Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5531 del 16/01/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 5531 Anno 2014
Presidente: GALLO DOMENICO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 16/01/2014

SENTENZA
Sui ricorsi proposti avverso la sentenza n. 441/2011 della Corte
d’Appello di Catania, seconda sezione penale del 14.05.2012,
nell’interesse rispettivamente di:
– REITANO Giovanni, n. a Riposto 1’01.06.1966, rappresentato e
assistito dall’avv. Ernesto Pino;
– SARDO Carmelo, n. a Catania il 22.06.1962, rappresentato e
assistito dall’avv. prof. Delfino Siracusano e dall’avv. Salvatore Liotta;
– VADALA’ Giuseppe, n. a Mascali (CT) il 07.06.1951, rappresentato e
assistito dall’avv. Belinda Zisa;
rilevata la regolarità degli avvisi di rito;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale dott. Massimo
Galli, il quale ha concluso chiedendo in principalità il rigetto di tutti i

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ricorsi e, in subordine, la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite
della Suprema Corte;
sentita la discussione dell’avv. Pino che ha concluso chiedendo in
principalità la rimessione del contrasto giurisprudenziale alle Sezioni
Unite della Suprema Corte e, in subordine, l’annullamento del
provvedimento impugnato nonché dell’avv. Liotta che ha concluso
chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con

rideterminazione della pena finale.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 30.11.2000 in esito a giudizio
abbreviato, il Giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale
di Catania condannava REITANO Giovanni e SARDO Carmelo alla
pena di anni dieci e mesi quattro di reclusione ciascuno, VADALA’
Giuseppe alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione e L.
34.000.000 di multa, avendo riconosciuto REITANO e SARDO
colpevoli dei reati di cui:
-(capo A) agli artt. 74, comma 2 d.P.R. n. 309/1990 e 7 I. n.
203/1991, per aver fatto parte dell’associazione finalizzata al
traffico di sostanze stupefacenti (eroina, cocaina e marijuana)
promossa ed organizzata da Brunetto Paolo e Lazzaro Pietro (in
Fiumefreddo e dintorni sino al 1996);
-(capo B) agli artt. 81 cpv., 110, 112 n. 1 cod. pen. e 73 d.P.R. n.
309/1990, 7 I. n. 203/1991 per aver praticato il traffico illecito di
sostanze stupefacenti di vario tipo (in Fiumefreddo e paesi
limitrofi fino al 1996, reati unificati dal vincolo della
continuazione);
VADALA’ colpevole del reato di cui agli artt. 81 cpv., 110, 112 n. 1
cod. pen., 73 d.P.R. n. 309/1990 per aver concorso nel traffico
illecito di sostanze stupefacenti di vario tipo (in Fiumefreddo e
paesi limitrofi fino al 1996).
La Corte d’Appello di Catania, con sentenza in data 17.06.2009,
riformando in parte quella di primo grado, assolveva REITANO e
SARDO dal reato di cui all’art. 74, comma 2 d.P.R. n. 309/90 per
non aver commesso il fatto e confermava il giudizio di

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colpevolezza nei confronti dei predetti in ordine al reato di cui
all’art. 73 d.P.R. n. 309/90 rideterminando la pena.
A seguito di ricorso per cassazione, la Suprema Corte, con
sentenza n. 1666 resa dalla sesta sezione penale in data
06.10.2010, annullava la sentenza d’appello nei confronti di
SARDO e di VADALA’ e, per l’effetto estensivo, nei confronti di
REITANO, limitatamente alla determinazione delle pene,

osservando:
a) che la Corte territoriale, nel determinare la pena per il SARDO
in relazione al reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/1990 non
esplicita il relativo calcolo e non è dato, dunque, comprendere
come sia venuta a fissare la misura della pena in anni sei di
reclusione ed euro 26.000,00 di multa, misura che coincide
con il minimo edittale attualmente previsto dalla norma
incriminatrice e che non sembra tenere conto della diminuente
del rito abbreviato;
b) che, nel confermare la condanna inflitta in primo grado al
VADALA’ e il relativo trattamento sanzionatorio, la Corte
territoriale non ha tenuto conto della legge n. 46/2006 che ha
modificato in senso più favorevole al reo la misura minima
della pena detentiva prevista dall’art. 73 d.P.R. n. 309/90:
applicazione della norma più favorevole che avrebbe dovuto
indurre il giudice distrettuale a rivalutare il trattamento
sanzionatorio, soprattutto perché in primo grado la pena
detentiva base era stata fissata nella misura minima all’epoca
prevista (anni otto di reclusione);
c) che al REITANO, chiamato a rispondere di concorso nello
stesso reato attribuito al SARDO, andavano estesi, ai sensi
dell’art. 587 cod. proc. pen., gli effetti dell’impugnazione da
quest’ultimo proposta in punto di pena e non fondata su motivi
esclusivamente personali, con la conseguenza che la sentenza
impugnata

doveva

essere

annullata,

nella

parte

corrispondente, anche nei confronti del REITANO.
2. Con sentenza in data 14.05.2012, la Corte d’Appello di Catania,
seconda sezione penale, decidendo sul rinvio disposto dalla
Suprema Corte, in riforma della sentenza emessa in data
30.11.2010 dal Giudice per l’udienza preliminare presso il

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Tribunale di Catania nei confronti di REITANO Giovanni, SARDO
Carmelo e VADALA’ Giuseppe e dai medesimi appellata,
determinava la pena nei confronti del REITANO e SARDO nella
misura di anni sei di reclusione ed euro 26.000,00 di multa
ciascuno e nei confronti del VADALA’ nella misura di anni quattro
e mesi otto di reclusione ed euro 18.000,00 di multa.
Pene così determinate:

– per REITANO e SARDO, pena base anni sei di reclusione ed euro
26.000,00 di multa, aumentata ex art. 7 I. n. 203/1991 alla pena
di anni nove di reclusione ed euro 39.000,00 di multa, diminuita
per il rito ad anni sei di reclusione ed euro 26.000,00 di multa
ciascuno;
– per VADALA’, previa applicazione della disciplina sanzionatoria
introdotta con I. n. 46/2006, pena base anni sei di reclusione ed
euro 26.000,00 di multa, aumentata ex art. 112 n. 1 cod. pen. ad
anni sette di reclusione ed euro 27.000,00 di multa, diminuita per
il rito ad anni quattro e mesi otto di reclusione ed euro 18.000,00
di multa.
3. Avverso detta sentenza proponevano, con distinti atti, nuovo
ricorso per cassazione REITANO Giovanni, SARDO Carmelo e
VADALA’ Giuseppe.
Il primo (REITANO Giovanni) lamentando:
– (primo motivo), violazione dell’art. 606, comma 1 lett. b) cod.
proc. pen. in relazione all’art. 7 I. n. 203/1991 (erronea
applicazione della legge penale);
– (secondo motivo), violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod.
proc. pen. (mancanza o manifesta illogicità della motivazione
quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato).
In relazione al primo motivo, lamenta il ricorrente come già il
Giudice dell’udienza preliminare, pur avendo escluso nella parte
motivazionale della sentenza (pag. 129), con riferimento ai capi
7-8 (questi imputati al REITANO) nonchè 9-10, l’aggravante
dell’art. 7 I. n. 203/1991, non ne avesse poi tenuto conto nella
parte dispositiva (pag. 137) né, prima ancora nella parte (pag.
133), relativa al calcolo della pena laddove l’aggravante era stata
considerata

quoad poenam:

invero, il giudice dell’udienza

preliminare, per arrivare alla condanna definitiva di anni dieci e

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mesi quattro di reclusione, era partito da una pena base relativa
al capo 7, di anni dieci di reclusione, l’aveva aumentata di anni
cinque di reclusione a norma dell’art. 7 I. n. 203/1991, l’aveva
ulteriormente aumentata di mesi sei di reclusione a norma
dell’art. 81 cod. pen. in relazione al capo 8, l’aveva infine ridotta
di un terzo a norma dell’art. 442, comma 2 cod. proc. pen.,
fissandola in anni dieci e mesi quattro di reclusione.

Nella successiva sentenza di secondo grado resa dalla Corte
d’Appello di Catania in data 17.06.2009, i giudici del gravame,
nell’assolvere l’imputato dalla contestazione associativa (capo 7)
ritenendo che vi fosse prova della penale responsabilità del
REITANO solo in ordine al reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/90
(capo 8), avevano rideterminato la pena finale in anni sei di
reclusione ed euro 26.000,00 di multa senza fare alcun cenno alla
circostanza aggravante di cui all’art. 7 I. n. 203/1991. Pena finale,
sostanzialmente confermata dalla Corte d’Appello di Catania nella
sentenza del 14.05.2012, conseguente al rinvio operato dalla
Suprema Corte ed oggetto del presente gravame, con la seguente
motivazione: “… osserva la Corte che, nella determinazione del
trattamento sanzionatorio nei limiti enunciati dalla Suprema
Corte, non può essere eliminata l’aggravante di cui all’art. 7 legge
203/1991 che, sebbene esclusa nella parte motiva della sentenza
di primo grado, è stata riconosciuta nel dispositivo in quanto, per
costante orientamento giurisprudenziale di legittimità, nel caso di
contrasto tra motivazione e dispositivo della sentenza (come nella
fattispecie) prevale quest’ultimo poiché il dispositivo, quale
espressione del comando del giudice, attua la volontà della legge
nel caso concreto e solo su di esso si forma il giudicato, mentre la
motivazione ha funzione strumentale”.
In relazione al secondo motivo, lamenta il ricorrente come la
sentenza oggetto del presente gravame, dopo essersi limitata come si è visto – a richiamare il principio di prevalenza del
dispositivo sulla parte motiva, aveva omesso di esplicitare le
ragioni per le quali aveva ritenuto ricorrere l’aggravante in parola,
“superando” le argomentazioni addotte al riguardo dal giudice di
prime cure.
Il secondo (SARDO Carmelo) lamentando:

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- (motivo unico), violazione dell’art. 606, comma 1 lett. b) e c)
cod. proc. pen. in relazione all’art. 627, comma 3 cod. proc. pen.
In relazione a detto motivo, lamenta il ricorrente – in posizione
del tutto speculare rispetto a quella del REITANO – come la Corte
d’Appello di Catania, nella sentenza del 14.05.2012, aveva
disatteso il principio di diritto fissato con la sentenza di
annullamento pronunciata dalla Suprema Corte n. 1666 in data

06.10.2010, errando nell’individuazione della pena da applicare:
invero, la Suprema Corte, nell’imporre rinvio a nuovo giudice di
merito, aveva individuato il

vulnus

da rimuovere nella

rideterminazione della pena per il SARDO in relazione all’art. 73
d.P.R. n. 309/1990 (quindi, nell’ipotesi non aggravata ex art. 7 I.
n. 203/1991), non essendo stato esplicitato se la riduzione per il
rito fosse stata, o meno, tenuta in conto. Indice rivelatore della
mancata applicazione della diminuente era riscontrata nella
misura della pena – anni sei di reclusione ed euro 26.000,00 di
multa – coincidente con il minimo della pena, come innovato dalla
novella del 2006.
Censurabile poi l’argomento speso in ordine al superamento della
dicotomia tra motivazione e dispositivo avvalendosi del criterio
della prevalenza del secondo sulla prima: invero, attesa la
funzione della motivazione di spiegazione e chiarimento delle
ragioni per cui il giudice è pervenuto alla decisione assunta, la
motivazione ben può contenere elementi certi e logici che facciano
ritenere errato il dispositivo o parte di esso.
Il terzo (VADALA’ Giuseppe) lamentando:
– (motivo unico), violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod.
proc. pen. (mancanza di motivazione e manifesta illogicità della
motivazione in ordine ai criteri di applicazione della pena ai sensi
degli artt. 132-133 cod. pen.).
In relazione a detto motivo, il ricorrente – condannato in primo
grado, all’esito di giudizio abbreviato, alla pena di anni cinque e
mesi sei di reclusione e L. 34.000.000 di multa in relazione al
reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/1990, condanna confermata
in grado di appello – lamenta l’eccessività della sanzione irrogata
che non enuncia in maniera sufficiente gli elementi scelti per la
formulazione del giudizio globale, e ciò tenuto conto della

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mancanza di precedenti specifici e dell’assenza di pregiudizi penali
in capo al VADALA’. A questo si deve aggiungere:
-la risalenza nel tempo dei fatti-reato (commesso oltre sedici anni
addietro);
-la mancanza a tutt’oggi di carichi pendenti;
– l’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche con
finalità adeguatrici alla sanzione irrogata;

– il non considerato finalismo rieducativo della pena, in violazione
del disposto dell’art. 27, comma 3 Cost..

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. I ricorsi di REITANO e SARDO sono fondati e, come tale, vanno
accolti; il ricorso di VADALA’ e invece manifestamente infondato e,
come tale, va dichiarato inammissibile.
5. L’unicità di tema impone la trattazione unitaria dei motivi di
ricorso proposti nell’interesse del REITANO e del SARDO.
La Suprema Corte, nella sentenza n. 1666 del 06.10.2010,
nell’imporre rinvio a nuovo giudice di merito, aveva individuato il
vulnus

da rimuovere nella rideterminazione della pena nei

confronti del SARDO e del REITANO in relazione all’art. 73 d.P.R.
n. 309/1990, non essendo stato esplicitato se la riduzione per il
rito fosse stata, o meno, tenuta in conto: indice rivelatore della
mancata applicazione della diminuente era riscontrata nella
misura della pena, anni sei di reclusione ed euro 26.000,00 di
multa, coincidente con il minimo edittale, come innovato dalla
novella del 2006.
Nel giudizio di merito, sia il SARDO che il REITANO erano chiamati
a rispondere dei reati di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/1990 (capo 7
della rubrica) e all’art. 73 d.P.R. n. 309/1990 (capo 8 della
rubrica), entrambe le fattispecie originariamente aggravate ai
sensi dell’art. 7 I. n. 203/1991. All’esito del giudizio di primo
grado, svoltosi nelle forme del rito abbreviato, il Giudice per
l’udienza preliminare emetteva sentenza di condanna per
entrambi i capi d’imputazione e condannava il SARDO ed il
REITANO alla complessiva pena di anni dieci e mesi quattro di
reclusione ciascuno. Nella parte motiva della sentenza (pag. 133),

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il giudice di primo grado dettagliava il calcolo effettuato per la
determinazione della pena nei seguenti termini: “PB capo 7 (art.
74.2) anni 10 di reclusione + 5 anni ex art. 7 L. 203/91 + 6 mesi
ex art. 81 c.p. (capo 8) – 1/3 ex art. 442.2 c.p.p. = 10 anni e 4
mesi di reclusione”. In tal senso recitava il dispositivo: “Reitano
Giovanni colpevole dei reati a lui ascritti (capi 7 e 8), esclusa
l’aggravante ex art. 74.3 d.P.R. n. 309/90, riuniti sotto il vincolo

della continuazione, e, applicata la diminuente ex art. 442.2
c.p.p., lo condanna alla pena di 10 anni e 4 mesi di reclusione.
Sardo Carmelo colpevole dei reati a lui ascritti (capi 7 e 8),
esclusa l’aggravante ex art. 74.3 d.P.R. n. 309/90, riuniti sotto il
vincolo della continuazione, e, applicata la diminuente ex art.
442.2 c.p.p., lo condanna alla pena di 10 anni e 4 mesi di
reclusione”.

Peraltro, nella precedente pag. 129 della stessa

sentenza, al punto 3 della decisione, il giudice, dopo aver
premesso presupposti e

ratio

dell’aggravante, concludeva

letteralmente: “Tuttavia, nei casi in esame, con riferimento alle
imputazioni delle quali ai capi 7-8 e 9-10 deve rilevarsi che – al di
là della ragionevolezza della ipotesi affermativa – non emergono
specifiche circostanze per concludere che coloro che in questa
sede vengono condannati per i reati suddetti abbiano agito
avvalendosi delle condizioni indicate nell’art. 7 L. 203/91 o al fine
di agevolare l’attività dell’associazione delineata nel capo 1 delle
imputazioni”.
Fermo quanto precede, non può essere messo in dubbio come il
giudice di primo grado, nel motivare la propria decisione, abbia
inconfutabilmente evidenziato la sua valutazione negativa in
ordine alla sussistenza della circostanza aggravante contestata; e
ciò, con giudizio da estendere alla generalità degli imputati
coloro che in questa sede vengono condannati”)

(“a

sulla scorta,

quindi, di un giudizio oggettivo applicabile ed estensibile a tutti i
coimputati. Ma è parimenti innegabile che, contraddicendo la
premessa motivazionale, il giudice espliciti, nella ricostruzione
analitica della dosimetria della pena, l’applicazione dell’aggravante
in relazione, però, esclusivamente, al reato più grave (art. 74
d.P.R. n. 309/1990). Va infatti ribadito che la sanzione
determinata per il capo 8 (art. 73 d.P.R. n. 309/1990), posto in

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continuazione con quello di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/1990, è di
mesi sei di reclusione, senza alcuna menzione dell’aggravante di
cui all’art. 7 I. n. 203/1991. Se, pertanto, la sentenza in relazione
al capo 7 è palesemente contraddittoria, nessuna incertezza si ha
in riferimento al reato di cui al capo 8; in ogni caso, la Corte del
rinvio compie un chiaro errore di diritto attardandosi su un capo di
sentenza oggetto di riforma da parte della Corte d’Appello del

primo giudizio ed affermando il principio della prevalenza del
dispositivo sulla motivazione in ipotesi di divergenza: principio
che, come si preciserà nel prosieguo, si scontra insanabilmente
con il principio del

favor rei,

non solo sotto un profilo

squisitamente quantitativo, ma anche qualitativo della pena,
atteso che l’applicazione dell’aggravante in parola precluderebbe
per i prevenuti ad una serie di benefici anche in sede esecutiva.
Come è noto, all’orientamento secondo cui il contrasto tra
dispositivo e motivazione non determina nullità della sentenza,
ma si risolve con la logica prevalenza dell’elemento decisionale su
quello giustificativo, potendosi eliminare eventualmente la
divergenza mediante ricorso alla semplice correzione dell’errore
materiale della motivazione in base al combinato disposto degli
artt. 547 e 130 cod. proc. pen. (cfr., ex multis, Cass., Sez. 5, n.
22736 del 23/03/2011-dep. 07/06/2011, Corrado e altri, rv.
250400), se ne oppone altro in base al quale il principio della
prevalenza dell’elemento decisionale su quello giustificativo non
può costituire un canone interpretativo inderogabile, attesa
l’ampia gamma dei contrasti che possono in proposito sussistere
(Cass., Sez. 3, n. 38269 del 25/09/2007-dep. 17/10/2007,
Tafuro, rv. 237828; Cass., Sez. 4, n. 27976 del 24/06/2008-dep.
09/07/2008, P.G. in proc. Adame, rv. 240379; Cass., Sez. 1, n.
37536 del 07/10/2010-dep. 20/10/2010, confl. comp. in proc.
Davilla, rv. 248543). Di conseguenza, si ritiene che la regola
generale secondo la quale, in caso di difformità, il dispositivo
prevale sulla motivazione della sentenza incontra una deroga nel
caso in cui l’esame della motivazione consenta di ricostruire
chiaramente ed inequivocabilmente il procedimento seguito dal
giudice per determinare la pena (cfr., Cass., Sez. 3, n. 19462 del
20/02/2013-dep. 06/05/2013, Dong, rv. 255478). L’orientamento

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in questione muove dall’esigenza di risolvere quei casi in cui la
divergenza dipende da un evidente errore materiale,
obiettivamente riconoscibile, contenuto nel dispositivo e, sul
presupposto – assolutamente condivisibile – che in questa
evenienza il contrasto è solo apparente, si ritiene legittimo il
ricorso alla motivazione per chiarire l’effettiva portata della
motivazione al fine di individuare l’errore e di eliminarne gli effetti

(Cass., Sez. 6, n. 25704 del 23/05/2003-dep. 12/06/2003, Below,
rv. 226048). Ed è questo che si è verificato nel caso in esame,
essendo evidente infatti che la Corte d’Appello, nella sentenza del
2009, nel riformare in melius la sentenza impugnata, assolvendo
SARDO e REITANO dall’accusa di partecipazione ad associazione
ex art. 74 d.P.R. n. 309/1990, abbia rideterminato la pena per la
residua ipotesi di reato di cui al capo 8 della rubrica senza tenere
conto dell’aggravante, attestandosi al minimo edittale e
dimenticando, per una mera svista, di esplicitare e considerare la
diminuente del rito abbreviato, che avrebbe diminuito la pena
finale fissandola in anni quattro di reclusione ed euro 17.333,00 di
multa.
Questa conclusione è l’unica in grado di suffragare quanto
disposto e deciso dal giudice di primo grado (riconoscimento
dell’aggravante solo per l’ipotesi associativa me non per
l’esplicitazione della condotta dei singoli reati fine) e fatta propria
anche dalla Corte d’Appello che, accogliendo i motivi di gravame,
aveva annullato gli effetti dell’aggravante e si era trovata nella
necessità di rideterminare la sanzione unicamente per la residua
fattispecie di detenzione e spaccio di stupefacenti di cui al capo
8). E, poiché per questo capo, in ossequio alla parte motiva della
decisione che indicava le ragioni della ritenuta non integrazione
dei presupposti dell’aggravante

de qua,

non vi era stata

applicazione o calcolo dell’aumento, la Corte d’Appello non
avrebbe potuto far rivivere ciò che anche il giudice dell’udienza
preliminare aveva escluso, sia in motivazione che in dispositivo:
da qui la necessità del dimensionamento della pena nel minimo
edittale introdotto, medio tempore, dalla novella del 2006, quale
elemento di giudizio da tenere in conto nella nuova e più esplicita
determinazione della sanzione, alla luce della necessaria incidenza

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della diminuente conseguente alla scelta del rito abbreviato. La
Corte del giudizio di rinvio, non facendo riferimento alcuno alla
sentenza della prima Corte di merito di secondo grado,
soffermandosi erroneamente sulla sentenza di primo grado,
“tradisce” il senso del rinvio e del principio di diritto fissato da
questa Corte di legittimità.
Ne consegue pertanto che, con riferimento ai ricorsi proposti da

SARDO Carmelo e da REITANO Giovanni, la sentenza impugnata
deve essere annullata senza rinvio in relazione alla quantificazione
della pena nei confronti dei sunnominati SARDO e REITANO
Giovanni, che, in questa sede, va rideterminata in anni quattro di
reclusione ed euro 17.333,00 di multa per ciascuno dei due
imputati.
6. Prima di passare alla trattazione dei motivi di ricorso di VADALA’
Giuseppe, si ritiene necessario premettere, con riguardo ai limiti
del sindacato di legittimità, delineati dall’art. 606, comma 1,
lettera e), cod. proc. pen., come vigente a seguito delle modifiche
introdotte dalla L. n. 46 del 2006, che, a parere di questo
Collegio, la predetta novella non ha comportato la possibilità, per
il giudice della legittimità, di effettuare un’indagine sul discorso
giustificativo della decisione finalizzata a sovrapporre una propria
valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il
giudice della legittimità limitarsi a verificare l’adeguatezza delle
considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per
sottolineare il suo convincimento. La mancata rispondenza di
queste ultime alle acquisizioni processuali può, soltanto ora,
essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d.
travisamento della prova, purché siano indicate in maniera
specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state
travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli
atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura
senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte, e non ne
sia effettuata una monca individuazione od un esame
parcellizzato.
L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, poi, deve
risultare di spessore tale da risultare percepibile

ictu ocu/i,

dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a

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rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime
incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive
che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente
incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in
modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi
giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere
tuttora condivise, Cass., Sez. un., n. 24 del 24/11/1999-dep.

16/12/1999, Spina, rv. 214794; Id., n. 12 del 31/05/2000-dep.
23/06/2000, Jakani, rv. 216260; Id., n. 47289 del 24/09/2003dep. 10/12/2003, Petrella, rv. 226074). A tal riguardo, deve
tuttora escludersi sia la possibilità di un’analisi orientata ad
esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti, nonché i
motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte
circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi (Cass., Sez.
6, n. 14624 del 20/03/2006-dep. 27/04/2006, Vecchio, rv.
233621; Cass., Sez. 2, n. 18163 del 22/04/2008-dep.
06/05/2008, Ferdico, rv. 239789), che la possibilità per il giudice
di legittimità di una rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e
diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass.,
Sez. 6, n. 27429 del 04/07/2006-dep. 01/08/2006, Lobriglio, rv.
234559; Id., n. 25255 del 14/02/2012-dep. 26/06/2012,
Minervini, rv. 253099).
H ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell’art.
606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. intenda far valere il vizio
di «travisamento della prova» (consistente nell’utilizzazione di
un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di
una prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio,
travisato od omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito
dell’apparato motivazionale sottoposto a critica) deve, inoltre, a
pena di inammissibilità (Cass., Sez. 1, n. 20344 del 18/05/2006dep. 14/06/2006, Salaj, rv. 234115; Cass., Sez. 6, n. 45036 del
02/12/2010-dep. 22/10/2010, Damiano, rv. 249035):
(a) identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda
la doglianza;
(b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale
atto emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la

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ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;
(c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato
probatorio invocato, nonché dell’effettiva esistenza dell’atto
processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori
ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento;
(d) indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia
e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera

coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale
“incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del
provvedimento impugnato.
Il giudice di legittimità ha, ai sensi del novellato art. 606 cod.
proc. pen., il compito di accertare (Cass., Sez. 6, n. 35964 del
28/09/2006-dep. 26/10/2006, Foschini ed altro, rv. 234622;
Cass., Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009-dep. 12/10/2009,
Belluccia ed altro, rv. 244623; Cass., Sez. 5, n. 39048 del
25/09/2007-dep. 23/10/2007, Casavola ed altri, rv. 238215):
(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra
individuati);
(b) la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve
essere tale da disarticolare l’intero ragionamento del giudicante o
da determinare almeno una complessiva incongruità della
motivazione);
(c)

l’esistenza di una radicale incompatibilità con

l’iter

motivazionale seguito dal giudice di merito e non di un semplice
contrasto (non essendo il giudice di legittimità obbligato a
prendere visione degli atti processuali anche se specificamente
indicati, ove non risulti detto requisito);
(d) la sussistenza di una prova omessa o inventata, e del c.d.
«travisamento del fatto», ma solo qualora la difformità della realtà
storica sia evidente, manifesta, apprezzabile ictu °cui/ ed assuma
anche carattere decisivo in una valutazione globale di tutti gli
elementi probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio
valutativo non sindacabile in sede di legittimità se non
manifestamente illogico quindi, anche contraddittorio).
Anche il giudice d’appello non è tenuto a rispondere a tutte le
argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacché le stesse
possono essere disattese per implicito o per aver seguito un

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differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la
ricostruzione effettuata (per tutte, Cass., Sez. 6, n. 1307 del
26/09/2002-dep. 14/01/2003, Delvai, rv. 223061).
In presenza di una doppia conforma affermazione di
responsabilità, va, peraltro, ritenuta l’ammissibilità della
motivazione della sentenza d’appello per relationem a quella della
decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la

sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti
diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di
appello, nell’effettuazione del controllo della fondatezza degli
elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a
riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei
motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice,
con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non
specificamente e criticamente censurate. In tal caso, infatti, le
motivazioni della sentenza di primo grado e di appello,
fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato
organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare
riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto
più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con
criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con
frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi
logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle
sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità
(Cass., Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993-dep. 04/02/1994,
Albergamo ed altri, rv. 197250; Cass., Sez. 3, n. 13926 del
10/12/2011-dep. 12/04/2012, Valerio, rv. 252615).
Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione
«oltre ogni ragionevole dubbio», presente nel testo novellato
dell’art. 533 cod. proc. pen. quale parametro cui conformare la
valutazione inerente all’affermazione di responsabilità
dell’imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell’icastica
espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono
fondamento il principio costituzionale della presunzione di
innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è
permeato il nostro sistema processuale. Si è, in proposito,
esattamente osservato che detta espressione ha una funzione

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meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in
precedenza, il «ragionevole dubbio» sulla colpevolezza
dell’imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a
norma dell’art. 530, comma 2 cod. proc. pen., sicché non si è in
presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della
prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di
rito, ma è stato ribadito il principio, già in precedenza immanente

nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da
essere già stata adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte
Suprema – per tutte, cfr. Cass., Sez. un., n. 30328 del
10/07/2002-dep. 11/09/2002, Franzese, rv. 222139 – e solo
successivamente recepita nel testo novellato dell’art. 533 cod.
proc. pen.), secondo cui la condanna è possibile soltanto quando
vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità
dell’imputato (cfr. Cass., Sez. 2, n. 19575 del 21/04/2006-dep.
07/06/2006, Serino ed altro, rv. 233785; Id., n. 16357 del
02/04/2008-dep. 18/04/2008, Crisiglione, rv. 239795; Id., n.
7035 del 09/11/2012-dep. 13/02/2013, De Bartolomei ed altro,
rv. 254025).
Alla luce di queste necessarie premesse va esaminato l’odierno
ricorso del VADALA’.
Ritiene il Collegio come nel provvedimento impugnato i giudici di
merito abbiano correttamente esercitato il potere discrezionale di
determinazione della pena dando contezza, mediante adeguata
motivazione, delle modalità di calcolo della sanzione finale
irrogata che prevede l’applicazione del trattamento sanzionatorio
più favorevole al reo. Si legge infatti nel provvedimento come nei
confronti del VADALA’ “… tenuto conto del favor rei, si applica la
nuova disciplina sanzionatoria introdotta con legge 46/06; pena
base anni sei di reclusione ed euro 26.000,00 di multa, aumentata
ex art. 112 n. 1 cod. pen. (come esplicitato a pag. 134 della
sentenza di primo grado) alla pena di anni sette di reclusione ed
euro 27.000,00 di multa, ridotta per il rito scelto alla pena di anni
quattro e mesi otto di reclusione ed euro 18.000,00 di multa”. Gli
elementi indicati nell’art. 133 cod. pen., da ritenersi globalmente
considerati, hanno fatto ritenere congruo l’operato aumento di
pena ex art. 112 n. 1 cod. pen. (la pena base era già stata fissata

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nel minimo edittale); correttamente, infine, nella sentenza
impugnata si disattende ogni decisione in merito all’eventuale
concessione delle circostanze attenuanti generiche, beneficio già
disatteso in primo grado e non oggetto di richiesta in sede di
gravame (cfr., ex multis, Cass., Sez. 1, n. 2176 del 20/12/1993 dep. 21/02/1994, Etzi ed altro, rv. 196414).
7. Alla pronuncia di inammissibilità del ricorso proposto nell’interesse

condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali
nonché, valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, la
condanna al pagamento della somma di Euro 1.000,00 a favore
della Cassa delle ammende

PQM

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di REITANO
Giovanni e SARDO Carmelo limitatamente alla quantificazione della pena
che ridetermina in anni quattro di reclusione ed euro 17.333,00 di multa
per ciascuno; dichiara inammissibile il ricorso di VADALA’ Giuseppe che
condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro
1.000,00 a favore della Cassa delle ammende.
Così deliberato in Roma, in udienza pubblica del 16.1.2014

di VADALA’ Giuseppe consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la

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