Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 555 del 18/10/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 555 Anno 2014
Presidente: FUMO MAURIZIO
Relatore: BRUNO PAOLO ANTONIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da

LAVITOLA Valter, nato a Salerno il 16/06/1966

avverso la sentenza del Gup del Tribunale di Napoli del 09/112012;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
letta la memoria difensiva depositata 1’01/10/2013;
udita la relazione del consigliere Paolo Antonio BRUNO;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale dr. Gioacchino Izzo, che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, il GUP del Tribunale di Napoli,
pronunciando ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., applicava a Valter Lavitola la
pena concordata con il P.M. in ordine a molteplici reati, e precisamente:
associazione per delinquere e truffa aggravata in danno di enti pubblici, in
relazione all’indebita riscossione di contributi pubblici per l’editoria; tentata truffa

Data Udienza: 18/10/2013

aggravata in danno di enti pubblici; bancarotta fraudolenta con riferimento al
fallimento della società BVP-Broadcast Video Press s.a.s, dichiarata fallita dal
Tribunale di Napoli, con sentenza 12.1.2011; e vari reati tributari, oltre a pene
accessorie e confisca dei beni in sequestro; dichiarava non doversi procedere con
riferimento al reato di truffa aggravata di cui al capo B), con riferimento alla
condotta relativa ai contributi ricevuti prima del 15 aprile 2006; al capo E) per le
fatture emesse fino alla 6.4.2005; al capo F) relativamente alla fattura emessa

2. Avverso la decisione anzidetta, il difensore dell’indagato, avv. Gaetano
Balice, ha proposto ricorso per cassazione, affidato alle ragioni di censura indicate
in parte motiva.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.

Con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente eccepisce violazione

dell’art. 129 del codice di rito con riferimento alla ritenuta sussistenza dei reati di
associazione per delinquere e bancarotta fraudolenta patrimoniale, sul rilievo che,
impropriamente, il provvedimento impugnato aveva richiamato, per relationem,
l’ordinanza genetica della custodia cautelare, con ciò violando il principio
dell’impermeabilità tra fase cautelare e fase giurisdizionale, più volte ribadito dal
Giudice delle leggi.
Con il secondo motivo si denuncia inosservanza dello stesso art. 129 del
codice di rito e mancanza di motivazione in punto di induzione in errore rispetto
alla prassi generalizzata di concessione del contributo pubblico, sul rilievo che nel
periodo antecedente al 2008 avrebbe dovuto ritenersi configurabile l’art. 316 ter
cod. pen. A dire del ricorrente, il GUP, in sede di valutazione ex art. 129 del codice
di rito, anziché richiamarsi alla motivazione dell’ordinanza custodiale, avrebbe
dovuto rilevare la non configurabilità del reato di cui all’art. 640 bis cod. pen.
quantomeno per il periodo compreso dal 2006 al 2008, data di entrata in vigore
della disciplina più restrittiva in materia di contributi all’editoria. Per il periodo
antecedente, dunque, avrebbe dovuto dichiararsi l’assoluzione con conseguente
restituzione della quota di beni confiscati.
Il terzo motivo denuncia violazione del menzionato art. 129 del codice di
rito, con riferimento ai reati tributari, per inosservanza del principio di specialità
tra il reato di truffa aggravata in danno dello Stato e fatturazione per operazioni
inesistenti.
Con la memoria difensiva indicata in epigrafe il ricorrente ha proposto
motivi nuovi e, precisamente, con il primo motivo inosservanza degli artt. 444
125, 120 del codice di rito, ai sensi dell’art. 606 lett. c) ed e) per inidoneità ed
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nell’anno 2005; per l’estinzione dei reati anzidetti per intervenuta prescrizione.

insufficienza della motivazione, ancora una volta sul rilievo dell’acritico richiamo
alle motivazione dell’ordinanza custodiale.
Con il secondo motivo denuncia inosservanza dello stesso art. 129 ed
erronea applicazione degli artt. 316

ter, 640 bis cod. pen., con riferimento

all’erronea qualificazione giuridica dei fatti in contestazione che, con riferimento
ad un determinato periodo temporale, avrebbe dovuto essere più correttamente

2. La prima ragione di doglianza, ribadita con il primo dei motivi aggiunti, è

palesemente infondata. Inutilmente, parte ricorrente si duole, infatti, della pretesa
violazione dell’art. 129 del codice di rito sul rilievo che la sussistenza dei reati in
contestazione sarebbe stata ritenuta attraverso il richiamo

per relationem

all’ordinanza genetica della custodia cautelare e, dunque, alle emergenze delle
indagini preliminari, in asserita violazione del principio dell’impermeabilità tra la
fase cautelare e quella giurisdizionale. E’ risaputo, infatti, che la delibazione in
ordine all’insussistenza delle cause di proscioglimento di cui all’art. 129 del codice
di rito si innesta nella scansione dei termini del giudizio cui il giudice è chiamato
dall’art. 444 comma 2 cod. pen., giudizio che, come è ovvio, deve essere compiuto
sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero, dunque degli
esiti dell’attività d’indagine preliminare, quali indicati nell’ordinanza di custodia
cautelare, donde la piena correttezza del richiamo al relativo contenuto
motivazionale.
Il secondo e terzo motivo, congiuntamente esaminabili in uno al secondo
dei motivi aggiunti – in ragione dell’identità di logica contestativa afferente al
profilo della qualificazione giuridica – sono palesemente infondati.
Ed invero, se non è revocabile in dubbio, alla luce di consolidato
insegnamento di questa Corte regolatrice, che, in tema di patteggiamento, il
ricorso per cassazione può denunciare anche l’erronea qualificazione giuridica del
fatto, così come prospettata nell’accordo negoziale e recepita dal giudice, in
quanto la qualificazione giuridica è materia sottratta alla disponibilità delle parti e
l’errore su di essa costituisce errore di diritto rilevante ai sensi dell’art. 606,
comma 1, lett. b), cod. proc. pen. (Sez. U, n. 5 del 19/01/2000, Neri, Rv.
215825); è pur vero che, nondimeno, l’errore sul corretto nomen iuris deve essere
manifesto, sicché può essere dedotto nei soli casi in cui sussista l’eventualità che
l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati, mentre la possibilità del
ricorso per cassazione deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa
qualificazione presenti margini di opinabilità (cfr., pure, Cass. sez. 4, 11.3.2010,
n. 10692, rv. 246394).
Una situazione siffatta non è, di certo, configurabile nel caso di specie,
posto che il giudice a quo, seppur sinteticamente – così come, del resto, si
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inquadrati nell’ambito della previsione del menzionato art. 316 ter.

conviene ad una pronuncia di applicazione di pena concordata, rispetto alla quale
quali l’onere motivazionale é necessariamente contratto – ha dato atto della
corretta qualificazione giuridica della fattispecie, che risulta, per vero, ineccepibile
in rapporto alla specificità e peculiarità delle fattispecie oggetto in esame. D’altro
canto, una diversa qualificazione giuridica presupporrebbe, nel caso di specie,
accertamenti in punto di fatto non consentiti in questa sede di legittimità e,
comunque, incompatibili con la natura pattizia dell’opzione processuale

3. Per quanto precede il ricorso è inammissibile ed alla relativa declaratoria
conseguono le statuizioni dettate in dispositivo, compresa la condanna del
ricorrente al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che,
tenuto conto della peculiarità della vicenda processuale e delle insistite ragioni di
censura, appare congruo ed equo determinare come da dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali ed al versamento della somma di euro 2.000,00 in favore della
Cassa delle Ammende.

Così deciso il 18/10/2013.

rappresentata dal c.d. patteggiamento.

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