Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5601 del 25/10/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 5601 Anno 2014
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Femia Nicola, nato a Marina di Gioiosa Jonica il 01/02/1961

avverso l’ordinanza emessa il 24/05/2013 dal Tribunale di Bologna

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Pio Gaeta, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avv. Pasquale Misciagna, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso e l’annullamento dell’ordinanza impugnata

RITENUTO IN FATTO

1. Nicola Femia risulta, fra gli altri, destinatario di provvedimento restrittivo
della libertà personale (ed attualmente sottoposto alla misura cautelare della
custodia in carcere) nell’ambito di una complessa attività di indagine relativa ad

Data Udienza: 25/10/2013

una presunta associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una
serie indeterminata di delitti ex artt. 4 della legge n. 401 del 1989, 12-quinquies
del d.l. n. 306 del 1992, 629, 640-ter e 617-ter cod. pen. Il sodalizio, ritenuto
operante in Conselice, Massalombarda ed altre zone del territorio nazionale,
nonché con ramificazioni all’estero (Romania e Gran Bretagna), veniva
considerato dal P.M. presso il Tribunale di Bologna quale associazione di tipo
mafioso, con successiva derubricazione da parte del G.i.p. – all’atto
dell’emissione dell’ordinanza restrittiva in corso di esecuzione, datata

struttura doveva considerarsi, secondo la richiamata ordinanza, proprio Nicola
Femia (detto “Rocco”), sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza
speciale in quanto appartenente alla ‘ndrangheta, e titolare di varie ditte
individuali (fittiziamente intestate ad altri) per l’esercizio non autorizzato di
attività di gioco on line nonché per la produzione e commercializzazione dei
relativi apparati e terminali informatici, da allestire presso le sedi di numerosi
gestori di sale giochi, di norma inserendovi schede elettroniche contraffatte, in
modo da non far risultare gli effettivi volumi di gioco.
L’attività veniva svolta, stando all’ipotesi accusatoria, attraverso siti

web

esteri riconducibili a strutture operative correnti in Romania e nel Regno Unito,
non autorizzati all’esercizio del gioco on line in Italia, e successiva ricerca
capillare delle sale da gioco ove installare i terminali: i relativi proventi, in frode
all’Erario anche in ragione delle ricordate alterazioni delle schede, nonché
ottenuti talora mediante condotte estorsive in danno di vari titolari di sale, erano
gestiti ricorrendo alla sistematica intestazione di quote sociali, somme di denaro
ed altri beni a soggetti che si prestavano a fungere da prestanome del Femia,
secondo indicazioni tecniche fornite da ulteriori sodali che agivano nella veste di
consulenti dell’associazione (sia sul piano giuridico-commerciale, sia in occasione
dei controlli amministrativi sugli apparati di intrattenimento facenti capo al
sodalizio, sia avvalendosi dei rapporti di frequentazione con pubblici ufficiali onde
acquisire notizie su attività investigative in corso di svolgimento o prospettate sul
conto degli associati).
Tra i reati-fine, oltre a quelli concernenti l’esercizio di giochi on line non
autorizzati, si contestavano al Femia:
– numerose condotte rilevanti ai sensi dell’art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del
1992, in alcuni casi realizzate in concorso con consulenti aziendali o
commercialisti;
– ipotesi di concorso in truffa aggravata, frode informatica ed interruzione di
comunicazioni telematiche, quanto alle già ricordate condotte di alterazione delle

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12/12/2012 – nel reato di cui all’art. 416 cod. pen.: figura di vertice di detta

schede allestite presso i terminali prodotti e distribuiti dall’associazione in varie
località del territorio nazionale;
– presunte condotte estorsive (aggravate ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 152 del
1991, trattandosi di fatti commessi avvalendosi della forza di intimidazione
derivante dalla appartenenza del Femia ad organizzazioni criminali di stampo
‘ndranghetistico) in danno di tali Giovanni De Marco, Pierluigi Scarlino (nella
forma tentata) e Giampiero Dibilio.

In data 12/02/2013, a seguito di richiesta di riesame presentata

nell’interesse del Femia, il Tribunale di Bologna rigettava il gravame,
confermando la misura di maggior rigore in corso di applicazione a carico
dell’indagato; il provvedimento era impugnato dinanzi a questa Corte, ma anche
il ricorso per cassazione veniva rigettato con sentenza del 09/07/2013.

3. Nel frattempo, il G.i.p. del medesimo Tribunale respingeva un’istanza
presentata nell’interesse del Femia ex art. 299 cod. proc. pen., volta ad ottenere
la revoca o la sostituzione della misura in atto, e fondata sulla presunta
acquisizione di elementi di novità (all’esito delle ulteriori indagini compiute dagli
inquirenti) che avrebbero dovuto imporre, secondo la tesi difensiva, la
rivisitazione del quadro indiziario inizialmente ritenuto, e comunque una
valutazione di insussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n. 152 del
1991, contestata con riguardo agli addebiti di estorsione consumata e tentata.
Avverso quel provvedimento la difesa proponeva appello ai sensi dell’art. 310 del
codice di rito, che il Tribunale di Bologna rigettava con ordinanza del
24/05/2013.
3.1 A proposito delle condotte qualificate ai sensi dell’art. 629 cod. pen., e
che la difesa reputava integrare, al più, ipotesi di esercizio arbitrario delle
proprie ragioni, il collegio segnalava il contenuto di alcune delle conversazioni
telefoniche intercettate nel corso delle indagini, da cui emergeva che il De Marco
si era impossessato di una significativa somma di denaro (50.000,00 euro),
proveniente dagli incassi delle attività di gioco illegale, tanto che
immediatamente il Femia aveva dato disposizioni di cambiare le passwords di
accesso ai siti non autorizzati; subito dopo, d’intesa con l’indagato, altri sodali
(Ciro Irco e Ciriaco Carrozzino) si erano recati presso i familiari dello stesso De
Marco, determinando in capo a loro un forte timore tanto da far sì che costoro si
rendessero subito disponibili a prendere finanziamenti – iniziativa poi
concretamente assunta dal fratello, prima ancora che il De Marco si fosse
confrontato con chi si assumeva suo creditore – pur di rientrare del debito
maturato dal loro congiunto.

3

2.

Nell’occasione, secondo il Tribunale, aveva avuto un ruolo decisivo la
caratura criminale dell’Irco (vicino a Nicola Sarno, condannato per associazione
mafiosa e traffico di stupefacenti) e dello stesso Femia, da cui fra l’altro era
derivata la decisione dei familiari del De Marco di non denunciare l’accaduto e di
negare di aver comunque subito minacce di sorta.
3.2 Quanto alla vicenda Scartino, questi aveva noleggiato apparecchi per
video slot, maturando un debito di 350.000,00 euro cui non era riuscito a fare
fronte, e ne erano derivate esplicite minacce (oltre che vere e proprie percosse),

lavorando per loro fino ad estinguere l’esposizione: le minacce erano poi state
estese ai familiari dello Scartino (con la consegna di cambiali a firma della madre
di costui), paventandosi anche la cessione da parte loro di beni immobili di
proprietà al fine di estinguere il debito. Il collegio riteneva non credibile la
versione difensiva, secondo cui l’indagato si era limitato ad aiutare il giovane
proprio su richiesta della madre di costui, perché un po’ “sbandato”, atteso che
in quel caso non gli avrebbe certamente consentito di maturare debiti di quella
entità e non avrebbe reagito alle inadempienze con le modalità che le
intercettazioni avevano permesso di monitorare: anche nella vicenda era
risultata evidente la grave capacità intimidatoria del gruppo, in ragione dello
spessore criminale dei protagonisti, visto che la famiglia Scartino aveva
parimenti omesso di presentare denuncia.
3.3 A proposito del Dibilio, si trattava invece del titolare di una sala giochi
romana, a sua volta debitore del Femia per ingenti somme di denaro: dalle
intercettazioni risultava come l’indagato avesse rappresentato alla persona
offesa che l’esposizione maturata doveva intendersi non soltanto nei suoi
confronti a titolo individuale, ma anche di organizzazioni criminali calabresi. A
seguito delle pressioni ricevute, il Dibilio si era disposto a cedere al Femia il 50%
della sala in questione, e ne erano derivate comunque successive intimidazioni al
soggetto passivo affinché versasse la quota degli incassi nei mesi seguenti,
sempre con il richiamo da parte dell’indagato ad altri soggetti dinanzi ai quali
avrebbe dovuto rendere conto.
Nel gennaio 2011, il Femia era stato protagonista di più conversazioni dalle
quali risultava che egli aveva assunto il controllo dell’intero locale, superando
anche le resistenze del Dibilio – cui l’indagato aveva inviato propri emissari, in
particolare Pasquale La Pasta, con il computo di occuparsi della gestione
dell’esercizio – affinché venisse mantenuto il personale precedentemente
impiegato: la circostanza che il Dibilio era stato esautorato in quel periodo
risultava confermata da costui, assunto a verbale dagli inquirenti, che aveva
precisato di essere rimasto intimidito dalla presenza di due individui che avevano

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con la persona offesa ad accettare di sottomettersi al Femia e al di lui figlio

accompagnato il Femia in occasione degli incontri avuti con lui (uno dei soggetti
in questione, che l’indagato gli aveva presentato come i “paesani” ai quali era
necessario rendere conto, era stato identificato in Virgilio Petrolo, riconosciuto
dal Dibilio in una foto esibitagli).
3.4 II Tribunale, dato atto che già nell’ordinanza emessa nel procedimento di
riesame erano state esaminate e valutate le dichiarazioni rese dal fratello del De
Marco e dal suddetto Dibilio, riteneva che le ulteriori acquisizioni istruttorie non
avessero comportato alcuna modifica della piattaforma indiziaria, atteso che:

dell’altro fratello, già considerati inattendibili ai fini del provvedimento emesso ex
art. 309 del codice di rito perché smentiti dalle intercettazioni (tanto da doversi
interpretare come una ulteriore conferma della gravità delle intimidazioni
subite);
– Fausto Fantilli, proprietario dei locali dove veniva esercitata l’attività di sala
giochi già facente capo al Dibilio, aveva solo ricordato di aver conosciuto un
soggetto di nome Rocco (nome con cui era comunemente chiamato il Femia),
indicatogli come un socio dello stesso Dibilio;
– Ciro Irco, rendendo interrogatorio, aveva sostenuto di essersi limitato ad
invitare il De Marco (che peraltro gli aveva negato di essersi impossessato di
denaro del Femia, comunque precisando di averne paura) a restituire il maltolto,
suggerendogli altresì di troncare i rapporti con l’indagato e le persone vicine a
lui: il Tribunale reputava non attendibili le dichiarazioni in parola, smentite dalle
intercettazioni, laddove l’Irco aveva sostenuto di non avere affatto minacciato la
persona offesa;
– Pierluigi Scarlino aveva confermato la ricostruzione dei fatti desumibile dalle
intercettazioni, ribadendo di essere stato picchiato da quattro persone (tra cui il
figlio del Femia) nell’autunno del 2010, in ragione del debito maturato verso
l’indagato (che in quel momento era in carcere, ma non appena uscito lo aveva
contattato reclamando a sua volta il pagamento con tono minaccioso): subito
dopo l’episodio del pestaggio, la madre si era disposta a firmare delle cambiali,
mentre lo stesso Scartino aveva ceduto gratuitamente una vettura di sua
proprietà;
– i genitori dello Scarlino avevano ammesso la firma delle cambiali (da parte
della madre), precisando di essere stati informati dal figlio circa le percosse
subite: il padre Luigi aveva anche ricevuto dal Femia un sms minaccioso,
indirizzato al figlio, e la madre Anna Pindinello era stata chiamata più volte al
telefono dall’indagato, che pretendeva il pagamento del debito da parte di
Pierluigi.

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– la sorella e la madre del De Marco si erano limitate a ribadire gli assunti

3.5 A riguardo, il Tribunale offriva una analitica disamina in punto di
precedenti penali, misure di prevenzione applicate a carico ed accertati rapporti
di frequentazione del Femia con personaggi di spicco della criminalità organizzata
calabrese: fra l’altro, un’informativa di polizia giudiziaria del 2010 aveva
riportato le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, i quali avevano
indicato il Femia come appartenente a ‘ndrine delle zone di Gioiosa Jonica e
Santa Maria del Cedro.
3.6 In ordine alle esigenze cautelari, il Tribunale riportava quanto già

aveva «promosso e diretto un’associazione a delinquere dotata di una struttura
complessa e ramificata, operante in diversi settori e in via di espansione (p. es.
nel comparto immobiliare)», ed era stato altresì diretto responsabile di numerosi
reati-fine, taluni dei quali connotati da notevole offensività e indicativi di
«qualificati contatti criminali, sulla cui attiva collaborazione aveva potuto
immediatamente contare per un più rapido conseguimento dei suoi scopi illeciti»;
tenendo conto di tali elementi, nonché dei gravi precedenti penali e giudiziari del
prevenuto, era da intendersi concreto ed assai grave il pericolo di commissione
di nuovi delitti della stessa specie da parte del Femia.
In ragione della brevità del tempo trascorso dal momento di quelle
valutazioni, l’attualità e concretezza del ritenuto pericolo di recidiva specifica
erano pertanto da intendere inalterate.

4. Avverso l’ordinanza del Tribunale di Bologna propone ricorso il difensore
di Nicola Femia, Avv. Pasquale Misciagna.
La difesa lamenta carenza e manifesta illogicità della motivazione con
riguardo agli artt. 7 del d.l. n. 152 del 1991 e 629 cod. pen., nonché in relazione
al combinato disposto di cui agli artt. 192 e 273 cod. proc. pen., con l’espressa
precisazione che il gravame riguarda soltanto gli addebiti in tema di estorsione.
Censurata la struttura stessa del provvedimento, in quanto – secondo la
difesa – meramente riproduttivo del contenuto della precedente ordinanza
adottata in sede di riesame, il ricorrente evidenzia che:
il De Marco avrebbe dovuto intendersi un partecipe dell’associazione per
delinquere, mentre dalle emergenze istruttorie risulterebbe l’autonoma
iniziativa dell’Irco di proporsi per andare a casa dei De Marco, che
conosceva, onde risolvere la situazione (senza dunque che il Femia gli
avesse dato disposizioni in merito);
si registra una chiara convergenza fra le dichiarazioni dei congiunti del De
Marco e quelle dell’Irco sull’assenza di minacce di sorta (dovendosi tenere

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esposto all’atto della decisione emessa ex art. 309 cod. proc. pen.: l’indagato

presente che le dichiarazioni di un testimone non richiedono comunque
elementi di riscontro);
il Femia, nei rapporti con il De Marco, dovrebbe intendersi persona offesa,
in quanto derubato, ed il coinvolgimento dei parenti dello stesso De Marco
fu conseguente alla decisione del ricorrente di non denunciarlo,
offrendogli «la possibilità di evitare l’onta di un processo penale», tanto
che lo stato d’ansia della madre del De Marco «comprensibilmente,
avrebbe potuto (e dovuto) essere spiegato, in assenza della prova di

per il buon nome del figlio e per le conseguenze che dalla sua vergognosa
condotta sarebbero derivate in sede legale»;
per recuperare il credito vantato verso lo Scartino, il Femia aveva sì
paventato di rifarsi sugli immobili della famiglia, ma solo per
esasperazione (realizzando così l’indagato un comportamento forse non
corretto, ma comunque del tutto estraneo a metodiche mafiose);
«il Femia chiedeva la restituzione di denaro che legittimamente gli
apparteneva […], per di più, si trattava di una somma ingente che
avrebbe anche potuto legittimamente azionare dinanzi ad un giudice (ma
ben sapeva che lo Scarlino era ex se insolvente, né possedeva beni idonei
al soddisfo)»;
la versione della madre dello Scarlino è che il Femia le aveva chiesto di
intercedere presso il figlio affinché pagasse, senza intimidazioni, che la
richiesta di firmare le cambiali fu del figlio e non del Femia, e che ella
decise di cambiare numero di telefono in quanto le chiamate dell’indagato
erano insistenti e moleste, ma non minacciose;
anche in questo caso non vi era situazione di paura e di assoggettamento
da parte delle asserite persone offese, semmai «una condizione di
vergogna e di frustrazione del debitore a fronte del grosso debito […] che
non era riuscito ad onorare», mentre il Femia, a dispetto del presunto

qualsiasi minaccia, con la circostanza che […] stava “morendo di paura”

calibro criminale, si era visto non onorare il pagamento del dovuto per
ben quattro anni;
infine, il Dibilio aveva precisato come il Femia avesse atteso circa un anno
prima di chiedergli il dovuto, e che la decisione dell’arrivo del La Pasta per
la gestione della sala giochi fu concordata, senza condotte di minaccia;
il La Pasta, in sede di interrogatorio, aveva dichiarato di essersi occupato
della gestione d’intesa sia con il Femia che con il Dibilio, comunque
ancora padrone della sala;
– il Fantilli aveva precisato che durante la co-gestione con il nuovo socio di
nome Rocco si era tornata a vedere regolarità nei pagamenti del canone

7

Ì

di locazione, il che implica che nel periodo della presunta estorsione
subita il Dibilio aveva visto migliorare le proprie condizioni economiche;
infine, su un piano generale e con riferimento a tutte le contestazioni de
quibus, il Tribunale di Bologna non avrebbe speso argomenti di sorta sulla
pur sollecitata derubricazione delle ipotizzate estorsioni in meri episodi di
ragion fattasi.

1. Il ricorso deve ritenersi inammissibile.
Innanzi tutto, deve rilevarsi che attraverso lo strumento della presentazione
di una istanza ex art. 299 del codice di rito, e del successivo appello avverso il
provvedimento di rigetto, la difesa ha di fatto reiterato le medesime doglianze
mosse nei riguardi dell’ordinanza applicativa della misura, per poi proporre nelle
forme di cui all’art. 310 cod. proc. pen. una iterazione degli argomenti sviluppati
all’atto della richiesta di riesame (sia pure limitatamente agli addebiti di
estorsione contestati al Femia). Come correttamente evidenziato dal Tribunale
di Bologna, del resto, i presunti elementi di novità che avrebbero dovuto essere
considerati ai fini di una rivalutazione della piattaforma indiziaria si risolvono laddove non irrilevanti – in dati di sostanziale conferma dell’assunto accusatorio,
senza alcuna possibilità di scalfire l’ormai formatosi giudicato cautelare.
Le osservazioni esposte con il ricorso oggi in esame, inoltre, afferiscono con
palese evidenza il merito della vicenda, spesso traducendosi in censure del tutto
generiche o addirittura viziate sul piano della tenuta logica. E’ infatti nel corpo
stesso del ricorso che si legge, da un lato, che il Femia non avrebbe posto in
essere minacce o comportamenti intimidatori in danno di chicchessia, e – al
contempo – che l’Irco si sarebbe recato sua sponte presso i De Marco con il
ricorrente che, “ovviamente”, non lo avrebbe fermato; ciò mentre sarebbe stato
l’altro sodale Biagio Carrozzino a dire al Femia di non mandare più nessuno dai
familiari del De Marco perché “la mamma sta tutta impaurita, stava morendo”.
Oppure, come ricordato, si segnala che l’indagato avrebbe voluto evitare ai
parenti dello stesso De Marco il disagio derivante dal vedere il loro congiunto
citato in giudizio o denunciato, a fronte di una ben più sostanziosa ragione che
spiega il mancato ricorso del Femia alle vie legali (vale a dire la sua
consapevolezza di dover dare conto, in un processo civile o penale, di quale
fosse la provenienza del denaro sottrattogli dalla controparte). La difesa reputa
altresì che nei confronti dello Scarlino non sarebbero state fatte “minacce
veramente qualificabili come gravi”, rilevando che costui, “a tutto voler

0,4)
8

CONSIDERATO IN DIRITTO

concedere, sarebbe stato soltanto percosso”: affermazione, come già ricordato,

ictu °cui/ illogica, laddove si vorrebbe escludere che taluno sia rimasto vittima di
intimidazioni perché non vi è prova di minacce verbali, emergendo però quella di
violenze fisiche.
Le puntuali disamine delle varie vicende in danno del De Marco, dello
Scarlino e del Dibilio, compiute dal Tribunale nell’ordinanza oggetto di ricorso, ed
il riferimento alla innegabile valenza estorsiva delle condotte realizzate in loro
danno (come pure alla sussistenza dell’aggravante prevista dall’art. 7 del d.l. n.

art. 392 cod. pen., tanto che le disamine anzidette debbono intendersi contenere
già gli elementi di confutazione dell’opposta tesi difensiva. Del resto, è
assolutamente pacifica, fin da epoca remota, la giurisprudenza di legittimità
secondo cui non vi è obbligo di esaminare un motivo di gravame manifestamente
infondato (v., ex plurimis, Cass., Sez. III, n. 8851 del 25/05/1982, Garraffo), e
deve ribadirsi che secondo plurimi precedenti di questa Corte «ai fini della
distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione nel caso che
il soggetto possa far valere il suo diritto dinanzi all’autorità giudiziaria, occorre
avere riguardo al grado di gravità della condotta violenta o minacciosa che, se
manifestata in modo gratuito o sproporzionato rispetto al fine, ovvero tale da
non lasciare possibilità di scelta alla vittima, integra gli estremi del più grave
delitto di estorsione» (Cass., Sez. VI, n. 32721 del 21/06/2010, Hamidovic, Rv
248169; v. anche Cass., Sez. VI, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv
248736, dove si afferma che «integra il delitto di estorsione, e non quello di
esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa che si estrinsechi
in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento
di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell’altrui
volontà assume ex se i caratteri dell’ingiustizia, trasformandosi in una condotta
estorsiva»).

2. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del Femia al
pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa
nella determinazione della causa di inammissibilità (v. Corte Cost., sent. n. 186
del 13/06/2000) – al pagamento in favore della Cassa delle Ammende della
somma di € 1.000,00, così equitativamente stabilita in ragione dei motivi
dedotti.
Dal momento che alla presente decisione non consegue la rimessione in
libertà del ricorrente, dovranno essere curati dalla Cancelleria gli adempimenti di
cui al dispositivo.

9

152 del 1991), escludono in radice la configurabilità nel caso di specie di reati ex

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp.

Così deciso il 25/10/2013.

att. cod. proc. pen.

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