Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5547 del 11/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 5547 Anno 2014
Presidente: GENTILE DOMENICO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 11/12/2013

SENTENZA
Sul ricorso proposto nell’interesse di VELARDO Antonio, nato a Napoli
il 29.06.1977, attualmente in custodia cautelare in carcere per questa
causa, rappresentato e assistito dall’avv. Fabio Lattanzi e dall’avv.
prof. Gilberto Lozzi avverso l’ordinanza n. 461/2013 del Tribunale di
Reggio Calabria in funzione di giudice del riesame in data
20.05.2013;
rilevata la regolarità degli avvisi di rito;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
letti i motivi nuovi presentati in data 27.11.2013;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Andrea Pellegrino;
sentita la requisitoria del Sostituto Procuratore generale dott.
Massimo Galli che ha chiesto l’annullamento con rinvio al Tribunale di
Reggio Calabria nonché la discussione della difesa che ha concluso
chiedendo l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata.

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RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza emessa in data 19.02.2013, il Giudice per le indagini
preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria disponeva nei
confronti di VELARDO Antonio la misura cautelare della custodia in
carcere in relazione alla seguente incolpazione:
capo O): reato di cui agli artt. 81, 110, 648-ter cod. pen., 7 I.

203/1991 (in Brancaleone dal 21.12.2006 a tutt’oggi).
Il VELARDO è accusato (in incolpazione) di avere impiegato in
attività economica, in concorso con Cuppari Antonio e Fitzsimons
Henry James, con più azioni esecutive di un medesimo disegno
criminoso, somme di denaro provenienti sia da delitti non colposi non
meglio accertati che da delitti commessi dalla criminalità
organizzata, specificamente dal locale operante in Africo (RC) e
Brancaleone (RC) ed in particolare dal delitto di associazione mafiosa
e dal delitto di traffico di sostanze stupefacenti, nella costruzione del
complesso turistico denominato “Gioiello del Mare” sito nel Comune
di Brancaleone; in particolare, VELARDO impiegando somme di
denaro a partire dal 05.07.2007, data del primo contratto di mutuo
stipulato in favore della RDV dal Fitzsimons. Con l’aggravante di aver
commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416bis cod. pen. e per agevolare l’organizzazione mafiosa denominata
‘ndrangheta ed in particolare il locale di Africo.
1.1. Avverso la predetta ordinanza, VELARDO Antonio proponeva
ricorso per riesame chiedendo l’annullamento del provvedimento
impugnato o, in subordine, la riforma dello stesso con applicazione di
una misura meno afflittiva.
1.2. Con ordinanza in data 20.05.2013, il Tribunale di Reggio
Calabria in funzione di giudice del riesame, rigettava il gravame
confermando il provvedimento impugnato.
1.3. Avverso detto provvedimento veniva proposto ricorso per
cassazione deducendo:
– l’inosservanza dell’art. 648-ter cod. pen. in relazione all’art. 606,
comma 1 lett. b) cod. proc. pen.;
-la violazione dell’art. 125, comma 3 cod. proc. pen. in relazione
all’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen.;
– l’inosservanza dell’art. 7 I. 203/1991 in relazione all’art. 606,

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comma 1 lett. b) cod. proc. pen..
2.

Con riferimento al primo motivo, denuncia il ricorrente la

inconfigurabilità a carico del VELARDO del reato di cui all’art. 648-ter
cod. proc. pen. non potendosi la condotta addebitata al VELARDO
essere sussunta nel modello astratto previsto dalla norma
incriminatrice non avendo il Tribunale di Reggio Calabria individuato i
reati presupposto né tantomeno le condotte materiali ad essi

impugnata

la

sussistenza

dei

reati

sottostanti. Ma non solo. Lamenta il ricorrente come nell’ordinanza
presupposto venga

paradossalmente ricavata non dal riferimento a specifici accadimenti
storici ma dalla detenzione patita in passato dal Fitzsimons per reati
diversi commessi in epoche sconosciute e per il quale lo stesso ha
già scontato, più di trent’anni addietro, la pena di anni otto di
reclusione.
3. Con riferimento al secondo motivo, denuncia il ricorrente come le
censure svolte in sede di riesame circa la provenienza illecita del
denaro di cui alla contestazione erano state completamente ignorate
dal Tribunale di Reggio Calabria il quale, con la tecnica del copiaincolla, aveva pedissequamente e meccanicamente riprodotto le
medesime argomentazioni spese dal giudice per le indagini
preliminari nel provvedimento applicativo della misura in atto.
4. Con riferimento al terzo motivo, denuncia il ricorrente come ad
avviso del Tribunale di Reggio Calabria il delitto di reimpiego di
capitali asseritamente commesso dal VELARDO risulterebbe – in
modo non corretto – aggravato dal fine di agevolare l’attività della
‘ndrangheta, ed in particolare del locale di Africo.
4.1. In particolare, sostiene il ricorrente come dall’elaborazione
giurisprudenziale della Suprema Corte emergerebbe come
l’aggravante in questione presupponga un grado di coinvolgimento
psicologico da parte del soggetto agente che va ben al di là della
mera consapevolezza attribuita al VELARDO circa il fatto che gli
effetti della sua condotta avrebbero potuto riverberarsi a favore di
un’associazione di stampo mafioso: consapevolezza di cui, peraltro,
lo stesso Tribunale di Reggio Calabria avrebbe dimostrato di dubitare
affermando che la finalizzazione dell’azione delittuosa compiuta a
vantaggio di un’associazione di stampo mafioso, anche se non fosse
stata pienamente conosciuta dal richiedente, poteva essere

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correttamente contestata perché conoscibile usando la normale
diligenza.
5. Nei motivi nuovi la difesa denuncia:
– l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 648-ter cod. proc.
pen.;
– la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione con
riferimento alle censure già dedotte avanti al Tribunale del riesame;

-l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 7 I. 203/1991;
– la manifesta illogicità del provvedimento impugnato con riferimento
ai contenuti di talune telefonate intercettate.
5.1. Con riferimento al primo motivo nuovo, evidenzia il ricorrente
come gli specifici riferimenti contenuti nella seconda parte della
contestazione rendono evidente come la fattispecie concorsuale
venga impropriamente evocata in rubrica nei confronti di tutti e tre
gli indagati. In realtà, come al Cuppari si contesta il reimpiego di
somme illecite dal dicembre 2006 senza alcun riferimento ad apporti
concorsuali (morali o materiali) degli altri due indagati, al VELARDO
ed al Fitzsimons si contesta il reimpiego di somme illecite dal luglio
2007 senza alcun riferimento a contributi concorsuali di sorta del
Cuppari: quindi, anche sul mero piano letterale, la contestazione è di
reimpiego “monosoggettivo” a carico del Cuppari e di distinto ed
autonomo reimpiego, questa volta in concorso, tra VELARDO e
Fitzsimons.
Peraltro, dal tenore del provvedimento impugnato non è dato
comprendere da quali elementi sia stata tratta la convinzione che il
ricorrente abbia realizzato in territorio estero un illecito penalmente
rilevante per lo Stato estero nonché se l’illecito fiscale sia stato
commesso da altri o dallo stesso ricorrente.
5.2. Con riferimento al secondo motivo nuovo, si lamenta come
l’apporto motivazionale del provvedimento impugnato in punto
confutazione dei rilievi difensivi enunciati in sede di riesame sia di
fatto mancato: invero, sulla principale doglianza difensiva a sostegno
dell’impugnazione consistente nell’assoluta indeterminatezza della
fattispecie contestata, il Tribunale di Reggio Calabria ha ripetuto alla
lettera le considerazioni espresse dal giudice per le indagini
preliminari con la sola aggiunta del riferimento ai reati fiscali quali
delitto presupposto, non altrimenti precisato e commesso, solo

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verosimilmente, in Irlanda.
5.3. Con riferimento al terzo motivo nuovo, lamenta il ricorrente
come in sostanza il provvedimento impugnato abbia seguito un
percorso interpretativo “destrutturante” che propone un addebito
cautelare completamente sfornito di consistenza oggettiva e
soggettiva nonché aggravato da una circostanza non conosciuta ma
conoscibile con l’ordinaria diligenza. Invero, il riferimento al “ruolo”

rivestito da Cuppari – definito dal Tribunale del riesame interfaccia
della cosca dei Morabito – non può certo costituire in sé, elemento
idoneo a fondare l’aggravante contestata: viene pertanto meno
l’unico elemento richiamato dal provvedimento impugnato posto a
sostegno della ricorrenza dell’aggravante contestata (anche) sotto
forma di avvalimento. E, del resto, pare difficile fare applicazione
della regola giurisprudenziale del “metodo mafioso” ad un
investimento a mezzo bonifico bancario di una somma di denaro,
asseritamente provento di pregressa attività illecita, in un’attività
edilizia perfettamente lecita.
Peraltro, dal momento che il Tribunale di Reggio Calabria ritiene ben
contestata l’aggravante anche in relazione alla sua possibile ulteriore
forma di manifestazione consistente nell’agevolazione dell’attività di
associazione mafiosa, si rende evidente come – in questa ultima
ipotesi – non risulta soddisfatto il requisito giurisprudenziale
consistente nella cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del
sodalizio criminale: conclusione che si trae dal fatto che il ricorrente
persegue un esclusivo interesse personale rappresentato dalla
volontà di locupletazione dell’investimento effettuato.
5.4. Con riferimento al quarto motivo nuovo, evidenzia il ricorrente
come le telefonate (espressamente richiamate nel provvedimento
impugnato) n. 3438, 4350, 4844 e 5234 sono del marzo 2009, in
epoca quindi molto successiva rispetto al tempo di commissione delle
condotte contestate e tali, pertanto, da non poter logicamente
fondare alcuna consapevolezza in capo al ricorrente in ordine
all’aggravante di cui all’art. 7 I. 203/1991.

CONSIDERATO IN DIRITTO

6. Prima di procedere all’esame dei vari profili di doglianza sollevati dal

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ricorrente, si rende prodromico chiarire i limiti di sindacabilità da parte
di questa Corte delle decisioni adottate dal giudice del riesame dei
provvedimenti sulla libertà personale. Secondo l’orientamento di
questa Corte, che il Collegio condivide, l’ordinamento non conferisce al
giudice di legittimità alcun potere di revisione degli elementi materiali
e fattuali delle vicende indagate (ivi compreso lo spessore degli indizi)
né alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive

dell’indagato (ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e
delle misure ritenute adeguate) trattandosi di apprezzamenti rientranti
nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata chiesta
l’applicazione della misura cautelare, nonché del tribunale del riesame.
Il controllo sulla motivazione della Suprema Corte è, dunque,
circoscritto, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.,
alla verifica di tre requisiti, la cui esistenza rende la decisione
intoccabile in sede di legittimità:
a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno
determinata;
b) l’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione, ossia la coerenza
delle argomentazioni rispetto al fine che le hanno determinate;
c)

il mancato affioramento di alcuni dei predetti vizi dall’atto

impugnato (Cass., Sez. 6, n. 5334 del 22.04.1992-dep. 26.05.1993,
Verdelli ed altro, rv. 194203).
Con riguardo al tema dei limiti del sindacato di legittimità, delineati
dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., come vigente a
seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, questa Corte
Suprema ha ripetutamente affermato che la predetta novella non abbia
comportato la possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare
un’indagine sul discorso giustificativo della decisione finalizzata a
sovrapporre una propria valutazione a quella già effettuata dai giudici
di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare
l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso
per sottolineare il suo convincimento. La mancata rispondenza di
queste ultime alle acquisizioni processuali può, soltanto ora, essere
dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il cd. travisamento
della prova, purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le
prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in
volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da

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rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da
parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od
un esame parcellizzato.
7. Fermo quanto precede, i rilievi sollevati dal ricorrente con
riferimento al primo motivo di doglianza, sviluppato con la prima
censura dei c.d. “motivi nuovi”, rendono doveroso procedere ad un
inquadramento dogmatico del reato in contestazione.

7.1. Come è noto, se con il riciclaggio si puniscono le condotte che
mirano a “ripulire” i proventi illeciti, recidendo il loro collegamento
all’attività criminosa [delittuosa] da cui sono derivati, onde impedire
l’accertamento di tale provenienza, con la previsione sanzionatoria
dell’art. 648-ter cod. pen. si vuole reprimere, invece, residualmente, il
reimpiego in attività economiche e finanziarie dei proventi illeciti.
7.2. La ricettazione e il reimpiego hanno in comune la ricezione di
denaro o di altra utilità di provenienza illecita, ma, mentre la
ricettazione richiede una generica attività di profitto che giustifica
l’impiego che del denaro o dell’altra utilità l’agente abbia fatto, proprio
per perseguire l’anzidetta finalità di profitto (per l’effetto tale impiego
costituirebbe un post factum non punibile), nel reimpiego l’elemento
specializzante (e penalmente rilevante) è rappresentato dalla
specificità dell’impiego “in attività economiche o finanziarie”.
7.3. In ragione della “clausola di sussidiarietà” prevista nell’art. 648ter cod. pen., la fattispecie incriminatrice del reimpiego illecito non è
applicabile a coloro che abbiano già commesso il delitto di ricettazione
o quello di riciclaggio e che, successivamente, con determinazione
autonoma (al di fuori, cioè, della iniziale ricezione o sostituzione del
denaro), abbiano poi impiegato ciò che era frutto già di delitti a loro
addebitati: in tale evenienza, il reimpiego del denaro si atteggia,
infatti, come post factum non rilevante. Per converso, la norma
incriminatrice del reimpiego è applicabile a coloro che, con “unicità di
determinazione teleologica originaria” abbiano ricevuto o sostituito
denaro di provenienza illecita per impiegarlo in attività economiche o
finanziarie: in tale evenienza, nel reimpiego è “assorbita” la recedente
attività di ricezione o di sostituzione (cfr., Cass., Sez. 2, n. 16434 del
26/03/2013-dep. 11/04/2013, Piccioni).
7.4. Ai fini della distinzione tra l’ipotesi di reato di cui all’art. 648-ter
cod. pen. (impiego di danaro, beni o utilità di provenienza illecita) e

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quella di cui all’art. 648-bis cod. pen.(riciclaggio), assume decisivo
rilievo l’elemento costituito dalla necessaria contestualità tra la
sostituzione dei beni e la destinazione degli stessi (anche a livello di
determinazione volitiva) non solo alla specifica finalità (propria del
reato di riciclaggio) di far perdere le tracce della loro origine illecita ma
anche a quella di realizzare tale obiettivo proprio mediante l’impiego in
attività economiche o finanziarie (Cass., Sez. 2, n. 4800

dell’11/11/2009-dep. 04/02/2010, Maldini).
7.5. La vera chiave di lettura interpretativa per cogliere il proprium del
reimpiego, e le differenze rispetto alla ricettazione comune, passa
necessariamente attraverso il significato normativo da attribuire
all’espressione “attività economiche o finanziarie”, che, nel difetto di
esplicite indicazioni ricavabili dallo stesso art. 648-ter cod. pen., si
deve necessariamente trarre da altre norme, contenenti la relativa
definizione. Al riguardo, un’importante ausilio per poter dare
concretezza al concetto di “attività economica”, lo si trova nell’art.
2082 cod. civ. che, nel definire la nozione giuridica di imprenditore,
qualifica come tale colui che “esercita professionalmente un’attività
economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni
o di servizi”, e nei successivi artt. 2135 e 2195 dello stesso codice che,
a loro volta, qualificano l’imprenditore agricolo e quello commerciale.
Perchè possa parlarsi di attività economica (anche ai fini sanzionatori
del “reimpiego” illecito) occorre si sia in presenza di un’attività
finalizzata alla “produzione” o allo “scambio” di beni o di servizi,
dovendosi intendere per tale, comunque, non solo l’attività produttiva
in senso stretto, ossia quella diretta a creare nuovi beni o servizi, ma
anche l’attività di scambio e di distribuzione dei beni nel mercato del
consumo, ed altresì ogni altra attività che possa rientrare in una di
quelle elencate nelle sopra menzionate norme del codice civile. In una
tale ottica, in questo concetto di attività economica, rientra anche
l’attività di finanziamento (cioè l’attività in forza della quale un
soggetto presta professionalmente denaro a chi lo richieda, mediante
contratti di mutuo od altri contratti di credito), che è tipica attività di
scambio, in quanto nel contratto di mutuo e, più in generale, nei
contratti di credito la dazione del denaro è effettuata a titolo oneroso.
Anche tale attività può rilevare ai fini del “reimpiego” illecito, giacchè è
a questa che la norma incriminatrice si riferisce allorquando richiama la

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nozione di “attività finanziaria”. Nel difetto di indicazioni in senso
contrario contenute nel testo dell’ art. 648-ter cod. pen., perchè si
possa parlare di impiego penalmente perseguibile in attività
economiche e/o finanziarie non è neppure imposto un limite
quantitativo minimo al valore dell’investimento: può configurare
pertanto l’elemento oggettivo del reato anche il reimpiego di una
modesta somma di denaro provento di una qualsiasi attività delittuosa.

Un limite che deve ritenersi sussistente concerne, invece, le modalità e
la direzione dell’impiego. Se questo deve essere effettuato nell’ambito
di “attività” economiche o finanziarie, occorre in sostanza che si sia in
presenza di condotte professionali, caratterizzate dai requisiti della
stabilità e/o della non occasionalità: non può così ritenersi sussistente
il reato di cui all’art. 648-ter cod. pen. nel comportamento di chi,
occasionalmente, abbia speso in un esercizio commerciale una somma
di denaro proveniente da delitto: tale soggetto sarà chiamato a
rispondere normalmente di ricettazione, in relazione alla precedente
condotta di ricezione della somma, ovvero di riciclaggio, laddove
l’intento perseguito sia stato quello della “ripulitura” del compendio
criminoso. Laddove l’investimento sia effettuato nell’ambito di “attività”
economiche e/o finanziarie nel senso suindicato deve invece ribadirsi
l’irrilevanza dei profili quantitativi dello stesso, che possono semmai
essere tenuti in considerazione ai fini della determinazione della pena:
ricorrerà quindi il reato di cui all’art. 648-ter cod. pen. nel
comportamento di chi investa i proventi illeciti (pur quantitativamente
modesti) nell’ambito della propria attività imprenditoriale, organizzata
e gestita professionalmente, mentre la pochezza quantitativa della
somma reimpiegata potrà essere tenuto in conto ai fini del trattamento
sanzionatorio e/o della concessione delle circostanze attenuanti
generiche.
8. Inquadrata la figura delittuosa in contestazione e passando al primo
motivo di doglianza – ripreso e sviluppato nel primo c.d. “motivo
nuovo” – ritiene questo Collegio come lo stesso appaia fondato ed
imponga l’accoglimento del ricorso.
Secondo Fa ricostruzione del Tribunale di Reggio Calabria, l’accusa
distingue due separate e diverse operazioni di reimpiego realizzate in
tempi diversi e con risorse finanziarie diverse: una prima operazione
condotta dal coindagato Cuppari nel dicembre 2006 con denari

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provenienti dal delitto di associazione mafiosa e traffico di sostanze
stupefacenti ed una seconda operazione di reimpiego effettuata dal
VELARDO in concorso con il Fitzsimons con denari provenienti dal
terrorismo ed altri reati nel luglio del 2007: la provenienza da reato
fiscale del denaro reimpiegato dal VELARDO e dal Fitzsimons è
formulata in via di mera ipotesi dal Tribunale di Reggio Calabria e
s’incanala verso una non consentita criminalizzazione

dell’autoriciclaggio da reato tributario. Il Tribunale di Reggio Calabria,
in risposta alla censura difensiva relativa all’esatta individuazione del
delitto presupposto del reato di reimpiego ascritto al VELARDO
evidenzia come “… le ingenti movimentazioni di denaro indirizzate dalla
VFI di Fitzsimons e VELARDO alla RDV di Cuppari Antonio …
costituiscono – quantomeno – frutto di illeciti di natura fiscale secondo
la legislazione del paese di provenienza”:

pertanto, l’ordinanza

impugnata, come correttamente evidenziato dalla difesa, nel tentativo
di superare le censure mosse in merito all’assoluta indeterminatezza
della contestazione in punto provenienza da delitto delle somme
reimpiegate (delitti non colposi, non meglio accertati, verosimilmente
commessi in territorio irlandese), finisce per adottare una
interpretazione “alternativa” (rispetto a quella individuata dal giudice
per le indagini preliminari) dell’addebito tale da riaffermare in ogni
caso la non riferibilità all’indagato del segmento di condotta
concernente i proventi di associazione a delinquere di stampo mafioso
e traffico di stupefacenti.
Peraltro, se in ossequio alla giurisprudenza consolidata di questa Corte,
con riferimento all’accertamento del reato presupposto, la prova del
verificarsi del delitto che costituisce antecedente necessario non
presuppone un giudiziale accertamento, né l’individuazione del
responsabile, bastando che il fatto risulti positivamente al giudice
chiamato a conoscere del reato di cui agli artt. 648, 648-bis, 648-ter
cod. pen. ovvero essere delineato nell’imputazione ed accertato in
esito al processo anche solo per sommi capi quanto alle esatte
modalità di commissione (cfr., Cass., Sez. 2, n. 36913 del
28/09/2011-dep. 13/10/2011, Lopalco, rv. 251151; Cass. n. 36940 del
21/05/2008-dep. 26/09/2008, Magnera, rv. 241581), è altrettanto
vero che – pur in presenza di una condivisibile e consolidata
“tolleranza” interpretativa – resti comunque indispensabile che il delitto

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presupposto risulti almeno astrattamente configurabile (Cass., Sez. 5,
n. 495 del 15/10/2008-dep. 09/01/2009, Argiri Carrubba, rv. 242374)
ed individuato – quantomeno – in ordine alla sua tipologia ed alle
coordinate (non solo temporali) atte a tratteggiarlo: ciò non si verifica
allorquando il giudice si limiti semplicemente ad ipotizzare l’esistenza
del reato presupposto, sulla base del carattere sospetto delle
operazioni di una non meglio precisata precedente attività delittuosa.

Nella fattispecie, non solo non risulta raggiunta la soglia
dell’accertamento giudiziale del reato presupposto né risulta nemmeno
indicato (nei limiti sopra precisati) il genus dell’illecito presupposto, ma
nemmeno risulta integrato il “sospetto amministrativo” di riciclaggio,
ossia quella particolare situazione che – ai sensi dell’art. 41 d.lvo n.
231/2007 – impone ai destinatari della disciplina antiriciclaggio, la
segnalazione dell’operazione sospetta di riciclaggio-reimpiego all’UIF.
Ma non solo. Nessuna indicazione fornisce il Tribunale di Reggio
Calabria sugli elementi in base ai quali ritiene che il VELARDO avesse
realizzato in territorio estero (verosimilmente, ma non sicuramente, in
Irlanda) un illecito penalmente rilevante per lo Stato estero e se
l’illecito fiscale sia stato commesso da altri o dallo stesso ricorrente. A
questo riguardo, evidente appare l’errore del Tribunale di Reggio
Calabria che non sembra considerare il c.d. “privilegio di
autoriciclaggio” di cui all’incipit dell’art. 648-ter cod. pen. che esclude
da sanzione penale il soggetto che realizza condotte di reimpiego
(nonché riciclaggio e ricettazione) su utilità provenienti da delitto
presupposto dal medesimo commesso.
9. Fermo quanto precede, ritiene il Collegio come il provvedimento
impugnato ricostruisca il delitto contestato al prevenuto in termini così
sfumati e generici in relazione all’individuazione del delitto presupposto
– avendo proceduto a riferirsi a mere ipotesi di reato sfornite da
connotazione materiale e, al contempo, di qualificazione giuridica – da
concretare il vizio di omessa ed erronea motivazione sui punti sopra
evidenziati, ex art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., cui segue
l’annullamento con del provvedimento impugnato.
10. Passando al secondo motivo di doglianza (ripreso nel secondo
“motivo nuovo”), lamenta il ricorrente l’uso, o meglio l’abuso, da parte
del Tribunale di Reggio Calabria della tecnica del copia-incolla
evidenziando come il provvedimento impugnato abbia ricalcato, anche

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nei refusi, la richiesta del pubblico ministero di applicazione della
misura cautelare. Questo motivo risulta infondato. Invero, se è stato
ritenuto nullo per difetto di motivazione il provvedimento del giudice
che riproduca alla lettera ampi stralci della parte motiva di altra
pronuncia, è altrettanto vero che la medesima giurisprudenza fa salva
l’ipotesi nella quale l’utilizzo di detta tecnica di redazione manifesti una
autonoma rielaborazione da parte del decidente e dia adeguata

risposta alle doglianze proposte dal ricorrente (Cass., Sez. 4, n. 7031
del 05/02/2013-dep. 12/02/2013, Conti, rv. 254937).
Nella fattispecie, il ricorso a detta tecnica compilativa non appare
censurabile e, soprattutto, non ha determinato nullità del
provvedimento avendo i giudici di seconde cure provveduto a fornire
una valutazione autonoma del materiale probatorio sottoposto alla loro
cognizione (v. pag. 27 e ss. del provvedimento).
11. Pari giudizio di infondatezza va rivolto nei confronti del terzo
motivo di doglianza, ripreso nel terzo e nel quarto “motivo nuovo”.
Al riguardo va evidenziato come il Tribunale di Reggio Calabria, con
motivazione totalmente scevra di vizi ed incompletezza, ha tratto la
ricorrenza dell’aggravante in contestazione in capo al VELARDO dalla
condivisione di intenti e dal lavoro a così stretto contatto – disvelato
eloquentemente dalle intercettazioni captate – svolto con esponenti
della criminalità organizzata.
Condivisibile l’orientamento giurisprudenziale sul punto (Cass., Sez. 5,
n. 10966 del 08/11/2012-dep. 08/03/2013, Minniti, rv. 255206)
secondo cui la circostanza aggravante di cui all’art. 7 D.L. n. 152 del
1991, convertito nella legge n. 203 del 1991 – integrata dalla finalità di
agevolare l’associazione di tipo mafioso – ha natura oggettiva e si
trasmette, pertanto, a tutti i concorrenti nel reato, di guisa che è
sufficiente che l’aspetto volitivo – espresso nella norma con il
riferimento al “fine di agevolare” l’associazione mafiosa – sussista in
capo ad alcuni, o anche ad uno soltanto, dei predetti concorrenti nel
medesimo reato; così come giustificata appare la valutazione
dell’attribuibilità della medesima aggravante a chi ignorasse la
finalizzazione della condotta delittuosa ma versi in una situazione di
ignoranza colpevole (Cass., Sez. 6, n. 24025 del 30/05/2012-dep.
18/06/2012, Di Mauro, rv. 253114).
12. In conclusione, il ricorso – per le motivazioni precedentemente

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addotte – va accolto con conseguente annullamento del provvedimento
impugnato e rinvio al Tribunale di Reggio Calabria, in diversa
composizione, per nuovo esame.
Si provveda a norma dell’art. 94 comma 1 ter disp. att. cod. proc.
pen..

Annulla con rinvio al Tribunale di Reggio Calabria per nuovo esame.
Si provveda a norma dell’art. 94 comma 1 ter disp. att. cod. proc. pen..
Così deliberato in Roma 1’11.12.2013

Il Presidente

Il Consigliere estensore
Dott. Andrea Pellegrino
/

Dot

smenico 1Gentile

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