Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5533 del 16/01/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 5533 Anno 2014
Presidente: GALLO DOMENICO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 16/01/2014

SENTENZA
Sul ricorso proposto nell’interesse di VATTA Matteo, n. a Monza il
20.09.1966, rappresentato e assistito dall’avv. Patrizio Lepiane
avverso la sentenza n. 6476/2012 della Corte d’Appello di Milano,
quarta sezione penale, in data 12.03.2013;
rilevata la regolarità degli avvisi di rito;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale dott. Massimo
Galli, il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato
sentita la discussione della difesa avv. Giacomo Tranfo, comparso in
sostituzione dell’avv. Patrizio Lepiane, che ha concluso chiedendo che
sentenza impugnata fosse annullata senza rinvio o, in subordine, con
rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano.

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RITENUTO IN FATTO

1. Con la pronuncia impugnata, la Corte d’Appello di Milano, quarta
sezione penale, confermava la sentenza resa nel giudizio di primo
grado celebrato dal Giudice monocratico presso il Tribunale di
Monza che in data 02.12.2011 aveva condannato VATTA Matteo
alla pena di mesi sette di reclusione ed euro 200,00 di multa per i

reati, unificati dal vincolo della continuazione, sotto indicati:
capo A) art. 640, 61 n. 11 cod. pen.;
capo B) art. 485 cod. pen..
Secondo l’Accusa, il VATTA, abusando del rapporto di prestazione
d’opera e con artifizi e raggiri, consistiti nel farsi nominare
difensore dalla parte lesa per il recupero di un credito di euro
71.790,00 nei confronti di Vona Natale, sostenendo falsamente di
aver ottenuto un autonomo pignoramento presso terzi in Spagna
con il patrocinio dell’ (inesistente) avv. Munoz di Barcellona, e che
tramite intervento per suo conto poteva recuperare almeno la
somma di euro 60.000,00, induceva in errore Vismara Achille,
procurandosi in suo danno un ingiusto profitto di euro 10.000,00
pari alla somma che gli veniva consegnata dalla parte lesa quale
fondo spese (capo A); inoltre, il VATTA è accusato di aver formato
– al fine di trarne vantaggio e segnatamente per simulare gli esiti
positivi del proprio patrocinio – una falsa scrittura di assegnazione
delle somme richieste, apparentemente emessa dal Tribunale
Arbitrale di Barcellona il 23.02.2007, di cui faceva uso esibendola
in copia al proprio cliente Vismara Achille (capo B).
2. Avverso tale sentenza, nell’interesse di VATTA Matteo veniva
proposto ricorso per cassazione per i seguenti motivi:
-violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento
all’art. 420-ter cod. proc. pen. (motivo primo);
-illegittima, illogica, contraddittoria ed errata valutazione delle
prove e degli elementi indiziari acquisiti nel corso dell’istruttoria
dibattimentale (motivo secondo);
3. In relazione al primo motivo, censura il ricorrente il
provvedimento della Corte d’Appello di Milano che in data
12.03.2013 aveva rigettato la richiesta di rinvio per legittimo
impedimento dell’imputato, affetto dal morbo di Crohn, nel cui

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interesse era stato presentato un certificato medico con
l’indicazione di una necessità di “astensione lavorativa a tutto il
(s.c.) 17.03.2013 per motivi di salute”, senza disporre adeguata
visita fiscale presso il luogo di degenza, corrispondente a quello di
residenza del ricorrente.
4. In relazione al secondo motivo, lamenta il ricorrente come la
sentenza d’appello presentasse in più punti vizi e carenze

motivazionali. Il ricorrente, riprendendo e richiamando
formalmente in questa sede le doglianze di merito avanzate con
l’atto di appello, evidenziava altresì come:

i cd. rapportini inviati via fax provassero solo la loro

trasmissione alle utenze n. 039.322551 e 039.2303289;
– fosse tutto da spiegare il motivo per cui il Vismara, al fine di
trasmettere fax all’imputato, non avesse utilizzato il numero
diretto ma li avesse trasmessi ad un numero diverso e
precisamente a quello dello studio per il quale il VATTA
collaborava;
– l’affermazione della Corte d’Appello di Milano in merito alla
dichiarazione rilasciata sulla copia del fax, datata 28.06.2007,
nella quale l’imputato avrebbe fatto riferimento ad “un proprio
corrispondente in Spagna” non corrispondesse alle risultanze
documentali.

CONSIDERATO IN DIRITTO

5. Il ricorso è infondato con riferimento al primo motivo di doglianza
e manifestamente infondato con riferimento al secondo: s’impone
così un provvedimento di rigetto.
6. Con riferimento al primo motivo (esistenza di un dedotto legittimo
impedimento dell’imputato per motivi di salute), si evidenzia come
il provvedimento della Corte d’Appello di Milano che in data
12.03.2013 aveva rigettato l’istanza di differimento così
motivando: “… rilevato che il certificato medico non indica alcuna
patologia che possa essere comunque valutata e prescrive solo
un’astensione dal lavoro non valutabile dalla Corte come
impedimento assoluto a comparire rispetto ad una diagnosi clinica
inesistente, rigetta l’istanza …”:

provvedimento (il verbale

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dell’udienza del 12.03.2013) acquisito tramite accesso al fascicolo
processuale in conseguenza del dedotto motivo di carattere
processuale ed essendo stato dal ricorrente specificamente
indicato l’atto dal quale si ritiene derivino conseguenze giuridiche
o quello affetto dal vizio denunziato (Cass., Sez. 4, n. 25310 del
07/04/2004, Ardovino e altri, rv. 228953).
7. Una certificazione medica che, come quella di cui qui si discute,

ometta di indicare la natura della malattia ma si limiti
all’indicazione di una necessità di “astensione lavorativa per
motivi di salute” pur se con l’indicazione temporale della sua
durata è correttamente disattesa dal giudice di merito.
Come è noto, l’impedimento a comparire dell’imputato, invero,
oltre che grave e assoluto, deve essere attuale, cioè riferito
all’udienza per la quale egli sia stato citato, in quanto
l’impossibilità a presenziare alla stessa deve risultare dagli
elementi addotti, non altrimenti superabili dal soggetto. E va
aggiunto che, diversamente dal dedotto, il giudice di merito non
ha alcun obbligo di disporre accertamenti fiscali per accertare
l’assoluto impedimento a comparire, al fine di completare
l’insufficiente documentazione prodotta. È poi del tutto privo di
pregio il riferimento alla normativa sulla

privacy,

che non

consentirebbe al medico di indicare nella certificazione la patologia
da cui risulta affetto il proprio assistito nei tempi di degenza ad
essa connessi: tale normativa garantisce, in ambito sanitario, che
il “trattamento dei dati personali” si svolga nel rispetto dei diritti,
delle libertà fondamentali, nonché della dignità della persona
fisica, con particolare riguardo alla “riservatezza” e “all’identità
personale”, si pone cioè a tutela del paziente e dunque non
concerne certamente il caso in cui sia proprio quest’ultimo a
richiedere la certificazione medica che ne attesti lo stato di salute
onde avvalersene per gli usi che liberamente intende fare, quale
quello di esibizione in sede giudiziaria per dimostrare il proprio
impedimento a comparire in udienza: da qui l’infondatezza del
motivo.
8. Con riferimento al secondo motivo di doglianza, il ricorrente
reitera censure già proposte avanti al giudice di secondo grado

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che le ha disattese con motivazione congrua e ampiamente
giustificata.
Afferma al riguardo la Suprema Corte come debbano considerarsi
inammissibili i motivi che si limitino a riprodurre le censure
dedotte in appello, anche se con l’aggiunta di frasi incidentali di
censura alla sentenza impugnata meramente assertive ed
apodittiche, laddove difettino di una critica argomentata avverso il

provvedimento “attaccato” e l’indicazione delle ragioni della loro
decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice di merito
(Cass., Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo e altri, rv.
254584).
Invero, nella fattispecie, appare evidente come vengano nella
sostanza avanzate doglianze che tendono a proporre una diversa
lettura – più favorevole all’imputato – delle risultanze processuali,
non ammissibile in sede di legittimità. Come è noto, infatti, in
tema di sindacato del vizio della motivazione, il compito del
giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria
valutazione a quella compiuta dal giudice di merito in ordine
all’affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se nel giudizio
di merito siano stati esaminati tutti gli elementi, se sia stata
fornita una corretta interpretazione di essi e se siano state
esattamente applicate le regole della logica nello sviluppo delle
argomentazioni che hanno giustificato la scelta di affermare la
responsabilità penale dell’imputato.
9. Il ricorso, pertanto, è da considerarsi inammissibile – in parte qua
– ogni qual volta si deducano sostanzialmente motivi non
consentiti in sede di legittimità: per risalente giurisprudenza,
eccede infatti dalla competenza della Corte di cassazione ogni
potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi
di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di
merito. Il controllo sulla motivazione della Suprema Corte è,
dunque, circoscritto, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod.
proc. pen., alla verifica di tre requisiti, la cui esistenza rende la
decisione intoccabile in sede di legittimità:
1)

l’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che
l’hanno determinata;

2)

l’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione, ossia la

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coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che le hanno
determinate;
3) il mancato affioramento di alcuni dei predetti vizi dall’atto
impugnato (Cass., Sez. 6, n. 5334 del 22.04.1992-dep.
26.05.1993, Verdelli ed altro, rv. 194203).
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Suprema Corte
non deve stabilire se la decisione di merito proponga

effettivamente la migliore possibile ricostruzione di fatti ne’ deve
condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se
questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con “i
limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”, secondo una
formula giurisprudenziale ricorrente.
10. Invero, nella fattispecie, la linea argomentativa sviluppata dal
giudice di merito è immune da qualsiasi caduta di
consequenzialità logica, evidenziabile dal testo del provvedimento,
mentre il tentativo del ricorrente di prospettare una diversa
ricostruzione del

fatto si

risolve,

per l’appunto,

nella

prospettazione di una lettura soggettivamente orientata del
materiale probatorio alternativa a quella fatta motivatamente
propria dal giudice di merito nel tentativo di sollecitare quello di
legittimità ad una rivisitazione degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o all’autonoma adozione di nuovi e
diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei medesimi, che
invece gli sono precluse ai sensi della lett. e) del citato art. 606.
11. Su queste premesse rileva il Collegio come la persona offesa
costituita parte civile, Vismara Achille, sostenga di aver versato la
somma di diecimila euro all’imputato quale fondo spese per
un’azione di recupero crediti verso tale Vona all’autorità giudiziaria
spagnola e di aver ottenuto una cambiale “a garanzia”; di contro,
l’imputato sostiene invece di aver ricevuto in prestito dalla parte
civile la somma di diecimila euro e di averla restituita nonché di
essere detta cambiale la garanzia relativa a tale prestito. La Corte
d’Appello, come si è detto, con motivazione immune da vizi
logico-giuridici, anche sulla base di risultanze documentali in atti,
attribuisce patente di credibilità alla versione della persona offesa,
sulla base dei seguenti elementi:
-esistenza di un riconoscimento di debito, datato 29.09.2008,

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dell’imputato per diecimila euro portati da una cambiale, a fronte
del quale la parte civile, con scritto 09.10.2008, inviato via fax
all’imputato il 10.10.2008, ha aderito alla proposta di restituzione
dei diecimila di cui al succitato riconoscimento di debito;
-pervenimento del fax (ove era riprodotto il provvedimento – in
realtà inesistente – di assegnazione delle somme pignorate
emesso dal Presidente del Tribunale Arbitrale di Barcellona il

23.02.2007) presso lo studio dell’imputato (come dal medesimo
ammesso all’udienza del 23.09.2011);
-consegna di copia del fax dall’imputato alla parte civile (come
ammesso

dall’imputato

all’udienza

del

23.09.2011)

ed

inserimento su detta copia scritta di pugno dell’imputato, che
aveva apposto anche la propria sottoscrizione, di aver ricevuto il
documento a mezzo fax da parte del corrispondente di Spagna
(come ammesso dall’imputato nel corso del proprio esame);
-apposizione della firma “Vatta”, disconosciuta dall’imputato ma
non con certezza, in calce all’atto di pignoramento prodotto dalla
parte civile;
– plausibilità oggettiva della versione della parte civile di aver
versato i diecimila euro in contanti e di aver ottenuto la cambiale
a garanzia, dovendo quest’ultima “lasciare traccia” del
versamento essendo mancata la fatturazione del “fondo spese”;
-ammissione della stessa parte civile (testimonianza resa
all’udienza del 04.02.2011) sul fatto che la cambiale non recasse
data ed importo ma soltanto la firma (falsa) di Gaiani Giovanna ed
il nome del beneficiario (Vatta Matteo) e che sul titolo la stessa
parte civile avesse inserito l’indicazione dell’importo (euro
diecimila) per poi porlo all’incasso pur sapendo che la firma Gaiani
fosse falsa.
12.AI rigetto del ricorso consegue, per il disposto dell’art. 616 cod.
proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

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Così deliberato in Roma, in udienza pubblica del 16.1.2014

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