Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5535 del 16/01/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 5535 Anno 2014
Presidente: GALLO DOMENICO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 16/01/2014

SENTENZA
Sul ricorso proposto da CAMPAGNONI Lucas, n. a Salvador Bahia
(Brasile) il 24.10.1986, rappresentato e assistito dall’avv. Francesco
Vinciguerra avverso la sentenza n. 2339/2012 della Corte d’Appello di
Milano, terza sezione penale, in data 28.09.2012;
rilevata la regolarità degli avvisi di rito;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale dott. Massimo
Galli, il quale ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso o, in
subordine, il rigetto.

RITENUTO IN FATTO

1

1. Con la pronuncia impugnata, la Corte d’Appello di Milano, terza
sezione penale, confermava la sentenza resa nel giudizio di primo
grado celebrato dal Giudice monocratico presso il Tribunale di
Busto Arsizio, sezione distaccata di Gallarate, che in data
26.09.2011 aveva condannato CAMPAGNONI Lucas alla pena di
anni uno, mesi due di reclusione ed euro 150,00 di multa per i
reati, unificati dal vincolo della continuazione, sotto indicati:

capo A) art. 56, 629 cod. pen.;
capo B) art. 610 cod. pen..
Secondo l’Accusa, il CAMPAGNONI, con minaccia consistita nel
rivolgersi a Kaipage Lasitha dicendogli che lo avrebbe picchiato
fuori dalla stazione se non gli avesse consegnato la somma di
euro 50,00 che gli serviva per saldare un debito contratto con
alcuni spacciatori per precedenti acquisti di quantitativi imprecisati
di sostanza stupefacente, costringendo la vittima a consegnargli
del denaro, compiva atti univocamente diretti ad ottenere la
disponibilità della somma suindicata, non riuscendo nel proprio
intento per cause indipendenti dalla propria volontà e
segnatamente per la ferma opposizione dell’uomo (capo A);
inoltre, il CAMPAGNONI è accusato di aver costretto Kaipage
Lasitha, con violenza consistita nell’afferrare le mani dello stesso
nel tentativo di strappargli il telefono cellulare nella sua
disponibilità, a non effettuare una chiamata alla Stazione dei
Carabinieri finalizzata a richiederne l’intervento per la patita
aggressione (capo B).
2. Avverso tale sentenza, CAMPAGNONI proponeva ricorso per
cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata
per il seguente unico motivo:
-mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione (art.
606, comma 1 lett. e cod. proc. pen.).
In relazione allo stesso, il CAMPAGNONI lamentava quanto già
espressamente contestato in sede di ricorso in appello e cioè che
le gravi accuse mosse nei suoi confronti mosse dal querelante
circa un’illecita attività di detenzione e cessione di sostanza
stupefacente ai fini di spaccio, che avrebbero dovuto
rappresentare il presupposto della richiesta estorsiva, non
avevano avuto alcun riscontro.

2

CONSIDERATO IN DIRITTO

3.

Il ricorso è manifestamente infondato e, come tale, inammissibile.

4.

Invero, il ricorrente reitera censure già proposte avanti al giudice
di secondo grado che le ha disattese con motivazione congrua e
ampiamente giustificata.

Afferma al riguardo la Suprema Corte come debbano considerarsi
inammissibili i motivi che si limitino a riprodurre le censure
dedotte in appello, anche se con l’aggiunta di frasi incidentali di
censura alla sentenza impugnata meramente assertive ed
apodittiche, laddove difettino di una critica argomentata avverso il
provvedimento “attaccato” e l’indicazione delle ragioni della loro
decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice di merito
(Cass., Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo e altri, rv.
254584).
Invero, nella fattispecie, appare evidente che, nonostante si
censuri l’errata applicazione di talune disposizioni di legge,
vengono nella sostanza avanzate censure che tendono a proporre
una diversa lettura – più favorevole all’imputato – delle risultanze
processuali, non ammissibile in sede di legittimità. Come è noto,
infatti, in tema di sindacato del vizio della motivazione, il compito
del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria
valutazione a quella compiuta dal giudice di merito in ordine
all’affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se nel giudizio
di merito siano stati esaminati tutti gli elementi, se sia stata
fornita una corretta interpretazione di essi e se siano state
esattamente applicate le regole della logica nello sviluppo delle
argomentazioni che hanno giustificato la scelta di affermare la
responsabilità penale dell’imputato.
5.

Il ricorso, pertanto, è da considerarsi inammissibile ogni qual
volta -come nella fattispecie- si deducano sostanzialmente motivi
non consentiti in sede di legittimità: per risalente giurisprudenza,
eccede infatti dalla competenza della Corte di cassazione ogni
potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi
di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di
merito.

3

Il controllo sulla motivazione della Suprema Corte è, dunque,
circoscritto, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc.
pen., alla verifica di tre requisiti, la cui esistenza rende la
decisione intoccabile in sede di legittimità:
1)

l’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che
l’hanno determinata;

2)

l’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione, ossia la

coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che le hanno
determinate;
3)

il mancato affioramento di alcuni dei predetti vizi dall’atto
impugnato (Cass., Sez. 6, n. 5334 del 22.04.1992-dep.
26.05.1993, Verdelli ed altro, rv. 194203).

6. Invero, la linea argomentativa sviluppata dai giudici di merito è
immune da qualsiasi caduta di consequenzialità logica,
evidenziabile dal testo del provvedimento, mentre il tentativo del
ricorrente di prospettare una diversa ricostruzione del fatto si
risolve, per l’appunto, nella prospettazione di una lettura
soggettivamente orientata del materiale probatorio alternativa a
quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito nel
tentativo di sollecitare quello di legittimità ad una rivisitazione
degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o
all’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione
e valutazione dei medesimi, che invece gli sono precluse ai sensi
della lett. e) del citato art. 606.
7. Su queste premesse rileva il Collegio come la versione della
persona offesa fosse pienamente attendibile e priva dei contrasti
reclamati dal ricorrente.
8.

Ne consegue l’inammissibilità del ricorso e, per il disposto dell’art.
616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali nonché al versamento, in favore della
Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in euro
1000,00

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento

4

delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle
ammende.

Così deliberato in Roma, in udienza pubblica del 16.1.2014

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