Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5519 del 22/10/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 5519 Anno 2014
Presidente: GENTILE DOMENICO
Relatore: TADDEI MARGHERITA

SENTENZA
Sul ricorso proposto da
Campo Giuseppe, nato a Fondachelli Fantina il 16.2.1961
avverso la sentenza 165/2013 della Corte d’appello di Massina, sezione penale,

Data Udienza: 22/10/2013

del 19.11.2012;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Margherita B. Taddei;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale, Fulvio
Baldi , che ha concluso per l’annullamento con rinvio ed in subordine per la
remissione alle SS.UU. della questione relativa alla sentenza di patteggiamento;

RITENUTO IN FATTO

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El

1.Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Messina ha
confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Barcellona P.d.G. del 11.3.2009,
che aveva condannato Campo Giuseppe, per il reato di possesso ingiustificato di
arnesi atto allo scasso, alla pena di quattro mesi di arresto.
1.1 Avverso tale sentenza propone ricorso il difensore dell’imputato,avvocato
Tommaso Calderone ,chiedendo l’annullamento della sentenza e denunciando il
vizio di motivazione
Campo aveva la disponibilità di un’autovettura Volkswagen di proprietà della
moglie;
b) per l’insussistenza della condizione di condannato ,elemento costitutivo della
fattispecie di reato ascritta all’imputato, avendo l’imputato, come precedente solo
una sentenza di patteggiamento;
c)la perquisizione nel domicilio del Campo è stata eseguita fuori dai parametri
che la legittimavano, essendo intervenuta ai sensi dell’art.41 T.U.L.P.S. e
continuata nonostante non fossero state rinvenute armi. Ne consegue la nullità
di detta perquisizione e degli atti successivi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2.11 primo motivo di ricorso è manifestamente infondato perché vi si prospetta una mera
alternativa ricostruzione dei fatti in relazione agli elementi probatori emersi dei quali si
deduce una diversa valutazione. Affinché sia ravvisabile una manifesta illogicità

argomentativa della motivazione del provvedimento impugnato, denunciabile
come vizio per cassazione ,non basta rappresentare la mera possibilità di
un’ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta in sentenza: al riguardo il
principio giurisprudenziale di questa S.C. è antico e consolidato ( cfr. n.

a) per travisamento della prova,essendo emerso pacificamente dall’istruttoria che

12496/99 ; n. 1685 /98; n. 7252 /99; n. 13528 /98; n. 5285 / 98 ; SS.UU. n.
6402 /97; SS.UU. n. 16 /96; n. 1213/84 e numerosissime altre).
2.1 Anche il secondo di ricorso è manifestamente infondato. E’ infatti principio
giurisprudenziale datato e non controverso della giurisprudenza più qualificata di questa
Corte che “L’inosservanza delle formalità prescritte dalla legge ai fini della legittima

acquisizione della prova nel processo non è, di per sè, sufficiente a rendere
quest’ultima inutilizzabile, per effetto di quanto disposto dal primo comma dell’art.
191 cod. proc. pen.. Ed invero, quest’ultima norma, se ha previsto l’inutilizzabilità
come sanzione di carattere generale, applicabile alle prove acquisite in violazione
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ai divieti probatori, non ha, per questo, eliminato lo strumento della nullità, in
quanto le categorie della nullità e dell’inutilizzabilità, pur operando nell’area della
patologia della prova, restano distinte e autonome, siccome correlate a diversi
presupposti, la prima attenendo sempre e soltanto all’inosservanza di alcune
formalità di assunzione della prova – vizio che non pone il procedimento formativo o
acquisitivo completamente al di fuori del parametro normativo di riferimento, ma
questo non rispetta in alcuni dei suoi peculiari presupposti – la seconda
illegittimità oggettiva, ovvero per effetto del procedimento acquisitivo, la cui
manifesta illegittimità lo pone certamente al di fuori del sistema processuale”. va
anche evidenziato che il sequestro di cose pertinenti al reato, è comunque ed in
ogni situazione un atto dovuto che prevale su una ricerca della prova non
rituale.SS.UU.n.5021/1996 Rv. 204644 .Non vi sono motivi validi per discostarsi
dal predetto principio ; ne deriva che il motivo di ricorso è manifestamente
infondato.
2.2 Anche il motivo relativo alla natura della sentenza di patteggiamento non è
fondato. La fattispecie di cui all’art.707 cod.pen prevede,tra l’altro, anche il
presupposto giuridico che il soggetto autore sia stato condannato per delitti
determinati da motivi di lucro e ci si è chiesto se la condanna patteggiata ai sensi
dell’art.444 cod.proc.pen. , attesa la sua mera equiparazione ad una sentenza di
condanna possa configurare il predetto presupposto.
Una prima pronuncia ,proprio di questa sezione della Corte, ha preso posizione
sul punto affermando che la sentenza di patteggiamento non è una sentenza di
condanna ma a questa è solamente equiparata quanto agli effetti, e tra gli effetti
non rientra l’assunzione della condizione di persona già condannata. ( n.21423
del 2006 rv 234342). Ma successivamente , due sentenze di questa stessa
sezione della Corte,la n.49281 del 2012 rv 255233 e la n.29448 del 2013 rv
256355 , hanno approfonditamente rivisitato quella prima pronuncia, alla luce
non solo delle sostanziali modifiche legislative introdotte al rito patteggiato dalla
legge n. 134/2003, ma anche dell’analisi svolte dalle pronunce più qualificate di
questa Corte sull’argomento, pervenendo entrambe ad una valutazione
sostanzialmente difforme da quella prima pronuncia ma sicuramente attraverso
un percorso interpretativo assai esaustivo e convincente che questo collegio
ritiene di dover condividere e fare proprio .Entrambe le pronunce hanno rilevato
che l’affermazione iniziale secondo cui la sentenza ex art. 444 c.p.p. non implica

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presupponendo, invece, la presenza di una prova “vietata” per la sua intrinseca

un vero e proprio accertamento penale merita di essere totalmente rivisitata alla
luce sia della possibilità di essere assoggettata a revisione – e, in particolare, a
quella di cui alla lett. a) dell’art. 630 c.p.p., che presuppone un accertamento di
responsabilità — sia della sua vincolatività nel giudizio per responsabilità
disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della
sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo
ha commesso (su tale vincolatività e sui suoi limiti v. Cass. S.U. civ. n. 18701 del
17781 del 29.11.2009, a concludere la loro penetrante disamina sull’argomento
affermando la necessità di un ritorno al regime della equiparazione della
sentenza di patteggiamento a quella di condanna in termini di assoluto rigore
ermeneutico. Tale conclusione, peraltro, pur non implicando un processo di
vera e propria identificazione tra i due tipi di pronuncia, sta nondimeno
univocamente a significare che il regime di equiparazione ora codificato , non
consente di rifuggire dall’applicazione di tutte le conseguenze penali della
sentenza di condanna che non siano categoricamente escluse. E’ stato già detto
(rv255233) che sul punto la Corte Costituzionale — dopo aver evidenziato i
condivisi motivi che hanno portato le Sezioni Unite ad affermare il principio di
diritto di cui sopra (Cass., Sez. un., 29 novembre2005, n. 17781/06) — ha
rilevato che “spetta dunque al Legislatore, in questa prospettiva, prescegliere, nei

confini che contraddistinguono il normale esercizio della discrezionalità legislativa,
quali siano gli effetti che – in deroga al principio “di sistema” che parifica le due
sentenze – diversificano, fra loro, la sentenza di condanna pronunciata all’esito del
patteggiamento rispetto alla condanna pronunciata all’esito del giudizio ordinario.
Una logica, dunque, del tutto antitetica rispetto a quella presupposta dal Collegio
rimettente (che sembra essere anche quella seguita nella sentenza di questa Corte
n. 21423 del 2006, oggetto di critica; nds), il quale, invece, muove dalla erronea
tesi di ritenere che gli effetti del patteggiamento debbano “ontologicamente”
differenziarsi da quelli della sentenza ordinaria, salvo le deroghe – espressamente
previste – che “assimilino” le conseguenze derivanti dai due tipi di pronunce”
(Sentenza della Corte Cost. n. 336 del 14 dicembre 2009). Ne consegue che la
sentenza di patteggiamento, in ragione dell’equiparazione legislativa ad una
sentenza di condanna ed in mancanza di un’espressa previsione di deroga
fissata esclusivamente per legge, produce gli stessi effetti della sentenza di
condanna pronunciata all’esito del giudizio ordinario ed,in assenza di una norma

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31.10.12) elementi che hanno indotto le Sezioni Unite, con la pronuncia n.

che

preveda che la sentenza di condanna pronunciata all’esito del

patteggiamento non debba essere considerata il presupposto della
contravvenzione di cui all’art. 707 del cod. pen., anche in tal caso la sentenza dì
applicazione della pena su richiesta delle parti costituisce — come una sentenza
di condanna pronunciata all’esito del giudizio ordinario – il presupposto previsto
dall’art. 707 cod. penale.
Per i motivi che precedono il ricorso deve essere rigettato: al rigetto consegue la
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 22 ottobre 2013
Il Co

tensore

Il Presidente

condanna alle spese.

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