essere visitata per i postumi riportati nell’occasione. L’intervento del
medico venne richiesto perché la paziente accusava dolore alla mano, secondo la
dichiarazione della figlia della vittima, Caterina Ventura; la tesi difensiva per la
quale la donna si limitò a riferire di un dolore alla gamba, così giustificando la

Data Udienza: 16/10/2013

prescrizione di applicazione di ghiaccio e di schiuma di artrosi lene, è stata
disattesa dalla Corte distrettuale poiché le dichiarazioni della Ventura risultano
riscontrate dalla ricostruzione della vicenda operata dal consulente tecnico del
pubblico ministero dottor Mario Matarazzo. Da tale accertamento è emerso che
quando la Caridi, il giorno 9 febbraio 2003, si presentò presso il pronto soccorso
degli Ospedali riuniti di Reggio Calabria, riferì che la contusione alla mano
sinistra constatata dai sanitari risaliva al 2 febbraio 2003. Per il Collegio
distrettuale tale dichiarazione è coerente con le dichiarazioni del Foti rese in sede

dibattimento, riferì di aver visitato la donna in un lunedì del mese di febbraio o
marzo 2003. Né tale collocazione temporale risulta contraddetta dalla denuncia
dei familiari – nella quale si afferma che dopo la caduta verificatasi il giorno 3
febbraio la Caridi era stata visitata il lunedì successivo 4 febbraio -, per il
maggior credito che meritano le dichiarazioni dei diretti interessati (la Caridi nel
corso della visita del 9 febbraio 2003 ed il Foti in sede di indagini preliminari) e
per il tempo trascorso tra il fatto e la denuncia dei familiari della vittima.
Posto il caposaldo per il quale la donna si recò dal medico curante 24 ore
dopo aver contratto l’infezione, la Corte territoriale ha ritenuto che la circostanza
che la donna fosse caduta dalle scale trasportando della legna doveva essere
stata riferita al medico; nonostante la diversa dichiarazione dell’imputato, la
Ventura ha riferito che la madre, raccontando l’accaduto, fece anche vedere la
mano al medico che vi applicò un cerotto. Tale affermazione è stata reputata
certamente credibile perché indubbio che la donna nella caduta si era procurata
una ferita alla mano sinistra con penetrazione di una scheggia di legno. Si
trattava di un corpo estraneo che nel momento dell’asportazione chirurgica
misurava circa 3 cm. (ma che inizialmente era di dimensioni ancora maggiori,
posto che risultava già asportata in parte dalla guardia medica).
E’ stata perciò disattesa la tesi difensiva secondo la quale la donna avrebbe
richiesto assistenza al Foti solo per un dolore al ginocchio. Che la ferita
procurasse un forte dolore è d’altronde circostanza confermata dal consulente
tecnico del pubblico ministero, dr. Mario Matarazzo. Mentre la testimonianza del
farmacista Catalano Giovanni, che ha ricordato come ‘qualche giorno prima di
essere ricoverata’ la Caridi si presentò in farmacia con una mano molto gonfia
nella parte del dorso superiore, privava di rilievo l’affermazione del Matarazzo
secondo la quale l’obiettività clinica presente il giorno dopo la caduta era
estremamente scarsa e poco evidente, sì che il Foti non era stato nella possibilità
di formulare un sospetto diagnostico di malattia infettiva e in particolare di
tetano.

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Y

di indagini preliminari; nelle quali, diversamente da quanto affermato in

In conclusione, per la Corte di Appello il Foti aveva conosciuto o avrebbe
dovuto riconoscere la presenza della lesione e prescrivere alla Caridi, non
protetta da vaccinazione antitetanica, una profilassi; l’omissione determinò la
morte della donna, perché essa venne diagnosticata l’infezione quando ormai
non era più fronteggiabile, mentre se il Foti avesse praticato la profilassi
antitetanica “entro le ventiquattrore dall’evento traumatico il rischio morte si
sarebbe ridotto notevolmente e nel caso in esame sarebbe stato addirittura

3. Avverso tale decisione ricorre per cassazione il Foti a mezzo del difensore
di fiducia, avv. Carlo Morace.
3.1. Con un primo motivo deduce violazione di legge, in relazione agli artt.
514 e 526 cod. proc. pen. e 111 Cost.
La Corte di Appello ha utilizzato le dichiarazioni rese in sede di indagini
preliminari dal Foti, in veste di persona informata sui fatti, nonostante
l’inutilizzabilità delle stesse e quindi in violazione dell’art. 526 cod. proc. pen. La
Corte di Appello avrebbe fatto riferimento ad un inciso contenuto nell’elaborato
della consulenza tecnica del dr. Matarazzo, il cui tenore è “un lunedì del mese di
febbraio o marzo 2003”, riportato come riferito dal Foti ai CC. il 29.7.2003. Una
siffatta modalità di utilizzazione della consulenza risulta eccentrica rispetto alle
regole processuali.
Si tratta di dichiarazione decisiva nell’impianto motivazionale perché su di
esse la Corte costruisce l’affermazione dell’esser caduta, la prima visita della
Caridi, il 3 febbraio 2003. In ogni caso, quand’anche quelle dichiarazioni fossero
state legittimamente acquisite, esse non avrebbero potuto fondare in modo
esclusivo o significativo l’affermazione di responsabilità dell’imputato, secondo
quanto affermato dalle SS.UU. con sentenza n. 27918/2011.
3.2. Con un secondo motivo si lamenta violazione di legge in relazione agli
artt. 125, 192, co. 1 e 194 cod. proc. pen. nonché 589 cod. pen.
In primo luogo il ricorrente rileva che non vi è una doppia conforme in
merito al tempo della prima visita, che l’imputazione e la sentenza di primo
grado collocano nel 4 febbraio e la sentenza impugnata nel 3 febbraio 2003.
Manifestamente illogica è la motivazione laddove attribuisce l’indicazione in
denuncia della data della visita ad un errore determinato dalle “difficoltà
incontrate dai familiari della vittima a ricostruire la vicenda per il tempo
trascorso” posto che la denuncia è dell’aprile 2003. Ciò determinerebbe, per
l’esponente, anche un travisamento della prova “attribuendo una giustificazione
che non è presente nelle dichiarazioni delle stesse parti civili”.

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annullato”.

Travisamento della prova che si rinviene anche laddove la Corte offre una
spiegazione della discrasia tra le dichiarazioni delle sorelle Ventura in punto di
presenza alla prescrizione dell’artrosilene; discrasia che la Corte risolve
ipotizzando una doppia prescrizione, mentre nessun dichiarante ha parlato di due
prescrizioni. In realtà si tratta di un “chiaro mendacio”.
Altro travisamento della prova si rinviene nella valorizzazione delle
dichiarazioni del Catalano, laddove si attribuisce queste un’indicazione temporale
che non era stata data. Per contro la Corte territoriale ha ignorato il dato

indicava il momento di insorgenza del dolore nella notte tra il 4 e il 5 febbraio. E
nonostante la Corte rilevi la possibilità che le parti civili abbiano negato di aver
accompagnato la madre alla guardia medica “per allontanare da se ogni
corresponsabilità nella morte della madre”, non ha spiegato il giudizio di
attendibilità delle medesime quali fonti di prova a carico dell’imputato.
3.3. Con un terzo motivo si lamenta violazione di legge in relazione agli artt.
43, 589 cod. pen., 2236 cod. civ., 533 cod. proc. pen.
Nonostante sulla decisiva circostanza dell’effettuazione della prima visita
entro le 24 ore dalla caduta ricorra solo la testimonianza di Caterina Ventura,
tale teste non è stata sottoposta a puntuale operazione di verifica
dell’attendibilità. Anzi, la Corte rinviene nelle conclusioni del Matarazzo un
elemento di riscontro a quelle dichiarazioni, nonostante quelle conclusioni si
fondino proprio su quanto appreso dalla Ventura. L’esponente segnala poi il
procedere per ipotesi e attraverso la formulazione di giudizi di probabilità in
ordine allo svolgersi degli accadimenti essenziali, sicchè il dato di fondo, l’aver
visionato in modo non adeguato la ferita e non essersi accorto della presenza di
corpo estraneo in essa, non ha carattere di certezza, mai affermata dalla stessa
Corte di merito.
Ricordato poi che la scheggia di legno non venne rilevata neppure nella
visita che venne eseguita dalla guardia medica 1’8.2.2003, l’esponente rammenta
che la responsabilità del sanitario richiede che sia rintracciabile nel
comportamento del medesimo una colpa grave, nella specie insussistente.
3.4. Con un quarto motivo si deduce violazione di legge in relazione agli
artt. 40 e 589 cod. pen., per aver affermato la responsabilità dell’imputato sulla
base di un giudizio di percentuale di salvezza del 50% della paziente, ove tenuto
il comportamento doveroso che si assume omesso.
In primo luogo l’esponente rileva che il parametro del 50% è, per stessa
ammissione della Corte, espresso da una ricerca epidemiologica che non si
riferisce a casi quali quello in esame, prendendo quella in considerazione

testimoniale proveniente da Angela Ventura e riportato nell’atto di appello che

l’insieme delle notizie di infezione e non solo coloro che, non protetti da
vaccinazione antitetanica, non sono stati trattati entro le 24 ore dalla lesione.
Inoltre la sentenza non ha risposto alle doglianze mosse con l’atto di
appello, le quali si rivolgevano alla mancata verifica della validità della legge
scientifica di copertura tenuto conto degli specifici dati emersi nel processo, quali
l’età della vittima, il sesso femminile, la ritenzione del corpo estraneo, la gravità
della patologia, le condizioni generali della paziente.
CONSIDERATO IN DIRITTO

4.1. L’impianto motivazionale della sentenza impugnata poggia su due
cardini; da un canto si pongono le argomentazioni con le quali si giustifica la
collocazione cronologica della prima visita della Caridi effettuata dal Foti il giorno
successivo a quello in cui la donna era caduta, e in particolare nel 3.2.2003;
collocazione fondamentale per l’affermazione della valenza impeditiva del
comportamento alternativo lecito, atteso che l’infezione tetanica può essere
risolta a condizione che si somministri il farmaco entro ventiquattrore dall’inoculo
del batterio. Dall’altro canto si pongono le affermazioni che preludono
all’affermazione della esistenza di un’evidenza clinica, tale che il Foti avrebbe
dovuto diagnosticare l’infezione tetanica e provvedere di conseguenza.
Orbene, quanto al primo aspetto risponde al vero che la Corte di Appello ha
assegnato decisivo rilievo alle dichiarazioni predibattimentali rese dal Foti;
mentre in sede di interrogatorio dibattimentale questi aveva riferito di aver
visitato la donna un lunedì o un martedì, nel corso delle indagini egli aveva
affermato di aver effettuato la visita un lunedì. Tale dichiarazione è stata
utilizzata dalla Corte distrettuale a conferma della indicazione data dalla Caridi il
9.2. ai sanitari dell’ospedale e per disattendere quanto espresso dai familiari in
denuncia (che avevano indicato il 4 febbraio, martedì).
Orbene, secondo quanto risulta anche dalla sentenza di primo grado, le sole
dichiarazioni del Foti ulteriori rispetto a quelle rese in dibattimento furono quelle
rese al c.t. del p.m. dr. Matarazzo (e sulla scorta delle quali questi concluse per
l’assenza di colpa del sanitario). Ad esse, quindi, va riferito il disposto dell’art.
228 c.p.p., comma 3, per il quale “qualora,\OFfini dello svolgimento dell’incarico,
il perito richieda notizie all’imputato, alla persona offesa o ad altre persone, gli
elementi in tal modo acquisiti possono essere utilizzati solo ai fini
dell’accertamento peritale”.
Secondo l’interpretazione preferibile, quella che concerne le notizie chieste
dal perito all’imputato al fine dello svolgimento del suo incarico e è
un’inutilizzabilità che mira a tutelare l’esigenza che il perito sia messo nelle
condizioni di svolgere nella maniera migliore e più completa il suo incarico e

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4. Il ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati.

quindi di fare in modo che l’imputato fornisca al perito, senza reticenze e falsità,
tutte le notizie che questi gli chieda, senza timore che tali notizie possano poi
essere utilizzate per fini diversi dall’accertamento peritale, ed in particolare al
fine dell’accertamento della sua responsabilità. Finalità questa che verrebbe
frustrata se invece si ammettesse che le notizie fornite possano essere utilizzate
a fini dell’accertamento della responsabilità sia pure in casi limitati, come nel
corso delle indagini preliminari o nel caso di scelta del rito abbreviato. Ne
consegue che la citata norma processuale pone un divieto assoluto di utilizzare,

fornite dall’imputato al perito (Sez. 3, Sentenza n. 16470 del 10/02/2010, Ispas
e altro, Rv. 246602). Si tratta di divieto che la giurisprudenza di questa Corte
riferisce anche alle dichiarazioni acquisite dal c.t. del p.m. (Sez. 1, n. 12731 del
11/01/2012 – dep. 04/04/2012, Spaccino, Rv. 252600).
Ciò detto, occorre procedere alla cd. prova di resistenza. Infatti, in sede di
legittimità, allorchè con il ricorso per cassazione sia eccepita l’illegale assunzione
di una prova, è consentito procedere alla cosiddetta “prova di resistenza”, ossia
valutare se tali elementi di prova acquisiti illegittimamente abbiano avuto un
peso reale sulla decisione del giudice di merito, mediante il controllo della
struttura della motivazione, al fine di stabilire se la scelta di una determinata
soluzione sarebbe stata la stessa, anche senza l’utilizzazione di quegli elementi,
per la presenza di altre prove ritenute di per sé sufficienti a giustificare l’identico
convincimento (Sez. 6, n. 10094 del 22/02/2005 – dep. 15/03/2005, Ricco ed
altro, Rv. 231832).
Sotto il profilo che occupa deve ritenersi che la collocazione della (prima)
visita del Foti nel giorno successivo alla caduta della Caridi risulta – nella
motivazione della Corte distrettuale -fondata altresì sulla indicazione che la
donna diede ai sanitari degli Ospedali Riuniti e dalla erroneità della data indicata
in denuncia dai suoi familiari. La motivazione resa sul punto dal giudice di
secondo grado, diversamente da quanto prospettato dal ricorrente, non è
manifestamente illogica.
Tanto evidenzia anche l’infondatezza del secondo motivo di ricorso.

5. Per contro, quanto al profilo dell’evidenza della lesione, e quindi della
doverosità per il Foti di dare corso ad approfondimenti ed a profilassi, la Corte
distrettuale incorre in un palese vizio.
Occorre tener presente che nel caso in cui una o più tra le parti abbiano
contribuito alla formazione della prova mediante l’apporto di un esperto, il
giudice, come non può confutare la ricostruzione o l’accertamento tecnico
operato da quello sostituendoli con proprie autonome valutazioni tecniche (Sez.

in qualsiasi fase del procedimento, al di fuori dell’accertamento peritale le notizie

1, Sentenza n. 4878 del 26/10/2012, P.M. e P.C. in proc. D’Ambrosio, Rv.
254614), così non può limitarsi a svolgere un’argomentazione logica che
prescinda dai dati tecnici o scientifici posti a base delle conclusioni dell’esperto,
ma deve condurre una verifica critica della prova tecnica come prodotto
scientifico. Diversamente opinando verrebbe semplicemente elusa la prova
fornita dalla parte – connotata appunto dalla sua tecnicità -, con la quale,
all’inverso, il giudice deve necessariamente confrontarsi.
Orbene, nel caso che occupa il c.t. del P.M., le cui conclusioni sul punto sono

lesione alla mano non presentava “caratteristiche di particolare rilevanza” sicchè,
“in assenza di un espresso riferimento anamnestico e di chiari riferimenti
sintomatologici (es. dolore) da parte della donna riguardo al pregresso trauma
contusivo, sarebbe stato impossibile per il dr. Foti porre un sospetto diagnostico
di malattia infettiva e in particolare di tetano”. La Corte di Appello ha ritenuto
che tanto concretizzasse una ricostruzione alternativa priva di rilievo. E ciò sulla
base delle dichiarazioni del Catalano, dalle quali ha sviluppato il seguente
ragionamento: poiché quando la donna venne vista dal farmacista aveva un
grosso gonfiore sul dorso della mano, allora questo gonfiore non poteva non
essere stato visto anche dal Foti nel corso della visita nella quale aveva
prescritto il medicinale.
Già da subito si deve rilevare che in tal modo le dichiarazioni del dr.
Matarazzo risultano confutate sulla base di un assunto che non interpella in alcun
modo le premesse tecniche dalle quali il consulente ha tratto le conclusioni. La
Corte di Appello ritiene di non confrontarsi con gli argomenti scientifici (o con
l’assenza di essi) utilizzati dal c.t.
Ma non solo; nel far ciò la Corte di Appello, quando non si trincera dietro
vere e proprie congetture, incorre in palese illogicità. Poiché si sta discutendo
della possibilità del Foti di rendersi conto della lesione in termini che rendessero
possibile un intervento salvifico, il richiamo alle dichiarazioni del Catalano può
avere un senso solo ove l’incontro di questi con la Caridi venga collocato lo
stesso giorno della visita medica o al più tardi il giorno successivo. Ed invece non
è dato comprendere se per la Corte di Appello il Catalano incontrò la Caridi dopo
la visita del lunedì (quindi il 3 febbraio) o il 6 o il 7 febbraio o nell’una e nell’altra
occasione.
Laddove si argomenta in ordine ai motivi per i quali può affermarsi che il
Foti non potè non accorgersi della ferita procurata dall’ingresso della scheggia
nel dorso della mano, la Corte distrettuale sembra collocare tale contatto subito
dopo la (prima) visita del Foti: “… la donna, quando andò dal Foti, doveva già
sentire dolore alla mano perché vi era conficcata una scheggia di oltre tre

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riportate in sentenza, ha affermato che al momento della visita fatta dal Foti la

centimetri e quando si recò dal farmacista per acquistare l’artrosilene aveva già
un grosso gonfiore sul dorso della mano, che non poteva non essere stato visto
anche dal Foti, nel corso della visita in occasione della quale aveva prescritto il
medicinale”.
In un passaggio precedente, si afferma che “se la Caridi si è recata in
farmacia giorno 6 o giorno 7, ciò avveniva perché doveva acquistare il
medicinale che il medico le aveva prescritto”. Subito dopo la Corte di Appello,
laddove tratta della attendibilità delle sorelle Caridi, non esclude che le visite

prescritto il farmaco per l’artrosi.
E’ evidente che una simile incertezza priva di ogni efficacia l’utilizzo delle
dichiarazioni del Catalano in funzione di critica alle conclusioni del c.t. del p.m.;
critica che a questo punto si rivela non adeguatamente motivata.

6. Fondato è altresì l’ultimo motivo.
La giurisprudenza di legittimità in tema di accertamento del nesso causale
nell’ipotesi di colpa medica è quanto mai ampia e sufficientemente coesa. Ai fini
che qui occupano è sufficiente richiamare il principio secondo il quale
l’accertamento del nesso di causalità non è legato al solo coefficiente di
probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta
probabilità logica (d’obbligo, al riguardo, è la citazione di Sez. U, Sentenza n.
30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138).
Ciò importa che in via di principio anche coefficienti medio-bassi di
probabilità cosiddetta frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica
– sostenuti da verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che
della specifica applicabilità alla fattispecie concreta – possono essere utilizzati ai
fini del riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento, a
condizione che siano corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto
secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa
la sicura non incidenza, nel caso concreto, di altri fattori interagenti in via
alternativa (cfr. da ultimo, Sez. 5, Sentenza n. 8351 del 25/10/2012, C., Rv.
255213).
La sentenza in esame è fallace sotto entrambi i profili. Da un canto la Corte
di Appello afferma che non è disponibile il dato epidemiologico relativo
all’incidenza dei decessi tra i soggetti non vaccinati che, avendo contratto
l’infezione, eseguono la profilassi antitetanica entro le ventiquattrore; dall’altro
conclude che l’esecuzione di una profilassi nelle ventiquattrore è ‘considerata
dalla scienza medica’ capace di scongiurare il rischio morte. Si tratta di

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mediche eseguite dal Foti fossero state due e che in entrambe sia stato

affermazione che, nell’assenza di riferimenti specifici a dati, studi, teorie,
pretende adesione fideistica e preclude ogni verifica critica.
Dall’altro lato, e correlativamente, l’assenza di un quadro teorico di
riferimento rende vuoto di significato concreto il giudizio in ordine all’assenza di
fattori estranei in grado di interagire in via alternativa.

7. La sentenza impugnata merita quindi di essere annullata, con rinvio per
nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Reggio Calabria.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della
Corte di Appello di Reggio Calabria.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 16.10.2013.

P.Q.M.

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